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Trump e il secessionismo
«Sotto i nostri occhi» – Cronaca di politica internazionale n°263
di Thierry Meyssan.
Mentre i neoconservatori intendevano realizzare una “rivoluzione mondiale” esportando la loro “democrazia” attraverso la guerra, il presidente Trump basa la sua politica estera sul rispetto della sovranità degli Stati. Di conseguenza, ha interrotto ogni sostegno USA ai separatismi. Thierry Meyssan ricorda qui le ambiguità della posizione statunitense sulle secessioni, poi rivela le analogie fra gli avvenimenti in Kenya, Iraq e Spagna.
Damasco (Siria) – Nel corso degli ultimi anni, la CIA ha sostenuto dei movimenti secessionisti a favore dei Luo in Kenya, dei curdi in Iraq e dei catalani in Spagna. Questi gruppi, che ritenevano mancasse poco per creare artificialmente nuovi Stati indipendenti, sono stati abbandonati dagli Stati Uniti dopo l’ascesa di Donald Trump alla Casa Bianca e sono in vista di un loro crollo.
Stati Uniti: la secessione, unicamente al servizio del saccheggio organizzato
Gli Stati Uniti hanno sempre avuto una visione variabile del diritto dei popoli all’autodeterminazione.
Nel 1861, Washington non sostenne gli Stati del Sud che pretendevano di continuare a vivere in Confederazione, mentre quelli del Nord volevano imporre una Federazione con diritti di dogana e una sola banca centrale. Al suo arrivo alla Casa Bianca, il presidente Abraham Lincoln represse la secessione. Fu solo durante la guerra civile che seguì che la questione morale della schiavitù servì progressivamente a identificare i due campi. Ora è facile dimenticare i milioni di morti di questa guerra e di condannare i confederati come razzisti, mentre all’inizio del conflitto la questione della schiavitù non era stata presa in considerazione e che pure i Federati comprendevano anche Stati schiavisti.
Durante la costruzione del Canale di Panama, poco prima della Prima guerra mondiale, Washington si inventò un popolo panamense, sostenne questo movimento separatista contro la Colombia, e fu il primo paese a riconoscerne l’indipendenza. Washington installò allora una grande base militare e si appropriò di fatto del cantiere del canale, sotto il naso e in barba agli investitori francesi. Quanto alla pseudo-indipendenza, il presidente Omar Torrijos che rinegoziò la sovranità del canale nel 1977, non la vide mai e fu assassinato in un incidente aereo. Il capo di stato maggiore, il generale Manuel Noriega, non la vide nemmeno lui poiché Washington decise di rimuoverlo, alla fine della guerra contro i sandinisti (Iran-Contras). Accusato di essere responsabile della morte di un soldato statunitense nel 1989, fu fatto prigioniero dall’esercito USA e il suo paese venne devastato durante l’Operazione “Giusta Causa” (sic).
Washington, pertanto, non ha autorità morale in materia di diritto dei popoli all’autodeterminazione.
Kenya: il “buon uso” del razzismo
Il Kenya è indipendente da soli 53 anni. Nonostante l’influenza del Partito Comunista durante la lotta per l’indipendenza, la popolazione rimane organizzata in modo tribale. Di conseguenza, il conflitto tra il Presidente uscente Uhuru Kenyatta e il suo eterno sfidante Raila Odinga è prima di tutto una rivalità tra i Kikuyu che rappresentano il 22% della popolazione e il Luo che rappresentano appena il 13%, ma che se si alleano ai Kalenjin possono coalizzare il 24% dell’elettorato. Negli ultimi anni, la maggioranza non fa che oscillare ad ogni svolta dell’effimera alleanza fra Luo e Kelanjin. Storicamente, sono stati soprattutto i Kikuyu ad aver ottenuto l’indipendenza del paese e ad aver affrontato, negli anni ’50, la barbarie senza precedenti della repressione britannica [1].
Sono dunque loro ad aver ottenuto la presidenza nel 1964 con Jomo Kenyatta. Quest’ultimo scelse come primo ministro un leader dei Luo che si era impegnato a suo fianco contro l’apartheid e la monopolizzazione dei terreni agricoli da parte dei coloni, Oginga Odinga. Tuttavia questo tandem non funzionò e ci troviamo mezzo secolo dopo con un conflitto che persiste e oppone ormai i loro figli.
Ogni lettura politica di questa rivalità raggiunge rapidamente i suoi limiti, poiché i leader di entrambe le parti hanno cambiato idee e alleanze diverse volte, mentre l’unico fatto permanente è la loro differenza etnica. Nessuna democrazia può funzionare in una società tribale o etnica e occorre almeno un secolo per passare dalla fedeltà del clan alla responsabilità personale. Ognuno deve quindi prendere il Kenya per quel che è: una società in transizione in cui né le regole etniche né le regole della democrazia possono funzionare pienamente.
Nel 2005, il presidente kikuyu fa un’alleanza con la Cina. In risposta, la CIA sostiene il suo avversario luo. Scoprendo che un parlamentare statunitense è un Luo e che suo padre era stato consigliere di Oginga Odinga, la CIA gli organizza un viaggio in Kenya per sostenere Raila Odinga. Ingerendosi nella vita politica locale, il senatore dell’Illinois Barack Obama terrà dei comizi elettorali con Raila, nel 2006, sostenendo anche di essere suo cugino [2].
Poiché gli Stati Uniti organizzarono una vasta provocazione tramite l’invio di SMS razzisti ai Luo in occasione della proclamazione dei risultati delle elezioni presidenziali e siccome gli eventi degenerarono causando più di mille morti e 300mila sfollati, questa operazione è stata cancellata dalle memorie.
Assai vicina al Pentagono, la Cambridge Analytica (CA), che ha partecipato negli Stati Uniti alla campagna elettorale di Ted Cruz e poi a quella di Donald Trump, ha consigliato Uhuru Kenyatta durante le sue campagne presidenziali del 2013 e 2017 (vale a dire, mentre Steve Bannon era per breve tempo un azionista dell’impresa) [3].
Odinga, per parte sua, fece ricorso alla Aristotele Inc., una società che potrebbe essere legata alla assassinio di Chris Msando, il numero 2 del servizio informatico della commissione elettorale, ucciso da ignoti il 29 luglio [4].
Tuttavia, nel contesto del disordine del servizio informatico della Commissione elettorale, Raila Odinga riescì a far annullare le elezioni presidenziali del 2017 e si rifiutò di presentarsi quando lo scrutinio fu nuovamente convocato. L’idea era di lanciare una secessione del territorio Luo. Odinga avrebbe allora rivendicato l’annessione dei territori Luo dell’Africa orientale e centrale in nome del lavoro già svolto da suo padre, un Ker (leader spirituale) dei Luo, Oginga Odinga.
Tuttavia, l’ambasciata statunitense improvvisamente si tenne a distanza dal suo ex protetto. Dopo aver boicottato il secondo ballottaggio nelle elezioni presidenziali e trovandosi improvvisamente abbandonato, Raila Odinga ha appena chiesto un nuovo annullamento e un terzo scrutinio.
Kurdistan iracheno: come in Israele e in Rhodesia, l’indipendenza per i coloni
Nel quadro del suo piano di ristrutturazione del Medio Oriente allargato, il Pentagono aveva programmato già l’11 settembre 2001 di smembrare l’Iraq in tre Stati separati, di cui uno per la sua popolazione curda. Una variante di questa idea è emersa dopo la proposta del Council on Foreign Relations, nel 2006 volta a federalizzare il paese in tre regioni autonome [5]; progetto che fu portato al Senato degli Stati Uniti in modo bipartisan da Joe Biden (D.) e Sam Brownback (Rep.). Tuttavia, lo stato maggiore israeliano premette affinché queste tre entità fossero effettivamente indipendenti in modo da poter installare missili sulle frontiere settentrionali della Siria e dell’Iran occidentale.
La parola “curdo” si riferisce ai nomadi che vivevano diffondendosi in tutto il Vicino Oriente. Nel XIX secolo, alcuni di essi si stabilizzarono nell’attuale Turchia, in un’area in cui diventarono maggioritari. Durante l’operazione Desert Storm, nel 1991, gli Stati Uniti e il Regno Unito crearono due zone di divieto di sorvolo, una delle quali divenne il rifugio dei curdi che si opponevano al presidente Saddam Hussein. Poiché la società irachena era organizzata in modo tribale, i curdi sunniti seguivano la famiglia Barzani, mentre i curdi sciiti seguivano la famiglia Talabani e i curdi yazidi il Baba Shaikh (leader spirituale). Con la popolazione raggruppata nella zona di divieto di sorvolo, sorse una rivalità tra i clan Barzani e Talabani. I primi fecero appello al presidente Saddam Hussein per liberarli dai secondi, ma costui stava perseguendo un altro ordine del giorno. A ogni modo, in occasione della caduta di “Saddam”, nel 2003, gli Stati Uniti misero i Barzani a capo della regione ormai definita come “il Kurdistan iracheno”. Durante la guerra contro la Siria, la CIA attrezzò il Kurdistan iracheno per approvvigionare i jihadisti in armi. Nel 2014, quando organizzò il Califfato, autorizzò i Barzani a trarre profitto dalla confusione per conquistare nuovi territori. Il loro feudo si è progressivamente allargato dell’80%, annettendosi popolazioni arabe musulmane e cristiane. Per inciso, i Barzani hanno permesso ai jihadisti di massacrare o schiavizzare i curdi Yazidi.
Quando poi, rovesciando la politica imperialista del suo paese, il presidente Trump ha deciso di distruggere Daesh e il suo esercito è stato effettivamente messo in condizione di operare, le popolazioni non curde che vivevano sotto il giogo di Barzani hanno chiesto di essere nuovamente riattaccate a Baghdad. Il presidente Mas’ud Barzani, che usava il pretesto dell’impossibilità di tenere elezioni durante la guerra per rimanere al potere oltre la fine del suo mandato, ha organizzato un referendum per l’indipendenza. Si trattava per lui sia di regolarizzare il suo potere sia di far riconoscere le sue conquiste territoriali.
Nel corso della campagna referendaria, i Barzani assicuravano di avere il sostegno di 80 Stati, tra cui gli Stati Uniti e la Francia, che sarebbero venuti in loro aiuto se l’Iraq e i loro vicini avessero rifiutato l’indipendenza. Gli alleati di Barzani, pur assicurando nel contempo che non era il momento giusto per l’indipendenza, si sono astenuti dal contraddire la posizione che Barzani ha loro attribuito, a eccezione di Israele, che ha sostenuto pubblicamente l’indipendenza. Più sottili, molti Stati hanno inviato alti rappresentanti sul posto, mostrando con i gesti più che con le parole il pieno sostegno ai Barzani.
Tuttavia quando, in esito a uno scrutinio truccato, i Barzani hanno annunciato che il 92% della popolazione sosteneva l’indipendenza e quindi di fatto la loro dittatura, l’Iraq, la Turchia e l’Iran hanno minacciato di intervenire militarmente. Ma nessuno degli 80 stati citati da Barzani ha reagito. Il fatto è che, nel frattempo, il Presidente Trump si era opposto sia al piano di spartizione dell’Iraq sia al riconoscimento delle conquiste dei curdi iracheni.
Di colpo, il pallone si è sgonfiato. La Turchia e l’Iran si preparavano a invadere congiuntamente il nuovo Stato, ma sono stati presi alla sprovvista dalla risposta irachena. In 48 ore, le truppe di Baghdad hanno liberato i territori annessi da Erbil, mentre più di 100mila coloni curdi si mettevano in fuga. Le forze armate di Baghdad però si sono astenute dal continuare la loro avanzata verso Erbil, ammettendo così la legittimità delle rivendicazioni storiche del popolo curdo, ma respingendo le pretese di Barzani su un presunto Kurdistan in territorio arabo.
Moltissimi curdi iracheni hanno rifiutato di sostenere l’indipendenza dello pseudo-Kurdistan. Dapprima è stato il caso degli yazidi che hanno creato il 25 luglio la propria provincia autonoma, l’Ezidikhan [6], e poi è stato il caso dei cantoni di Germian e Sulaimaniyah, un tempo quelli più duramente repressi da Saddam Hussein, a boicottare lo scrutinio [7], e poi ancora gli sciiti e la famiglia Talabani, che hanno accolto il generale Qasem Soleimani dei guardiani della Rivoluzione, venuto a preparare la liberazione dei territori arabi annessi, e infine i coloni stabilitisi a Kirkuk e che sono oggi nella situazione dei pieds-noirs francesi ai tempi dell’indipendenza dell’Algeria.
Isolato, Mas’ud Barzani si è dimesso, probabilmente in favore del nipote, Nechirvan Barzani.
Catalogna: falsi secessionisti e veri cospiratori
Catalonia Today, la rivista in inglese di Carles Puigdemont, all’attenzione dei suoi appoggi anglosassoni.
Ci si immagina che l’indipendentismo catalano si sia forgiato nella resistenza al fascismo. È falso. Il primo partito indipendentista catalano, Estat Català, è stato fondato nel 1922, vale a dire poco prima delle dittature di Miguel Primo de Rivera e di Francisco Franco in Spagna.
Ci si immagina che il suo fondatore, Francesc Macià (detto il “Nonno”), intendesse creare uno Stato indipendente che non era mai esistito, al fine di salvare la regione di Barcellona dal fascismo. È falso. Aspirava ad annettere Andorra, il sud-est della Francia e una parte della Sardegna, perché, secondo lui, la “Catalogna” è oppressa da Andorra, Spagna, Francia e Italia.
Ci si immagina che i separatisti catalani siano pacifisti. Falso. Nel 1926, Francesc Macià tentò un colpo di Stato dopo aver arruolato un centinaio di mercenari italiani e assemblato un esercito.
Ci si immagina che i separatisti catalani siano storicamente di sinistra. Falso. Nel 1928, Francesc Macià fonda a L’Avana, con l’aiuto del dittatore cubano filoamericano Gerardo Machado, il Partito separatista rivoluzionario della Catalogna.
Gli indipendentisti catalani non sono mai stati sostenuti dagli Stati antimperialisti, soprattutto non da parte dell’Unione Sovietica durante la guerra civile spagnola (benché Francesc Macià fosse andato a sollecitare l’aiuto di Mosca nel 1924 e avesse allora ottenuto il sostegno di Bukharin e Zinoviev). Tuttalpiù Maciá ha stretto alleanze con membri della Seconda Internazionale.
Nel rifarsi direttamente a Maciá (e non al suo ex capo, Jordi Pujol) e quindi sostenendo implicitamente il progetto di annessione di Andorra, di una parte della Francia e d’Italia, Carles Puigdemont non ha mai cercato di nascondere i suoi appoggi anglosassoni. Giornalista, ha creato un mensile per mantenere i suoi sponsor al corrente sull’evoluzione della sua lotta. Non è ovviamente in catalano né in spagnolo, ma in inglese: Catalonia Today, di cui sua moglie, la rumena Marcela Topor, è diventata capo-redattrice. Allo stesso modo anima associazioni che promuovono l’indipendenza catalana, non in Spagna, ma all’estero, che fa finanziare da George Soros [8].
I separatisti catalani, come i loro omologhi Luo e curdi iracheni, non hanno incorporato il cambiamento sopravvenuto alla Casa Bianca. Appoggiandosi sul Parlamento in cui hanno la maggioranza dei seggi, pur avendo ottenuto una minoranza di voti nella loro elezione, hanno proclamato l’indipendenza dopo il referendum del 1° ottobre 2017. Credevano di poter disporre del sostegno degli Stati Uniti e di conseguenza di quello dell’Unione europea. Ma il Presidente Trump non li sosteneva di più di quanto non lo avesse fatto con i Luo e i curdi iracheni. E, di conseguenza, l’Unione europea è rimasta contraria al nuovo Stato.
Conclusione
I sopraccitati esempi di secessionismo non hanno nulla a che vedere con la decolonizzazione, che ha dato origine al diritto dei popoli all’autodeterminazione. Inoltre, in questi tre casi, questi Stati non reggono, a meno che non aggiungano altri territori che non hanno chiesto nulla, come ambiscono Raila Odinga e Carles Puidgdemont e come Mas’ud Barzani aveva anticipato.
È consuetudine affermare che il presidente Trump sia un malato di mente, che sostenga la nostalgia dei Confederati razzisti e non abbia nessuna politica estera. Tuttavia, constatiamo che è riuscito per il momento a fermare le operazioni dei suoi predecessori e a mantenere una relativa stabilità in Kenya, Iraq e Spagna. E questo merita di essere sottolineato.
Thierry Meyssan
NOTE
[1] Web of Deceit: Britain’s Real Foreign Policy, Mark Curtis, Random House, 2008.
[2] «L’expérience politique africaine de Barack Obama», par Thierry Meyssan, Réseau Voltaire, 9 mars 2013.
[3] “Uhuru hires data firm behind Trump, Brexit victories”, Gideon Keter, The Star (Nairobi), May 10, 2017.
[4] “Canadian working with Kenya opposition party detained, to be deported”, The Globe and Mail, August 5, 2017. “An American working for the Kenyan opposition describes his harrowing abduction and deportation”, Robyn Dixon, Los Angeles Times, August 10, 2017.
[7] «Le Kurdistan n’a pas besoin de grands propagandistes», Aras Fahta & Marwan Kanie, Le Monde, 18 mai 2017.
[8] “George Soros financió a la agencia de la paradiplomacia catalana”, Quico Sallés, La Vanguardia, 16 de agosto de 2016
Traduzione a cura di Matzu Yagi.