Il DNA: «spazio-memoria insufficiente»

'I segreti del DNA non stanno tutti nel DNA, stanno «altrove». Una critica alla narrativa materialista-darwinista e ai «dogmi induriti» della scienza d''oggi. [M. Blondet]'

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14 Ottobre 2013 - 13.53


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di Maurizio Blondet* –  su concessione di effedieffe.com.



A
noi non addetti ai lavori non l’hanno spiegato, anzi hanno confuso le
acque per mantenere la «narrativa» materialista-darwinista: ma il
costosissimo Human Genome Project, che annunciava trionfalmente
di completare la «mappa» dei geni del nostro DNA e quindi di illuminare
«tutte» le istruzioni per creare un essere umano – non solo il corpo, i
complicatissimi processi bio-molecolari, la predisposizione a certe
malattie ma persino i comportamenti istintivi ereditari – è già fallito.
È fallito già dal 2000, quando lo stesso Human Genome Project ha
pubblicato la prima mappa, supposta completa, del nostro DNA.

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Spieghiamo: ogni cellula del nostro organismo, sia un globulo rosso, una cellula di muscolo o di fegato o pancreas, contiene per intero
il nostro specifico DNA. Sicché in ogni cellula – così suppongono i
genetisti – sono contenute tutte le istruzioni per creare una vita
umana, con tutte le sue funzioni fisiologiche, le strutture fisiche e
mentali, tutti i caratteri anche non fisici ereditati dai genitori.

Negli anni ’90 s’era già mappato il DNA del celebre moscerino della
frutta, e scoperto che esso ha più o meno 15 mila geni. Il lombrico ha
circa 20 mila geni codificanti – ossia ogni gene contiene le istruzioni
per codificare una proteina del verme. Data l’enorme maggiore
complessità, raffinatezza dell’essere umano, con le sue diversissime e
complessissime funzioni, i genetisti erano convinti che noi avremmo
dovuto avere come minimo, 100 mila geni – anzi i più propendevano per 2
milioni. Era la tipica visione materialista: più complessità, più basi
materiali per spiegarla, più geni…

Nel 2000, la mappa prodotta finalmente dallo Human Genome Project, rivelò la verità: il DNA dell’organismo umano ha solo circa 20 mila geni codificatori di proteine. Come il verme, e poco più del moscerino.

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Naufragava il mito
che la genetica bastasse a spiegare da sola tutti i caratteri della
vita umana e del suo sviluppo; men che meno che si potessero curare
tutte le malattie a livello genetico. Vero è che questa mitologia
continua a trionfare: ma solo sui media della «divulgazione
scientifica», ad uso e consumo del pubblico generale – che deve credere
che ogni mistero ha una spiegazione fisica e materiale, e che la scienza
sta sul punto di spiegarlo, basta attendere ancora un poco…

No, non potrà mai. I segreti del DNA non stanno tutti nel DNA, stanno «altrove». Lo comprova un esperto di computer science
di nome Mike Adams, che ha al suo attivo una carriera di ricerca e
sviluppo di software e architetture elettroniche, e diffonde una
newsletter tecnologica chiamata Arial Sofware. Non un genetista
dunque ma un matematico esperto di computer, che ha sottoposto a
verifica il mito genetico usando i criteri di computer science. (The big lie of genetics exposed: human DNA incapable of storing complete blueprint of the human form)

Ricapitolo i suoi ragionamenti: abbiate pazienza, e troverete che sono chiarissimi.

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Il genoma umano (la mappa del nostro DNA) contiene circa 3 miliardi di
«coppie di basi» di geni. Le «basi» di qualunque DNA sono solo quattro,
Adenina (A), Timina (T), Citosina (C), Guanina (G). Ogni «coppia di
basi» può esistere dunque solo in una delle quattro combinazioni
possibili. Perché il DNA, ecco un’altra scoperta, ha formato digitale,
come il software, e come le «memorie» del computer. Dunque Adams
considera che ogni coppia equivale a 2 bit di dati binari, che si
possono combinare nelle quatto possibili combinazioni:

00
01
10
11

Ora, le memorie dei calcolatori immagazzinano informazioni proprio in
questa forma. Più precisamente: in byte, che sono otto bits di dati, per
esempio così:

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01011010

Dunque quattro coppie di basi
nel DNA, formano un byte, un ottetto. Ebbene: sapendo che nel DNA umano
ci sono circa 3 miliardi di bits (coppie di basi), Adams ha facilmente
potuto calcolare quant’è la «capacità di memoria» (data storage capacity). Del nostro genoma. Tenetevi forte:

Il genoma umano ha non più di 750 MB (megabite) di memoria.

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Ridicolmente piccola. Un film in un DVD occupa già più spazio che 750
MB, una pennetta che si compra per 10-12 euro può immagazzinare 20 volte
più dati del DNA. Con 750 MB di capacità, non è assolutamente possibile
«descrivere» le istruzioni per fabbricare la straordinaria complessità
dell’essere umano, con le sue funzioni fisiche inferiori e superiori,
comportamenti ereditari e potenzialità mentali.

Basta
ricordare che il nostro corpo è costituito di 60-90 mila miliardi
(trilioni) di cellule; ciascuna è un complesso eco-sistema ed un
avanzato «macchinario» che svolge complesse funzioni, dalla produzione
di energia per il suo funzionamento alla espulsione dei rifiuti; le
funzioni della membrana stupiscono per la loro complessità come
meraviglia la «centrale di comando» del nucleo. Non esistono cellule
«semplici»: ciascuna è una piccola astronave coi suoi motori, apparati
di guida, mezzi di locomozione e di alimentazione, eccetera. Di più:
l’organismo, senza contributo della nostra coscienza, rimpiazza questi
trilioni di cellule, continuamente, ogni minuto, sostituendo via via le
vecchie con le nuove, situate nel posto «giusto»: pelle, intestino,
unghie, fegato si rinnovano senza interruzione. Ogni ora, il nostro
organismo fabbrica 109 milioni di cellule del sangue. In ogni momento,
esso è capace di riparare tessuti danneggiati da una ferita o da una
aggressione microbica: il sistema immunitario è di incredibile
complessità e – fa notare Adams – adotta da sempre «nano-tecnologie»
avanzatissime impensabili per la scienza. Miliardi di reazioni chimiche
avvengono in voi ogni secondo senza che voi lo sappiate, e vi mantengono
vivo e vegeto. In più, siete forniti dalla disposizione «innata» di
respirare, camminare e di mettere a fuoco la vista; ed ancora: di
parlare, di apprendere dall’esperienza vostra e da quella altrui
(trasmessa con la cultura), eccetera.

«La semplice
catalogazione delle strutture e funzioni di tutte le cellule
richiederebbe non si sa quanti terabyte di dati – e un terabyte è un
milione di volte più grosso (come capacità di memoria) di un megabyte.
Il DNA, con 750 comici megabytes, non è un computer, ma un giocattolino
per bambini. Dal punto di vista del computerista, ha «insufficient memory», insufficiente «storage data capacity».

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È fin troppo chiaro che il genoma umano non contiene per intero il
«progetto», il «piano tecnico» di un uomo. Può dare istruzioni per
alcuni caratteri fisici (il colore degli occhi per esempio); ma dov’è,
per esempio, il software della prodigiosa «stampante 3D» – perché di
questo si tratta – che partendo dall’ovulo fecondato nell’utero materno,
e in principio si moltiplica in modo lineare – due, quattro, otto
cellule – costruisce strato per strato un neonato umano, e poi continua
farlo crescere fuori?

Lo Human Genome Project «ha
comprovato l’esatto contrario di quello che sperava lo scientismo
materialista-riduzionista: i geni, da soli, non bastano a spiegare
l’ereditarietà». Ancor oggi gli scienziati stanno frugando i dati del
genoma umano alla ricerca di qualcosa, come dei «meta-dati», ritardando
di fatto la ricerca scientifica, per non arrivare alla inevitabile
conclusione: c’è qualcosa «oltre» il DNA, qualcosa di «non fisico», un
«disegno» che inter-agisce con il DNA da «fuori» e da sopra, fornendo le
istruzioni ulteriori di cui il DNA manca.

Già alcuni medici
embriologi del primo ‘900 avevano ipotizzato l’esistenza di un
«Organizzatore» che dirigeva la moltiplicazione cellulare dell’embrione
non in modo casuale (come nel cancro), ma secondo «un piano», pari al
«lucido» che l’ingegnere ha in mano quando deve realizzare un grande
impianto, e dare istruzioni agli operai. Questa ipotesi fu ovviamente
seppellita dal ridicolo, e demonizzata come «creazionista»,
«spiritualista» e dunque non-scientifica. Oggi il Genome Project
conferma questa ipotesi, in qualche modo: il DNA non ha bastante
«capacità di memoria» per completare il grande impianto. Deve esistere
una «memoria» enormemente più grande che lo guida, da «fuori».

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Dove si trova questa memoria?

Senza ricorrere a spiritualismi, lo scienziato del computer oggi può rispondere: probabilmente, in un cloud.
La «nube» di reti e di memorie diffuse e condivise che fornisce via web
tutta la «capacità di memoria» di cui si ha bisogno (basta pagare il
fornitore del servizio), senza doversi mettere in ufficio fisicamente
armadi di supercomputer e memorie di massa.

Un biologo rivoluzionario, di nome Rupert Sheldrake, sostiene di aver dimostrato l’esistenza di tale «cloud»: lui lo chiama «campo di risonanza morfica» (da morphé,
in greco «forma»: un campo che istruisce sulla forma complessiva che
«deve» avere un organismo). Secondo lui, ogni cellula del nostro
organismo si connette a un campo di informazioni, che contiene la
«memoria» di come un essere umano deve essere: una memoria appunto
formata da centinaia di migliaia di anni, forse milioni, di «ricordi» di
organismi umani passati, e di come hanno sviluppato le loro funzioni,
ora diventate ereditarie. Qui si possono leggere in breve le idee di
Sheldrake: (MORPHIC RESONANCE AND MORPHIC FIELDS)

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L’audace Sheldrake sostiene che le cosiddetti «leggi dell’ereditarietà» sono piuttosto « qualcosa di simile ad abitudini» (habits). Se posso osare tradurre, è un po’ l’antica idea avanzata da Lamarck nel 1809: «La funzione crea l’organo» (1),
che poi viene trasferito ai discendenti: tesi ritenuta falsa e superata
dall’evoluzionismo darwiniano. La teoria dei «campi morfogenetici» dà
al lamarkismo un senso totalmente nuovo: a trasmettere i caratteri
acquisiti non sono i genitori diretti, ma «la memoria collettiva», il
«campo morfogenetico». È questo a contenere la memoria del passato di
una specie animale o vegetale, delle funzioni che si sono rivelate
utili; altre sono state invece abbandonate come dannose… Perché,
mentre il DNA non si evolve e resta fisso per milioni
di anni (con gran disdoro dei darwinisti), le «abitudini» invece si
evolvono. E possiamo vederlo nel nostro ambiente umano, nella società.
Anche noi rinunciamo ad abitudini che non ci convengono, per esempio che
non avvantaggiano la nostra vita sociale (come soffiarsi il naso con le
dita, cosa che facevano senza vergogna Platone e Giulio Cesare…), e
«trasferiamo» ai nostri figli – ma anche ai figli dei vicini – questa
esperienza sotto forma di buona educazione…

La «cultura» in
cui viviamo immersi è infatti un campo morfogenetico potentissimo, e che
contiene molte più «istruzioni» di quante ne abbia il nostro DNA con i
suoi 750 MB: da questo campo abbiamo appreso la lingua-madre, la
particolare fede religiosa (e il suo abbandono), la Weltanschauung
dominante nel nostro tempo di vita, l’atteggiamento generale di fronte
al prossimo, la scienza come l’intendiamo noi; ed ogni civiltà ha il suo
«campo morfogenetico» in questo senso – che si evolve più o meno
lentamente verso forme «più complesse» (2), mentre noi, come corpi fisici, poco o nulla ci evolviamo.

Ma per Sheldrake, anche i topi sono connessi ad simile campo. Ed
infatti quando i topi vengono messi in un labirinto e ne escono con
successo in un laboratorio dell’università di Harvard, ebbene: anche i
topi della stessa razza che si trovano a Melbourne o Parigi, superano
più rapidamente il labirinto. È una cosa ben nota e conosciuta, ancora
una volta con gran dispetto dei materialisti: non vorrete mica parlare
di telepatia!? No, Sheldrake parla di «risonanza» che è
«non-localizzata» in precise parti anatomiche ma sta nel cloud della
specie…

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Naturalmente l’idea ha fatto impazzire di rabbia gli
ambienti scientifici ufficiali della genetica, che hanno attaccato e
deriso Sheldrake: ammettere un «campo di informazioni morfiche» mette a
rischio i sacri pilastri del materialismo biologico, il riduzionismo,
l’evoluzione per «cieco caso e necessità» oltreché – sia detto per
inciso – tutto il business della farmaceutica attuale, totalmente basato
su sostanze chimiche con effetti chimico-materiali su specifici
organi…

Vale la pena di notare che invece i fisici adottano
da tempo, senza scrupoli ideologici, il concetto di «campo»: campo
elettrico, campo magnetico, campo gravitazionale. Al punto da aver
dimenticato che Cartesio ancora aborriva l’idea che un pianeta ne
attraesse un altro, ossia che una forza di attrazione si trasmettesse
«nel vuoto» senza contatto fra i corpi, dato che per lui il movimento si
poteva trasmettere solo per contatto (come tra palle di biliardo); e
che ancor oggi il campo gravitazionale viene «spiegato» in modo
tutt’altro che elementare, da una teoria einsteniana, secondo cui non è
il Sole che attira la Terra, ma la massa solare, facendo «affossare» lo
spazio-tempo, fa sì che il nostro pianeta cada dentro l’affossamento
formatosi…

Alle proteste dei colleghi riduzionisti, Sheldrake risponde con altre domande strane. Tipo questa: «Come fa a sapere la vostra mano che è una mano?».
Detto altrimenti: dato che ogni cellula del vostro corpo contiene lo
stesso identico codice genetico, come mai le cellule della mano si sono
sviluppate in modo da formare la mano e non, poniamo, il pancreas o
globuli rossi? La genetica dominante non ha una risposta. La risonanza
morfica di Sheldrake sì: la cellula attinge a un «campo di conoscenza»,
una sorta di schema non-fisico, come il lucido in mano all’ingegnere, e
sotto l’influenza di questo «campo» essa attiva solo quei geni che ne
fanno un muscolo o un osso della mano, e non un pancreas. I geni fisici
locali adempiono alla codificazione delle proteine, ma è il campo di risonanza
morfica che decide quali geni vanno attivati, e quali proteine prodotte
in quella particolare parte dell’organismo. E questo «campo» è
rinforzato da millenni e millenni in cui gli altri esseri umani venuti
al mondo prima di noi hanno contribuito a delineare il disegno, il
modello ideale (pattern) che un uomo «deve» imitare per essere
un uomo. Simili campi energetici decidono come ha da essere un albero di
quercia influenzando i semi e il suo codice genetico in modo che la
ghianda diventi una quercia adulta. Un altro «disegno» energetico induce
le diatomee a formare quei loro microscopici scheletrini minerali dalle
prodigiose simmetrie e complessità, che affascinarono i primi
osservatori al microscopio: il DNA si limita a produrre proteine, che
potrebbero disporsi a caso. A disporle in quelle forme è il «campo»
della specie, che impone quegli schemi e piani a una crescita che
sarebbe altrimenti indeterminata, un’escrescenza. 

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Diatomee

Qui
addirittura si intravede che il «campo» delle diatomee attinge al
«campo» della materia inanimata, al mondo della cristallografia minerale
– un’intuizione a cui è giunto Antonio Lima de Faria, il grande vecchio
della cito-genetica (ha operato all’università di Lund in Svezia), che
l’ha esposto in un saggio altrettanto rivoluzionario ed altrettanto
censurato: «Evoluzione senza Selezione» (Nova Scripta 2003).
Secondo Lima de Faria – che è un evoluzionista ostile al darwinismo –
non è la «pressione dell’ambiente», né un supposto «miglior adattamento
alla lotta per l’esistenza» che danno la forma alla conchiglia del
Nautilus; è la stessa forza (o armonia) che dà la medesima forma (di
spirale logaritmica) alle galassie come alla disposizione delle foglie
su uno stelo.


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Il
regno della vita attinge al regno minerale, che gli suggerisce certe
forme come necessità matematica – e allo stesso tempo come quelle utili
alla robustezza strutturale – insomma, l’universo animato ed inanimato è
un tutt’uno governato, e l’evoluzione è intrinseca a questo «tutto».

Il «tutto» è il campo dei campi, e non ha un «luogo» dove possa essere localizzato e confinato. È immateriale come una intelligenza,
una somma di esperienze strutturate in coscienza; una intelligenza
collettiva per ogni specie, anche per quelle – come i vegetali – che
individualmente, intelligenti non sono.

L’orribile eresia
che ciò rappresenta per il materialismo fondante della scienza moderna,
è evidente. Basti ricordare che per la Scienza dominante la stessa
auto-coscienza umana è una «illusione», sottoprodotto di reazioni
chimiche, biochimiche ed elettriche che avvengono nel cervello; in altre
parole, noi saremmo dei robot biologici, dominati da processi puramente
meccanicistici e fisici, che «credono» si essere coscienti. Ne consegue
come ovvio corollario che senza cervello funzionante, un uomo è morto e
senza alcuna umanità. Sheldrake domanda però ai suoi avversari
evoluzionisti: se questa «illusione» dell’auto-coscienza non serve ad
alcuno scopo essendo i nostri atti completamente meccanici, come mai si è
evoluta negli esseri umani? Eppure la civiltà umana non potrebbe
essersi evoluta – in quanto umana – senza compassione, cooperazione,
amore (o odio), moralità, e – senza dimenticare la creatività: si pensi
alla canzoni e alle poesie che sono state per millenni il mezzo
culturale di trasmissione per eccellenza, trasferendo la conoscenza dei
miti e della storia, ed anche oggi sono il mezzo essenziale per
«conoscenze» morali di ordine superiore, come la lettura di romanzi di
Dostojevski, di Manzoni o di Conrad. Ebbene: dov’è il codice genetico
per la cooperazione e la compassione, il gene che ha concesso a Fedor di
darci il suo «Delitto e Castigo»? Se questi sono semplici
sottoprodotti di cervelli bio-chimico-elettrici che seguono «istruzioni
genetiche», allora tutte le opere d’arte di millenni di artisti,
cantori, sacerdoti mistici e poeti, devono in qualche modo essere
codificati almeno virtualmente nel DNA già da prima della nascita. Dove:
nei 750 MB di memoria?

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No, risponde Shelrdake, nel cloud
della memoria collettiva della nostra specie e delle altre. Egli
insiste: non ci sono «leggi di natura» venute all’esistenza nel momento
stesso del Big Bang, completamente formate e immutabili. Ci sono
«usanze», abitudini e costumi (habits) che si sono via via
rafforzati a forza di essere ripetuti nel passato, fino ad organizzarsi
in architetture auto-strutturate sempre più raffinate e complesse,
«dando ad ogni specie il suo tipico sistema di memoria collettiva» (3).
Ovviamente, le «usanze» evolvono, alcune vengono abbandonate altre
adottate e poi rinforzate perché in qualche modo convenienti; già ai
minerali «conviene» organizzarsi in cristalli anziché in aggregati
informi (4), e
ancor più ai viventi che – dopotutto – da minerali sono formati. Ancor
più la selezione naturale delle usanze agisce nel mondo sociale, mentale
e culturale, come abbiamo intravisto. Esso dà certe qualità che
Sheldrake sta indagando, concependo appositi esperimenti. Tipo: «Come mai i cani sanno quanto il padrone sta per arrivare?». Oppure: «Da dove viene la sensazione di essere osservati?»:
fatto che secondo lui è spiegabile con i campi sottostanti alla nostra
attività mentale e percezione, e possono portare ad una nuova «teoria
della visione».

Sheldrake propone persino a tutti noi, se
vogliamo, di partecipare ai suoi esperimenti di anticipazione
«telepatica» (quando il telefono squilla, molti sanno già chi sta
chiamando), di attenzione condivisa, di riconoscimento di foto… buon
esperimento: Introduction.

NOTE:

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1) Esempio: è a forza di brucare le foglie di alti alberi che il collo della giraffa si è allungato….


2)
Ovviamente la società può devolversi anche al contrario, verso forme
sempre più degradate ed ossificate. Ciò sta probabilmente avvenendo alla
civiltà occidentale in genere, e l’Italia è all’avanguardia di questa
discesa nella neo-barbarie. 

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3)
La stessa scienza odierna, accusa Sheldrake, è un «campo» di risonanza:
e i genetisti darwinisti e riduzionisti vivono condizionati da questo
campo, dove le assunzioni e le ipotesi si sono col tempo «indurite in
dogmi», che oggi ostacolano non solo il progresso scientifico, ma sono
un pericolo per il futuro della specie umana. Sheldrake elenca questi
«dogmi induriti»: il principio «che la realtà è solo materiale o
fisica; che il mondo è un macchinario fatto di materia inanimata; che la
natura non ha scopo; che la coscienza non è altro che l’attività fisica
del cervello; che la libera volontà è un’illusione; che Dio esiste solo
come un’idea dentro la mente umana, imprigionata all’interno del nostro
cranio
». Ma, denuncia il rivoluzionario scienziato: in tal modo
«la scienza è diventata un sistema di credenze, anziché un metodo di
ricerca». Una ideologia che conduce ricerche sempre più costose, con
mezzi sempre più strapotenti…e con risultati sempre più miseri, oggi
vicini allo zero. Il progressismo frena il progresso e alla fine, lo
rende impossibile. (Books USA e Canada)


4)
Lima De Faria: «L’acqua, il quarzo e la calcite non hanno geni, e
tuttavia mantengono uno schema fisso (…). I cristalli di neve esistono
in moltissime varianti, ma tutti sono esagonali. (..)
L’auto-assemblaggio lo riscontriamo a tutti i livelli, dalle particelle
elementari agli organismi. E’ automatico e gerarchico: le particelle
elementari si assemblano in atomi, gli atomi costituiscono
macromolecole, le macromolecole formano organelli cellulari e cellule,
le cellule si assemblano in organismi, gli organismi si assemblano in
società». Da cui il genetista ricava il principio generale seguente: «L’ordine prevale a qualunque livello
evolutivo. Il disordine in biologia è espressione dell’ignoranza dei
fenomeni in gioco» (Lima De Faria, «Evoluzione senza Selezione», 2003,
pagine 360-364).


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Fonte: www.effedieffe.com.

NOTA DI PINO CABRAS PER MEGACHIP:

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Non citiamo spesso gli articoli di Maurizio Blondet. Un motivo è che dentro il sito Effedieffe.com
da lui diretto la maggior parte dei contenuti è accessibile solo agli
abbonati, e perciò sono coperti da copyright, tanto da non entrare nel
ciclo dell”infinita replicabilità della Rete. L”altro motivo è che
seguiamo percorsi politici e ispirazioni distanti, su alcuni punti
radicalmente distanti. I percorsi informativi fuori dagli schemi
tuttavia incrociano notizie e visioni del mondo di straordinario interesse, che il giornalismo
mainstream tende a trattare con sufficienza. Questo
articolo ha collegato alcuni fatti con spunti che si prestano ad
approfondimenti, a indagini ulteriori, magari a smentite, ma non a
silenzi giornalisticamente sbagliati. Un biologo mi fa notare ad esempio che il calcolo dello “spazio memoria” del DNA fatto dal matematico Mike Adams è errato perché in realtà ogni tratto di DNA non si limita a codificare un solo gene, e quindi la memoria è assai più ampia dei 750 Mb citati. Tuttavia l”insieme dell”articolo richiama questioni epistemologiche di grande peso che non vanno lasciate
in ombra. Perciò siamo ben lieti di far circolare questo pezzo, con il permesso
dell”autore
.



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