di Marco Bordoni*.
Secondo il Fondo Monetario Internazionale, nel 1990 i Paesi che oggi compongono la UE producevano quasi un quarto della ricchezza mondiale, a parità di potere d’acquisto (per l’esattezza, il 23,5%). Questa quota è scesa oggi a meno di un sesto: il 14,9%. Nello stesso periodo la quota della Russia scendeva, in maniera quasi parallela, dal 4,8% al 2,8%. I Russi possono ben raccontarsi che i BRICS stanno rimontando secoli di egemonia economica occidentale. Gli Europei possono ribattere che il processo è lento e che, in ogni caso, i Paesi del G7 tengono la presa sulla finanza globale. Ma gli uni e gli altri vantano successi non propri. Sempre nel 1990 il saldo demografico naturale (differenza fra nati e deceduti) nei paesi UE era + 2 ‰, sceso fino al – 2,8 ‰ del 2021 (pari a un saldo negativo di 1.231.000). Nello stesso periodo la Russia è passata da +2‰ a -7,1‰ (diminuzione di 1.398.253). Nonostante in questo caso i due tracciati non siano esattamente paralleli (infatti mentre la statistica UE è costante al ribasso, le dinamiche demografiche russe hanno un tradizionale andamento sinusoidale, che vede anni di crollo seguiti a poca distanza da altri di relativa espansione), la tendenza generale appare comune. Da una parte e dall’altra si cerca di tamponare l’emorragia drenando forza lavoro dall’Ucraina e dai Paesi in via di sviluppo.
Unione Europea e Russia hanno 30 anni, ma non si sa ancora cosa faranno da grandi. La Russia, a quanto pare, vorrebbe essere un impero, che è poi la forma di organizzazione politica tradizionale di quello spazio, ma senza Ucraina non si può e gli Ucraini, allo stato, non paiono entusiasti (eufemismo) dell’idea. C’è una Costituzione formale (oltre tutto emendata da poco) ma quella materiale è distante anni luce e il Putinismo dopo Putin nessuno sa cosa sarà: aleggiano richiami a Bisanzio, ai Khan, ai Romanov e all’URSS, ma quattro passati non fanno un’idea di futuro. Futuro che, beninteso, manca anche all’Unione Europea, il Trattato internazionale che si crede Stato, il processo che si crede risultato. La bicicletta (per usare la metafora di Jacque Delors) che se si ferma cade, può quindi solo andare avanti, ad espandersi geograficamente (Maidan docet) ed istituzionalmente, e pazienza se, a forza di pedalare alla cieca, si casca a capofitto in una guerra.
La democrazia russa muoveva appena i primi passi quando è stata presa a cannonate da El’cin (l’Occidente applaudì, in odio al “populismo rossobruno” del tandem Rutskoj-Khasbulatov). In seguito, per un periodo di tempo abbastanza lungo, i Russi si sono confrontati con l’idea democratica, cercando di convincere sé stessi e gli altri che fosse un articolo che li interessava ancora, e che servisse solo adattarla, per così dire, al clima rigido. Si parlò, in quegli anni, di ”democrazia sovrana”. Questa parentesi si è chiusa con il diluvio di leggi speciali e strette repressive che ha preceduto e seguito il 24 febbraio.
E l’Unione Europea, che si vanta addirittura “culla” del potere del popolo? Recentemente l’istituto Ravenstvo Media ha pubblicato un’infografica che compara gli umori dei cittadini UE riguardo alla NATO e le rispettive rappresentanze parlamentari. Risultato: poco meno di un terzo (29%) degli intervistati ha detto di non volerne sapere dell’Alleanza Atlantica, ma questa posizione è rappresentata da solo il 6% degli eletti. Ancora: secondo Eurobarometro il 19% degli italiani ha un’immagine “molto negativa” della UE. Rappresentanza parlamentare? Non pervenuta. Un recente sondaggio Euroskopia mostra che quasi la metà (il 48%) dei cittadini di 9 Paesi europei, inclusa l’Italia, è favorevole a una rapida fine del conflitto in Ucraina “anche se Kiev dovesse cedere parte del proprio territorio alla Russia”. Si può essere d’accordo o no, ovviamente. E’ un solo un sondaggio, ovviamente. Ma, tornando al punto: quanti rappresentano questa opinione, che è sicuramente diffusa nella società, nei Parlamenti?
Insomma, l’impressione è che anche nella UE la democrazia funzioni bene a parole, fino a che si discute di argomenti di poco conto. Ma quando si tratta di scelte strategiche (l’austerità espansiva, il processo confederativo, l’appartenenza alla UE ed alla NATO, la pace e la guerra), insomma quando si tratta di scelte che riguardano davvero il nostro futuro, entra in funzione il pilota automatico: il campo delle opzioni si restringe drasticamente e l’opinione pubblica, peraltro condizionata a monte da un’informazione spesso a senso unico, non trova, sarà un caso, rappresentanza politica. Probabilmente la fine dei corpi intermedi (“non esiste una cosa che si chiama società, ci sono solo individui e famiglie”), indica la crisi delle compagini occidentali (una tradizione politica nata dalla rottura progressiva dell’originaria unità imperiale) molto più che quella della Russia, che di corpi intermedi non ne ha mai avuti (avendo ereditato quella unità, quella “sinfonia” intatta da Bisanzio). Insomma, a dispetto delle sue parti inconciliabili, l’Europa (intesa come spazio continentale e culturale), è ancora una, e la guerra che la dilania uno dei frutti, il più vistoso, della sua unica crisi.
Risalendo alle origini della questione ucraina troviamo, è vero, una Russia che aspira al riconoscimento occidentale di una sfera di influenza (e basta leggere le memorie di Aleksej Puškov, recentemente edite in italiano, per capire che in tre decenni di politica estera la Russia ha cambiato solo i mezzi in vista di quest’unico fine). Ma troviamo anche, ugualmente responsabile, una neonata casta europea che, opponendosi a Mosca, obbedisce a logiche uguali e simmetriche. Si confrontino due crisi quasi concomitanti: Grecia e Ucraina. Stessi anni, stessi protagonisti politici a Bruxelles. Atene, stato membro, ma provincia ribelle, è stata disciplinata: i soldi per rimborsare i crediti (privati) erogati dalle banche francesi e tedesche sono stati condizionati a riforme assurdamente punitive. Kiev, entità estranea ma avamposto appena espugnato, è stata, viceversa, generosamente sostenuta: nessun problema per trovare 90 miliardi di € in 8 anni (si è vantata Von der Layen), da devolvere agli “oligarchi buoni”. All’occorrenza l’Unione Europea, “Nobel per la Pace”, ha saputo essere assertiva come una Russia qualsiasi.
Torniamo, ad esempio, al 2013: Yanukovich si trova di fronte al bivio. Putin vuole Kiev nella neonata Unione Eurasiatica. Bruxelles, che per anni ha tergiversato di fronte alle richieste di accesso ucraine, temendo di farsi soffiare la preda, improvvisamente accelera, e fissa la firma del Trattato di associazione per il 29 novembre a Vilnius. Yanukovich chiede tempo, sostiene che rompere con Mosca danneggerebbe troppo le zone industriali dell’Ucraina in cui vive l’elettorato russofono che lo vota. Forse per davvero, forse per perder tempo, non lo sapremo mai, il Presidente ucraino propone una trattativa trilaterale che consenta un accordo complessivo. Proposta rispedita al mittente da Barroso che intima: o noi o loro.
Altro malinteso più tardi, a frittata da già fatta: gli Accordi di Minsk. Tempo prezioso che, nelle intenzioni russe, doveva servire agli occidentali a “restituire il maltolto” mettendo in riga Poroshenko. E che invece è servito (hanno detto Merkel e Holland, in due recenti interviste qui e qui) a preparare la guerra. In realtà (ha osservato acutamente Fedor Lukyanov in un recente commento) probabilmente non vi fu, ai danni della Russia, alcun inganno preordinato. Semplicemente il tempo concesso venne sprecato dalla UE che, stregata dalla bulimia dell’espansione infinita, preferì autoilludersi, interpretando gli Accordi (che dicevano altro) come una capitolazione russa. Si dirà che la UE non decide nulla, e che è Washington che conduce le danze. E’ una verità incontestabile, per quanto parziale. E tuttavia: non è forse questo l’ennesimo segno di un gravissimo declino del vecchio continente?
In conclusione: due pezzi d’Europa che contano sempre meno nel mondo, politicamente ed economicamente, e che non riescono a darsi un’identità. Governanti che non hanno soluzioni per uscire dal vicolo cieco in cui si sono cacciati. E quindi: guerra. Guerra dolorosa, certo, ma anche provvidenziale: promesse ed errori dimenticati, soluzioni rinviate, problemi rimossi, critiche silenziate. Tutto diventa facile. Si bandiscono le crociate: noi di qua, sotto le bandiere del progresso infinito. Loro di là, sotto quelle dell’eterno ritorno della storia. Parlarsi è impossibile.
Buttare la palla in tribuna risolverà alle elite alcuni problemi immediati, ma prezzo lo pagheremo tutti, lo stiamo già pagando. L’UE prima della guerra importava il 43% del gas ed il 29% del petrolio dalla Russia. Si tratta di quote di mercato che non possono essere sostituite con volontarismo e improvvisazione. Con misure straordinarie è stato possibile tamponare l’emergenza nel primo anno, ma non si capisce come verrà gestito, nel medio periodo, un aumento dei costi energetici di sette volte (secondo le valutazioni di Morgan Stanley): si tratta di trovare 1.400 miliardi di euro all’anno. Quanto alla Russia: il 2022 è andato alla grande (avanzo primario record di 227 miliardi di dollari) perché gli avversari si sono sparati nei piedi sbagliando tutto quello che potevano sbagliare. Ma ora i prezzi di petrolio e gas in picchiata mostrano spietatamente l’importanza dei mercati persi. Nel 2021 su 204 miliardi di m3 di gas, circa 75 andavano agli altri mercati, 129 alla UE. A chi venderli, ora? Più nel dettaglio: la Germania “valeva” 48 miliardi, la Cina 8. L’obbiettivo fissato dal Governo è quintuplicare il mercato cinese entro il 2025, ma anche ammesso che ci si riesca, resta da capire come riempire le casse nei prossimi tre anni. Nel 2022 le rendite energetiche hanno coperto il 40% del fabbisogno statale, ma il 2023 è un’incognita. Alphabank ha stimato che per “far tornare” i conti la Russia deve vendere 11 milioni di barili di greggio al giorno a 50 dollari, o 8,5 milioni a 70. Al momento Urals (il petrolio russo) viene venduto con sconti fortissimi (a 44 $dollari): l’UE ne gioisce, ma si tratta di energia a basso prezzo che va alla concorrenza manifatturiera indiana e cinese.
Oltre al prezzo economico, ci sarà da pagare un prezzo politico internazionale che sarà comunque gravosissimo, anche se il continuo gioco dei rilanci non farà deragliare la crisi rendendola incontrollabile, scenario non probabile ma purtroppo sempre possibile. La Russia ha fallito la guerra lampo militare, l’Occidente la guerra lampo economica. Il resto del mondo assiste e prende nota.
Il continente in crisi uscirà dalla guerra ucraina definitivamente relegato a periferia impoverita. UE e Russia, organismi fragili, potrebbero non reggere in questa nuova realtà. Gli analisti occidentali profetizzano ormai da decenni il collasso di Mosca. Non c’è dubbio che la Russia abbia dei problemi sia strutturali che ideologici (nel focalizzare il proprio presente ed il proprio futuro). Alcuni commentatori si sono spinti a definire il sistema politico russo “clericalismo d’accatto e fascismo postmoderno” sottolineando una distanza, in effetti reale, fra la retorica ufficiale e le priorità della popolazione.
Questi aspetti della realtà non colgono tuttavia una connessione, che mi pare esista, a livello profondo, fra le istituzioni del Paese, e il sentimento del popolo. In altre parole, in termini storici, dietro i dirigenti UE, impegnati nell’eterna missione di trovare una quadratura identitaria fra il Sardo e il Lappone, non c’è nulla. Dietro quelli Russi, con tutti i loro difetti e i loro errori, c’è, scusate se è poco, la Russia. E questo, in tempi difficili, potrebbe fare la differenza.
*Marco Bordoni è fondatore e curatore del canale Telegram La mia Russia
Tratto da: https://letteradamosca.eu/2023/01/24/ue-e-russia-ununica-crisi-in-europa/.