Il 19 dicembre l’annuncio del ritiro parziale dei soldati americani dall’Afghanistan e del ritiro totale dalla Siria è arrivato come un fulmine a ciel sereno. Il segretario alla Difesa, James Mattis, si è dimesso l’indomani. Diversamente da quanto sostengono gli oppositori del presidente, Trump e Mattis si stimano reciprocamente e le loro divergenze non vertono sul ritiro delle truppe, bensì sulla gestione delle conseguenze. Gli Stati Uniti sono di fronte a una scelta che segnerà una cesura e farà vacillare il mondo.
Innanzitutto, per rimuovere possibili fraintendimenti è opportuno ricordare condizioni e scopo della collaborazione fra Trump e Mattis.
Quando è entrato alla Casa Bianca, Trump ha scelto di avvalersi di tre alti militari che godevano di autorità sufficiente a imprimere una nuova direzione alle Forze Armate. Ma i tre — Michael Flynn, John Kelly e James Mattis — si sono dimessi o sono sul punto di farlo. Sono grandi soldati che insieme, durante l’èra Obama, si opposero alla gerarchia militare [1]. Non condividevano la strategia dell’ambasciatore John Negroponte volta a creare gruppi terroristi col compito di fomentare una guerra civile in Iraq [2]. Tutti e tre si sono impegnati con il presidente Trump a revocare il sostegno americano agli jihadisti. Ciononostante, ciascuno dei tre ha una propria visione del ruolo degli Stati Uniti nel mondo, sicché alla fine si sono scontrati con il presidente.
La bufera, rinviata dalle elezioni di metà mandato, è arrivata [3]. È il momento di riconsiderare le relazioni internazionali.
La Siria
Quando, ad aprile scorso, il presidente Trump, in conformità agli impegni elettorali, ha annunciato il ritiro dalla Siria, il Pentagono l’ha convinto a non farlo; non perché qualche migliaio di uomini possa invertire il corso della guerra, ma perché la presenza di truppe americane fa da contrappeso all’influenza russa ed è un sostegno a Israele.
Sennonché la fornitura all’Esercito Arabo Siriano di armi di difesa russe, in particolare missili S-300 e radar ultrasofisticati, coordinati dal sistema di gestione automatizzato Polyana D4M1, ha sconvolto l’equilibrio delle forze [4]. Esattamente da tre mesi, lo spazio aereo siriano è diventato inviolabile. La presenza militare USA diventa perciò controproducente: ogni attacco a terra dei mercenari filo-USA non potrà più essere appoggiato dall’aereonautica militare statunitense se non a rischio di perdere aeromobili.
Ritirandosi adesso, il Pentagono evita la prova di forza e l’umiliazione di un’inevitabile disfatta. La Russia si è infatti rifiutata di dare, dapprima agli Stati Uniti poi a Israele, i codici di sicurezza dei missili forniti alla Siria. In altre parole, dopo anni di arroganza occidentale, Mosca non ha acconsentito alla condivisione del controllo della Siria, che invece aveva accettato nel 2012, con la prima conferenza di Ginevra, e che Washington aveva violato dopo qualche mese.
Inoltre, ormai da parecchio tempo Mosca ha riconosciuto che la presenza USA in Siria è contraria al diritto internazionale e quindi Damasco è legittimato a difendersi.
- Il 17 dicembre 2018, a capo di una delegazione, il generale Aharon Haliva si è recato a Mosca. Ha informato i russi delle operazioni dello Tsahal in corso e ha chiesto invano i codici dei missili siriani.
Le conseguenze
La decisione del ritiro dalla Siria è gravida di conseguente
1 – Lo pseudo-Kurdistan
Il progetto occidentale di uno Stato coloniale a nordest della Siria, da assegnare ai kurdi, non vedrà la luce. Del resto, un numero sempre minore di kurdi lo sostengono, ritenendo che si tratterebbe di una conquista paragonabile alla proclamazione unilaterale da parte delle milizie ebree di uno Stato, Israele, nel 1948.
Come abbiamo più volte spiegato, il Kurdistan potrebbe essere legittimo solo all’interno dei confini riconosciuti dalla Conferenza di Sèvres del 1930, ossia nell’attuale Turchia. Non altrove [5]. Solo poche settimane fa Stati Uniti e Francia pensavano di creare uno pseudo-Kurdistan in terra araba e di farlo amministrare, con mandato dell’ONU, dall’ex ministro degli Esteri francese, Bernard Kouchner [6].
2 – La strategia Cebrowski
Il progetto perseguito dal Pentagono da diciassette anni in Medio Oriente Allargato non vedrà il compimento. Concepito dall’ammiraglio Arthur Cebrowski, esso mirava alla distruzione di tutte le strutture statali della regione, con l’eccezione di Israele, Giordania e Libano [7]. Il piano, iniziato in Afghanistan e in Libia e ancora operativo, avrà la sua fine sul suolo siriano.
Non è più il caso che le forze armate USA si battano, a spese dei contribuenti, per i soli interessi dei finanzieri della globalizzazione, fossero anche statunitensi.
3 – La supremazia militare statunitense
L’ordine mondiale post-sovietico, fondato sulla superiorità militare degli Stati Uniti, è defunto. Non importa che si sia restii ad ammetterlo: rimane un fatto. La Federazione di Russia è ora più potente sia in termini convenzionali (dal 2015) sia nucleari (dal 2018 [8]). Il fatto che le forze armate russe abbiano un terzo meno di soldati rispetto a quelle degli Stati Uniti e non dispongano che di poche truppe all’estero scarta l’ipotesi di ambizioni imperialistiche di Mosca.
Vincitori e vinti
La guerra contro la Siria si esaurirà nei prossimi mesi per mancanza di mercenari. Il rifornimento di armi da parte di alcuni Stati, coordinati dal fondo KKR, può protrarre il crimine, ma non offre speranza che il corso degli avvenimenti possa cambiare.
Senza alcun dubbio i vincitori di questa guerra sono Siria, Russia e Iran; i vinti sono i 114 Stati che hanno aderito agli «Amici della Siria». Alcuni di essi non hanno atteso la disfatta per correggere la propria politica estera. Gli Emirati Arabi Uniti, per esempio, hanno annunciato la prossima riapertura dell’ambasciata a Damasco.
Il caso degli Stati Uniti è invece più complesso. L’intera responsabilità di questa guerra ricade sulle amministrazioni Bush Jr. e Obama, che l’hanno pianificata e realizzata all’interno di un mondo unipolare. L’allora candidato Donald Trump accusava invece queste amministrazioni di non difendere i cittadini statunitensi, bensì di servire la finanzia transnazionale. Diventato presidente, Trump ha continuato a tagliare l’appoggio agli jihadisti e a ritirare i soldati dal Medio Oriente Allargato. Sicché Trump deve essere annoverato tra i vincitori di questa guerra e potrà coerentemente scaricare l’obbligo degli Stati Uniti di risarcimento dei danni di guerra sulle società transnazionali coinvolte [9]. Per Trump si tratta ora di reimpostare le forze armate, indirizzandole alla difesa del territorio, di mettere fine all’apparato del sistema imperiale e di sviluppare l’economia USA.
L’Afghanistan
Da diversi mesi gli Stati Uniti stanno negoziando con discrezione con i Talebani le condizioni del ritiro dall’Afghanistan. Una prima sessione di contatti si è avuta in Qatar, guidata dall’ambasciatore Zalmay Khalizad. Un secondo round è appena iniziato negli Emirati Arabi Uniti. Vi partecipano, oltre alle delegazioni statunitense e talebana, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti e Pakistan. Sul posto è arrivata anche una delegazione del governo afghano, che spera di parteciparvi.
Sono passati diciassette anni da quando Stati Uniti e Regno Unito hanno invaso l’Afghanistan, ufficialmente per ritorsione agli attentati dell’11 Settembre. In realtà questa guerra è il seguito dei negoziati del 2001 di Berlino e Ginevra: non mira a stabilizzare il Paese per poterne sfruttare le risorse economiche, bensì a distruggere ogni apparato statale per poterne controllare lo sfruttamento. La situazione peggiora infatti di giorno in giorno.
Ricordiamo che le sventure dell’Afghanistan sono iniziate con la presidenza Carter. Il consigliere per la Sicurezza Nazionale, Zbigniew Brzeziński, ricorse ai Fratelli Mussulmani e a Israele per lanciare una campagna di terrorismo contro il governo comunista [10] che, spaventato, si rivolse ai sovietici per garantire l’ordine. Ne scaturì una guerra di 14 anni, seguita da una guerra civile e poi dall’invasione anglo-americana.
Dopo quarant’anni di distruzioni ininterrotte, il presidente Trump ha preso atto che la presenza militare USA non è per l’Afghanistan la soluzione, bensì il problema.
- Il generale James Mattis si è impegnato a dissociare le Forze Armate USA dagli jihadisti, ma non a sciogliere l’alleanza attorno agli Stati Uniti.
Il posto degli Stati Uniti oggi nel mondo
Ritirando la metà delle truppe USA di stanza legalmente in Afghanistan e la totalità di quelle che occupano illegalmente la Siria, il presidente Trump adempie a uno dei suoi impegni elettorali. Dovrà richiamare anche gli altri 7.000 soldati che rimangono sul posto.
È in questo contesto che va collocata la questione di fondo posta dal generale Mattis nella lettera di dimissioni [11]. Egli scrive: «Una delle mie convinzioni fondamentali è sempre stata quella che la nostra forza in quanto nazione è inestricabilmente legata alla forza del nostro sistema, straordinario e compiuto, di alleanze e partenariati. Finché gli Stati Uniti rimarranno la nazione indispensabile al mondo libero, non possiamo proteggere i nostri interessi, né svolgere efficacemente questo ruolo senza mantenere solide alleanze e dare prova di rispetto verso gli alleati. Come lei, ho detto sin dall’inizio che le forze armate degli Stati Uniti non dovrebbero essere il gendarme del mondo. Dobbiamo invece utilizzare tutti gli strumenti del potere americano per assicurare la difesa comune, anche garantendo una leadership efficace alle nostre alleanze. 29 democrazie hanno dato prova di questa forza con l’impegno a battersi al nostro fianco dopo l’attacco all’America dell’11 Settembre. La coalizione di 74 nazioni contro Daesh è un’altra prova» [12].
In altri termini, James Mattis non contesta le ragioni di fondo del ritiro delle truppe USA dall’Afghanistan e dalla Siria, bensì quel che potrebbe seguirne: lo smembramento delle alleanze che hanno per epicentro gli Stati Uniti e quindi il possibile smantellamento della NATO. Per il segretario alla Difesa, gli Stati Uniti devono rassicurare i propri alleati dimostrando di sapere quel che stanno facendo e di continuare a essere i più forti. Non è rilevante che questo risponda o no al vero, la coesione tra gli alleati va mantenuta a ogni costo. Per Trump invece il pericolo è in casa propria. In economia gli Stati Uniti hanno già perso il primato a favore della Cina, ora stanno perdendo quello militare, lasciando il passo alla Russia. Bisogna smettere di essere il guercio che guida i ciechi e occuparsi innanzitutto dei propri concittadini.
In tutto questo Mattis agisce da militare. Sa che una nazione senza alleati è destinata in anticipo a perdere. Trump invece ragiona da imprenditore. Deve sbarazzarsi delle filiali in deficit che minacciano di far colare a picco l’azienda.
Traduzione a cura di Rachele Marmetti (Giornale di bordo)
Tratto da: http://www.voltairenet.org/article204452.html.