Ricopiamo per intero un lungo articolo pubblicato nel libro “Demoni in Terra Santa” (Visione editore, ottobre 2023). L’articolo ha come autori Pino Cabras e Simone Santini e riprende una vecchia riflessione sulla nuova Guerra dei Cento Anni e su un percorso di soluzione politica che esce da tutti gli schemi. Buona lettura!
Due Popoli, uno Stato: per il tramonto del «Sionismo Reale»
di Pino Cabras e Simone Santini.
Quel che ora leggete – un’analisi controcorrente sul tema più grave della crisi del Vicino Oriente – è un articolo in gran parte già edito, così come già edita è la dinamica che periodicamente si ripete con nuovi episodi che replicano lo stesso cliché nella Guerra dei Cento Anni in Terrasanta. Avevamo già pubblicato sul sito Megachip nel giugno 2010 gran parte di queste riflessioni, ma sentiamo l’esigenza di riproporle a nuovi lettori, con alcune notevoli attualizzazioni.
Non è facile parlarne mentre va in onda a reti unificate Tele Netanyahu. Il 15 ottobre 2023 sulla piattaforma X il premio Pulitzer Glenn Greenwald (forse il giornalista più autorevolmente impegnato al mondo sulla libertà di parola) è stato in proposito lapidario: «Esattamente come è accaduto con il COVID, e poi con la guerra in Ucraina, il sistema di censura su più fronti implementato dai governi occidentali è stato nuovamente attivato – ancora una volta a un livello sorprendentemente nuovo – per vietare il dissenso dalla politica dell’UE nei confronti di Israele/ Guerra di Gaza».
Ancora oggi in tanti estraggono da un cilindro sempre più consumato la vecchia idea della soluzione “Due Popoli Due Stati”. Temiamo che questo sia un coniglio morto e in avanzato stato di decomposizione. Riproponiamo perciò un’analisi controcorrente che per la Terrasanta invece immagina una soluzione certo più complessa, ma che forse meglio garantirebbe tutti. Naturalmente è una soluzione che rimanda al futuro. Per ora (lo sappiamo e non lo scordiamo), stanno parlando le armi e le stragi. Per ora impera nei media occidentali il marketing della disumanizzazione del Nemico. Ma dopo cosa accadrà?
Ogni episodio che confermi la deriva sempre più pericolosa del militarismo israeliano arriva a interrogarci sulla natura profonda dello Stato di Israele. Per decenni, le cose più militarmente brutali e prive di scrupoli che potevamo reperire nell’immaginario della nostra epoca erano nel razzismo del regime nazista.
La ricorrente brutalità delle azioni militari israeliane – consumate da una classe dirigente bellicista – suscita sempre di più un’associazione di idee con la spregiudicatezza della Germania nazista, un’analogia che risulta sconveniente e scandalosa, perché lo Stato ebraico ha legato la costruzione della sua identità proprio alla memoria della Shoah, la catastrofe in cui gli ebrei furono tra le maggiori vittime sommerse dal nazismo.
Nulla è più scandaloso che fare analogie fra chi espone i segni della vittima e chi ha i segni del carnefice, perché ogni coscienza morale non può mai accettare a cuor leggero che le colpe del carnefice siano attenuate da una qualche disinvolta strumentalizzazione.
Però questo accostamento non si può ignorare con un’alzata di spalle, né combattere con zelo violento.
C’è da chiedersi invece – al di fuori di ogni propaganda – perché Israele dopo ogni massacro, ogni sua violazione del diritto internazionale, ogni sua vessazione inflitta ai palestinesi, susciti dichiarazioni che lo paragonano di volta in volta alla Germania che perseguitava i non ariani o al Sudafrica che perseguitava i non bianchi.
Perché avviene questo, nonostante Israele abbia al suo interno una società pluralista e aperta, con una stampa mediamente vivace e libera, con stili di vita assimilabili a quelli di un avamposto democratico occidentale?
Perché, nonostante le dure rimostranze delle potentissime correnti di opinione e delle lobby di varia natura che nel mondo simpatizzano con l’avventura sionista, Israele viene paragonato proprio agli Stati che più di altri hanno suscitato avversione nel mondo anche a causa delle loro strutture crudelmente discriminatorie? Perché insomma Israele viene visto da molti come uno Stato razzista?
La risposta fa scandalo e nuota contro la corrente principale dei media, ma è semplice e dimostrabile: Israele viene visto come uno Stato razzista perché lo è. Uno Stato che sin dall’origine ha dato un’interpretazione esasperata della questione ebraica a totale discapito dei non ebrei presenti in Terra Santa.
Partiamo da quel che succede da tanto tempo sul suolo soggetto alla sovranità israeliana. Ci riferiamo a un territorio al cui interno accade che ci siano due reti stradali separate: una moderna ad uso esclusivo dei coloni ebrei, l’altra residuale e maltenuta per gli autoctoni palestinesi, i quali peraltro nella maggior parte della Cisgiordania non possono guidare le proprie automobili. Quelli che possono farlo devono però sottostare a una fitta rete di checkpoint che chiude i varchi per ore, mentre gli ebrei hanno una mobilità garantita e libera. Ai palestinesi è imposto un sistema di rigido coprifuoco che strangola la vita civile e l’economia. Interi settori della Cisgiordania, classificati come “aree militari chiuse” dalle forze armate israeliane, non sono accessibili ai palestinesi, compresi quelli che vi possiedano dei terreni da generazioni. Viceversa, a chiunque sia applicabile la Legge del Ritorno israeliana – cioè, a chiunque sia semplicemente ebreo, ovunque nel mondo – nessuna restrizione è applicata.
Agli israeliani è proibito trasportare palestinesi in un veicolo con targa israeliana, se non con esplicito permesso. L’autorizzazione concerne tanto il guidatore quanto il passeggero palestinese. I lavoratori al servizio dei coloni e i coloni ebrei stessi hanno permessi speciali.
Ai volontari israeliani e di organizzazioni umanitarie internazionali è proibito assistere una donna in travaglio portandola in ospedale. I volontari non possono portare alla stazione di polizia, a sporgere denuncia, un palestinese che sia stato rapinato.
Perfino organizzazioni che hanno subito l’attrazione dell’orbita del maggiore alleato di Israele (gli Stati Uniti), come Amnesty International, denunciano poi altri elementi di sistematico strangolamento economico, giuridico e politico della società civile araba dei territori occupati, milioni di persone. Sono discriminazioni molto incisive e strutturali, anche quando non passano con la legge ma con pratiche amministrative metodiche e infinitamente replicate: Le forze israeliane hanno sistematicamente sgomberato con la forza i palestinesi e ne hanno demolito le case, in particolare a Gerusalemme Est, con la motivazione che gli edifici erano privi di permesso. Tali autorizzazioni vengono sistematicamente negate ai palestinesi. Per contro, le colonie israeliane sono state autorizzate a espandersi su terreni illegalmente confiscati ai palestinesi.
Le discriminazioni non si limitano ai territori occupati. Non parliamo solo della Cisgiordania e di quel campo di prigionia che è ormai Gaza da troppi anni per oltre due milioni di persone, con l’embargo che colpisce anche la pasta e i quaderni.
Anche dentro Israele la distinzione fra ebrei e non ebrei conta per legge. Ci sono importanti differenze fra cittadini ebrei e goym di Israele in ordine all’accesso ai beni immobili, ai ricongiungimenti familiari e l’acquisizione della cittadinanza. Un cittadino israeliano su cinque è arabo. Uno di loro che voglia maritarsi con una persona araba che vive nei territori non potrà mai vivere insieme ad essa in Israele. Un figlio di una tale coppia può vivere in Israele, ma solo fino ai 12 anni, poi deve emigrare.
Il “carattere ebraico” dello Stato di Israele ha implicazioni discriminatorie evidentissime. Per anni i governanti di Israele ci tenevano a ribadirlo quasi dettandolo ai loro interlocutori internazionali, che remissivamente se lo lasciavano dettare, come l’ex Presidente del Consiglio italiano Romano Prodi in un famoso e imbarazzante fuori onda con l’allora premier israeliano Ehud Olmert. Con Netanyahu l’ebraicità è diventata legge, e questo ha delle implicazioni di cui gran parte del dibattito pubblico occidentale non si rende conto, rispetto ai propri valori proclamati.
All’epoca del nazismo, a dispetto delle assurde chimere di Hitler, il tentativo di definire chi era ebreo si presentava spesso come un rompicapo giuridico. Lo spiegava bene Roberto Finzi, nel suo libro L’Antisemitismo: «Nonostante tutte le elucubrazioni delle teorie e delle “ricerche scientifiche” razziste in Germania, come più tardi in Italia, non si riesce infatti a individuare altro criterio che quello dell’appartenenza religiosa». Di lì nasceva una minuziosa quanto inconsistente casistica discriminatoria che individuava perfino “meticci di primo grado”. Nella Germania nazista, «ebreo e meticcio di primo grado possono benissimo essere fratelli, magari anche gemelli; basta che l’uno sia innamorato di una ragazza ebrea e l’altro no».
Nel momento in cui la discriminazione cambia segno, l’attribuzione di diritti di cittadinanza in base all’ebraicità presenta comunque paradossi irrisolvibili. Irrisolvibili anche in mano a una classe dirigente audace che punti sulla soluzione nazionalistica sionista – cioè sull’Israele che conosciamo – per sciogliere tutto il nodo ebraico, senza peraltro riuscirvi. È una pretesa che nessuna spietatezza può soddisfare.
Il perché lo spiegava Ernesto Balducci nel suo saggio L’Uomo planetario: «il caso ebraico è un caso a sé: più ci si ragiona per discioglierlo nelle articolate spiegazioni della storia e più ci avviene di aggirarci attorno ad un ‘grumo’ inesplicabile. Intanto, mentre non è difficile dire chi è un mussulmano o chi è un negro, è impossibile dire chi è un ebreo. Il termine non indica una appartenenza etnica (non c’è una razza ebraica) né una professione di fede (ci sono ebrei atei) né una patria (ci sono ebrei che non ne vogliono sapere di Israele) né una cultura (ci sono ebrei del tutto integrati nella cultura del paese che abitano). Potremmo forse dire che l’elemento essenziale dell’ebraismo è la comunanza di una memoria storica: se questo filo si spezza, l’ebreo rientra totalmente nella comune degli uomini.»
Questa fedeltà del popolo ebraico alla propria diversità è forse da intendere per forza come il residuo di un tribalismo ostinato? Non necessariamente, come spiegheremo. Le spinte omologatrici del mondo globalizzato sono spesso pericolose, e il caso ebraico può essere visto come un segnale della forte individualità delle etnie che si disporranno domani nel mosaico dell’umanità unificata dalle grandi sfide planetarie.
Per contro, il valore universale dei diritti dell’uomo, sia come conquista del pensiero giuridico sia come pratica concreta, dovrebbe accantonare qualsiasi privilegio esclusivista per la singolarità etnica.
Balducci chiariva: «Finora, quando abbiamo scelto sulla linea della fedeltà etnica, abbiamo manomesso i criteri della totale uguaglianza fra gli uomini, e quando abbiamo scelto sulla linea di questa uguaglianza abbiamo mostrato ostilità, teorica e pratica, per ogni forma di diversità, individuale e collettiva.
La questione ebraica ci impedisce di far quadrare il cerchio, e cioè di dare soluzioni ad un problema che ancora non è risolvibile, perché ne mancano le condizioni. Per questo la questione ebraica ci rimanda al futuro.»
Un dilemma così delicato non può perciò risiedere sulle armi (convenzionali, non convenzionali, atomiche e propagandistiche) accumulate per decenni dall’attuale classe dirigente sionista e dai suoi corresponsabili, sia nelle sue correnti religiose fondamentaliste sia in quelle secolarizzate che non rinnegano nulla del laico Ben Gurion, quando dichiarava che «dobbiamo usare il terrore, l’assassinio, l’intimidazione, la confisca dei terreni e il taglio di tutti i servizi sociali per liberare la Galilea dalla sua popolazione araba», e che agiscono di conseguenza.
Un nodo come questo è un banco di prova fondamentale per il pianeta. Sottovalutarlo o pensare di scioglierlo con l’avventurismo militare ci porta dritti a una guerra di vastissime e funeste proporzioni, un pericolo che diventa ogni giorno più concreto.
Arrivare a risolverlo creativamente, con disegni politici di scala mondiale che ridisegnino l’assetto politico del Medio Oriente, è l’unico barlume per evitare la catastrofe. È una tensione in favore di un autentico realismo politico. Proprio perché questo è un problema di dimensione globale, siamo contro l’antisemitismo. Scontrarsi con l’antisemitismo non è solo un modo di tenere in grande considerazione la questione ebraica, è un modo di tener caro il futuro dell’uomo. Perciò dobbiamo essere all’altezza di questa complessità.
Due accademici, il geografo Arnon Sofer e il demografo Sergio Della Pergola (un israeliano nato e vissuto in Italia fino al 1966) dell’Università di Gerusalemme, a suo tempo consulenti di Ariel Sharon, hanno analizzato la situazione in termini che possiamo di seguito riassumere: date le attuali proiezioni sulla crescita demografica, Israele dovrà risolvere un problema che ha tre variabili: democrazia, ebraicità, dimensione territoriale. Soltanto due di queste variabili potrebbero coesistere nell’Israele degli anni a venire.
Potrà essere uno stato democratico ed ebraico, ma allora dovrà essere di ridotte dimensioni.
Potrà essere democratico e grande, ma allora non sarà più ebraico.
Infine, potrà essere ebraico ed esteso, ma allora non sarà più democratico.
Benché la soluzione “due popoli, due stati” sia ormai quasi unanimemente considerata – sia a livello internazionale che italiano – come l’unica possibile conclusione del conflitto, una tale soluzione, ammesso poi che sia mai realizzata, difficilmente potrà condurre ad una pacificazione dell’area poiché non risponde a criteri di giustizia ed equità.
La situazione di fatto creata in Palestina (ovvero nei Territori e in Israele) non consente la nascita dello stato palestinese a fianco di Israele se non come mera “espressione geografica” priva di elementari contenuti di sovranità.
Il nascente stato di Palestina, infatti, non avrebbe la possibilità di realizzare una politica di difesa indipendente né potrebbe stringere rapporti diplomatici con altri stati in tale funzione; dipenderebbe totalmente da Israele per l’utilizzo delle risorse primarie, ovvero acqua ed energia.
La conformazione territoriale consolidatasi in loco (in particolare in Cisgiordania) con la politica degli insediamenti e la costruzione del muro “difensivo” rende i territori palestinesi del tutto inadatti a formare un substrato geografico favorevole alla nascita di uno stato sovrano.
Con la situazione diplomatica attuale, poi, la nascita dello stato palestinese non risolverebbe le controverse questioni di Gerusalemme capitale e dello status dei profughi che dal 1948 in poi sono stati costretti ad abbandonare la Palestina.
La soluzione “due popoli, due stati” potrebbe poi innescare un’ulteriore fonte di conflitto, ora latente. Con la nascita dello stato di Palestina, la componente araba con passaporto israeliano che attualmente vive in territorio di Israele (pur con uno status di cittadini di serie B, come abbiamo visto) potrebbe essere “invitata” a trasferirsi nel nuovo stato per realizzare due entità nazionali (Israele e Palestina) etnicamente pure. La storia del Novecento ha mostrato in altre aree del pianeta molti precedenti di questi scambi, con costi umani spaventosi.
La nascita di Israele come stato escludente, su base confessionale ed etnica, così come voluto dalla dottrina sionista, ha prodotto fin dalla sua fondazione una ferita che non è più stata rimarginata. Se fin dagli anni Trenta del XX Secolo si fosse prospettata la nascita di uno stato indipendente su tutto il territorio di Palestina (comprendente l’attuale Israele più i Territori) con caratteri multi-etnici, multi-confessionali, multi-nazionali, lo stato avrebbe ottenuto ben presto, e forse da subito, un carattere pacifico ed unitario.
Ci chiediamo: è possibile recuperare, ora, quella prospettiva? Ovvero la nascita di un unico stato per due popoli? Guerre e divisioni distribuitesi su due secoli hanno segnato profondamente le due parti, tanto che una possibilità del genere appare utopistica. Tuttavia esistono ancora, sia negli ambienti pacifisti israeliani, sia a livello internazionale, gruppi e personalità ebraiche che, su una base anti-sionista, prospettano la riconciliazione con i palestinesi e la possibilità della nascita di una entità statale bi-nazionale e multiconfessionale.
È facilissimo tacciare di utopia una cosa che non c’è e non appare all’orizzonte. La soluzione “Uno Stato, Due Popoli” non è realistica, ci obiettano. Bene. Ma per lo stesso motivo possiamo obiettare con altrettanta forza: la soluzione “Due Popoli Due Stati” è forse all’orizzonte? È realistica? No, non ha mai preso concretezza reale, nemmeno con gli accordi di Oslo degli anni Novanta. Nemmeno con il ritiro unilaterale da Gaza deciso dal premier israeliano Ariel Sharon. Sarebbe bastato rileggersi l’intervista concessa il 6 ottobre 2004 al quotidiano «Haaretz» da Dov Weisglass, braccio destro di Sharon, quando dichiarò che il cosiddetto piano di disimpegno da Gaza (che prevedeva anche la costruzione del muro in Cisgiordania) era solo una manovra diversiva intesa a fornire a Israele «una quantità di formaldeide sufficiente affinché non ci sia un processo politico con i palestinesi».
Un mese dopo, moriva Yasser Arafat, il padre della patria, presidente dell’Anp, l’Autorità nazionale palestinese. Gli esponenti della classe dirigente laica di al-Fatah, fino ad allora tenuta insieme dal carisma di Arafat, apparivano ormai nudi nei loro terribili difetti. Avevano rubato a man bassa e si costruivano ville palladiane in mezzo alla miseria dei Territori occupati, mentre non avevano risultati tangibili da offrire come frutto della loro negoziazione continuamente soverchiata dal pugno di ferro del governo israeliano e mestamente instradata verso un percepito collaborazionismo. Per contro cresceva nella popolazione il prestigio del “Movimento di Resistenza Islamico”. Il suo acronimo arabo, Hamas, significa “zelo, entusiasmo”. I dirigenti di Hamas conducevano una vita frugale, intanto che in mezzo alle rovine tessevano reti di solidarietà materiale, una sorta di welfare residuale, ma infinitamente più credibile del disastro in cui sprofondava l’Anp.
Fu così che nel gennaio 2006 Hamas vinse le elezioni parlamentari palestinesi, con 76 seggi della camera su 132, mentre al-Fatah ne prese 43. Una vittoria autentica ed elettoralmente pulita, ma anche una variabile che nei calcoli delle potenze coinvolte non si considerava accettabile. Quando la democrazia ha due pesi e due misure.
Ancora Dov Weisglass, stavolta in veste di coordinatore di una squadra di governo che comprendeva anche i capoccioni delle forze armate e incaricata delle azioni anti-Hamas, commentò così subito dopo le elezioni l’intento di avviare una crudele stretta economica all’Autorità palestinese: «è come andare dal dietista: i palestinesi dimagriranno un bel po’, ma non moriranno mica». I presenti, tra cui Tzipi Livni, scoppiarono a ridere (vedi Gideon Levy, “As the Hamas team laughs”, «Haaretz», 19 febbraio 2006).
Weissglass in fondo era uno spiritoso. Nella famosa intervista ad «Haaretz» del 2004 aveva ben rimarcato quanta formaldeide servisse per imbalsamare le velleità di un accordo di pace: «noi abbiamo istruito il mondo, affinché capisca che non c’è nessuno con cui trattare. E abbiamo ricevuto un attestato… [che non c’è nessuno con cui trattare]. L’attestato sarà revocato solamente quando la Palestina diventerà come la Finlandia». La versione moderna delle calende greche, per chi osasse ancora vagheggiare due popoli in due stati.
I palestinesi della grande prigione non sono diventati finlandesi. Hanno subito fino in fondo la dieta, giorno dopo giorno. Nonostante la difficile tregua, la vite si stringeva sempre di più, venivano fatti passare sempre meno camion di aiuti, e nulla usciva dal campo della disperazione concentrata.
Gaza è il caso più disgraziato. Ma anche in Cisgiordania non si scherza. Il governo israeliano ha disposto la chiusura di decine di organizzazioni caritatevoli. La scusa è tagliare qualsiasi flusso che possa favorire Hamas. Quel che accade in realtà è la desertificazione di tutti i corpi intermedi, di tutte le formazioni sociali in seno alla popolazione palestinese, per lasciare spazio solo all’emergenza umanitaria in mano altrui. Magari in mano all’Onu, purché non rompa le scatole come faceva con Richard Falk, relatore speciale delle Nazioni Unite sui territori palestinesi, un ebreo cui fu alla fine vietato entrare in Terrasanta per aver espresso forti critiche sulla politica di occupazione israeliana. Abbiamo visto anche nel 2023 che – a suon di bombe – Israele non riserva nessun riguardo ai funzionari Onu.
A cercare l’impossibile quadratura del cerchio ci provò il Donald Trump, il 45° presidente degli Stati Uniti d’America. Ma anche lui si scontrò con le contraddizioni di fondo della situazione reale sul campo e della postura statunitense.
Il 28 gennaio 2020 l’amministrazione Trump svelò la sua proposta di pace fra israeliani e palestinesi in un festoso show alla Casa Bianca. Il tono delle autocelebrazioni del duetto Trump-Netanyahu nel presentare “l’Accordo del Secolo” sulla Palestina somigliava a una cerimonia di premiazione degli Oscar: sorrisetti, ammiccamenti, saluti alle consorti in sala, pacche sulle spalle, ottimismo, luci di scena. Perfetto per una festa della fiction.
Già chiamare “accordo” una decisione “prendere o lasciare” (in cui uno dei presunti partner, cioè il popolo palestinese e i suoi rappresentanti, non è nemmeno invitato allo show, non ha potuto negoziare nulla, non ha disegnato una sola mappa) è una manipolazione totale del significato delle cose. L’Accordo del Secolo era sì un accordo, ma un accordo non fra popoli, non fra nemici che fanno pace, non fra Israele e Palestina, bensì un accordo fra Donald Trump e Bibi Netanyahu, costruito sulla base dei desideri della destra nazionalista israeliana, ossia di un costrutto di interessi fondato sulla versione ottocentesca di un nazionalismo vecchio stampo, tutto sangue e terra, ideologismi coloniali e rapporti di forza brutali, assistito nondimeno da un luccicante e ultramoderno apparato di pubbliche relazioni su scala planetaria.
Quello che nell’incredibile mappa twittata da The Donald veniva descritto come il territorio dello Stato Palestinese non è l’ambito territoriale previsto dal Diritto internazionale, dai diritti dei popoli, dalla praticabilità geografica, dalla giustizia nelle assegnazioni delle risorse. È un limone spremuto, una terra residuale ritagliata scientificamente in ossequio agli interessi delle correnti più oltranziste di Israele, dove tutta l’acqua è sottratta ai palestinesi, ampie aree vengono annesse a Israele con confini appositamente disegnati per rendere discontinua e impossibile la connessione interna delle comunità, all’interno di una cornice giuridica che limita gravemente la sovranità e lascia tutto in mano alle forze armate di Netanyahu e sodali. Nessun arabo scacciato prima del 1967 dai suoi territori o un suo discendente avrà diritto a tornare a casa sua. Viceversa qualsiasi colono nato in Kansas che vanti radici nell’ebraismo americano e mai stato in Terra Santa potrà tranquillamente diventare cittadino di Israele. Come già accadeva, solo che da quel punto in poi Washington rinunciava anche a ogni tradizionale osservanza giuridica di facciata praticata nonostante tutto fino ad allora.
I mazzi di fantastiliardi virtuali agitati da Washington per indorare la pillola amara non possono nulla contro un semplice fatto: senza giustizia non può esserci pace. E questo non era un giusto accordo di pace. Era una capitolazione umiliante imposta unilateralmente a un popolo, era un vecchio arnese colonialista in grado di garantire un altro secolo di guerra. Non potrà mai funzionare.
La nostra idea va a fondo di una questione tutta politica, quindi ancorata alle necessità del realismo politico. Prelude a uno schema diverso.
Che arabi ed ebrei, insomma, possano vivere insieme con pari diritti e dignità in un unico stato. Per l’architettura giuridica ci si potrebbe ispirare a nazioni già esistenti, come Canada, Belgio, o Svizzera, paesi che, storicamente, pur con pulsioni anche recenti verso la separazione, hanno determinato pace e prosperità tra etnie distinte pur vivendo nello stesso ambito geografico.
Sul piano politico questo significa portare la prospettiva “due popoli, uno stato” a livello di conoscenza e dibattito pubblico al fine di contaminare il pensiero unico fondato su “due popoli, due stati”, una prospettiva che si richiama alla realpolitik, ma si dimostra sempre più sterile e politicamente impraticabile.
Con il patrocinio di esponenti e/o gruppi politici internazionali è forse tempo di promuovere convegni e conferenze sul tema, determinando l’incontro tra esponenti ebrei e arabi favorevoli a tale progetto, nella prospettiva di creare una organizzazione permanente, internazionale. Un focolare multietnico che sviluppi, promuova, analizzi e risolva tutte le problematiche inerenti alla questione e coaguli attorno a sé sempre maggiori forze.
Certo, l’ipotetico Stato Unico della Terra Santa – oggi collocato in un’area già popolatissima – diventerebbe una delle aree potenzialmente più affollate del pianeta, per via delle speculari Leggi del Ritorno che dovrebbero garantire a palestinesi ed ebrei di vivere ovunque vogliano, in quel territorio. Un processo di “nation building” di questa natura sarebbe costoso. Ma se si pensa ai miliardi attuali bruciati dagli USA ogni anno in forniture di armamenti strategici, se si pensa alle abnormi spese di gestione dell’apartheid, se si pensa in prospettiva allo sbocco che potrebbero avere gli affari mediorientali, le risorse ci sarebbero, eccome.
Gli inevitabili problemi di sicurezza, che oggi Israele affronta con unilateralità militare e in spregio alla comunità internazionale, dovrebbero essere in carico a una massiccia presenza di forze armate, forze di polizia e cooperanti civili di tutto il mondo. Un anno di servizio militare o civile a Hebron, a Gerusalemme, a Gaza, a Tel Aviv sarebbe per un’intera generazione un’esperienza di grande apertura al mondo.
Il discorso oggi più eretico del mondo, ossia volere la sconfitta politica del disegno sionista e volere una trasformazione statuale che rinunci all’assetto esistente, non è certo sinonimo di distruzione della presenza ebraica in Terra Santa. Ben al contrario.
«Ora, di tutti gli improbabili motivi accampati dai sionisti per occupare la Palestina», ricorda Miguel Martinez «l’unico che abbia un minimo di coerenza è quello teologico, basato su una delle possibili letture di ciò che chiamiamo “Antico Testamento”, ovviamente per chi ci crede. E non c’è dubbio che le terre israelitiche nella Bibbia (dove peraltro non compare mai l’espressione “Terra d’Israele”) corrispondessero all’incirca alla Cisgiordania più la Galilea, con l’esclusione della maggior parte dell’Israele pre-1967. Sono quindi significativi per il giudaismo esattamente quei luoghi che i sostenitori di “Due Popoli Due Stati” vorrebbero che venissero restituiti ai palestinesi.»
Non stupisce poter ritrovare perciò fra gli ebrei ortodossi una figura come Menachem Froman, che ha rovesciato i presupposti del «sionismo reale».
La Terra è unica, e umanamente appartiene ai palestinesi; «ma gli ebrei hanno il diritto, e forse il dovere, di vivere nei luoghi più sacri di quella terra.
Quindi stato unico dal Giordano al mare, con uguali diritti per tutti i suoi cittadini; e libertà per gli ebrei religiosi di insediarsi in ciò che loro chiamano Giudea e Samaria. In base allo stesso principio, Froman ha difeso le colonie ebraiche a Gaza».
Froman ha avuto un dialogo vero e caloroso anche con Hamas e con altre formazioni sociali e politiche palestinesi.
Il nuovo realismo politico procederà – dovrà procedere – in ambienti davvero inediti.
Volere il tramonto del Sionismo Reale (che ha divorato dall’interno qualsiasi altra tendenza del sionismo storico) e volere l’affermarsi di un ordine statuale che custodisca in modo nuovo la casa delle varie religioni e dei popoli del Medio Oriente può essere il parto di una nuova consapevolezza planetaria.