Metamorfosi neo-capitalistica

Da Pier Paolo Pasolini a Guy Debord. La società dello spettacolo e la metamorfosi neo-capitalistica in attività contemplativa. [Andrea Pesce]

Metamorfosi neo-capitalistica
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23 Dicembre 2014 - 08.53


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di Andrea Pesce

Il senso della vista gode da millenni il privilegio di essere il più studiato e citato nelle riflessioni dei più grandi filosofi. Aristotele nella Metafisica lo elegge a senso privilegiato dall’uomo in quanto “noi preferiamo la vista a tutte le altre sensazioni, non solo quando miriamo a uno scopo pratico, ma anche quando non intendiamo compiere alcuna azione. E il motivo sta nel fatto che questa sensazione, più di ogni altra, ci fa acquistare conoscenza e ci presenta con immediatezza una gran quantità di differenze”.

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Il vedere quindi implica, secondo lo Stagirita, l’entrare in contatto con l’alterità, con un qualcosa che non è parte di noi (in senso corporeo, materico) ma, allo stesso tempo, in intimo rapporto con noi: le cose che percepiamo attraverso l’occhio, penetrano nel nostro cervello e, in molti casi, permangono come traccia indelebile nella nostra memoria. Paradossalità dello sguardo: ciò che non può vederci è ciò che ci caratterizza, così come colui che vede non può scorgere il suo occhio che osserva.

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Se è vero, come voleva Aristotele, che la filosofia nasce dalla meraviglia di fronte ai fenomeni naturali e l’interrogarsi dinanzi ad essi, risulta inevitabile il nascere di una disciplina che si occupi di queste faccende: l’estetica. Il filosofo A. G. Baumgarten usa per primo questo termine in un’opera del 1735 dal titolo Aesthetica, dedicata alla conoscenza sensibile attraverso l’arte e la bellezza. Va ricordato che l’irrompere in noi del sentire estetico, quel qualcosa che ci turba, commuove o emoziona nel profondo, non deriva solo dalla contemplazione o dalla mera partecipazione visiva nei confronti di opere d’arte plastiche o visive; una poesia o un romanzo, una sinfonia o un semplice brano musicale possono regalarci, con altrettanta forza, quel turbamento emotivo così assorbente ed esclusivo. Tutto ciò oggi, in forme degradate, offese, fraintese e avvilite è entrato a far parte della “società dello spettacolo”.

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Dai tempi del teatro greco lo spettacolo è divenuto istituzione sociale in cui gruppi di persone dette “spettatori” passano il proprio tempo assistendo ad una recita in balia delle proprie emozioni. Nulla di scandaloso in tutto ciò. Lo spettatore, dopo avere assistito alla tragedia che si rappresentava, tornava alla sua vita di sempre, avendo magari imparato qualcosa in più sui problemi dell’umano vivere. I mezzi di comunicazione di massa hanno stravolto completamente questo assetto. La dimensione spettacolare è stata portata al massimo grado di esposizione. Tutto è spettacolo: dai telegiornali alle guerre, dal farsi una doccia al friggersi un uovo.

Il principale apparato della società dello spettacolo è la televisione. Paradigmatico è il caso dei telegiornali che, da alcuni anni a questa parte, hanno assunto la forma del varietà, in quella confusione tra informazione e spettacolo che ha dato vita al neologismo [i]infotainment[/i]. Due esperti della teoria e tecnica della comunicazione di massa come Ugo Volli e Omar Calabrese si sono occupati di questo problema in un saggio dal titolo I telegiornali: istruzioni per l’uso. Un libro nel quale vengono analizzate le metamorfosi dei Tg nella storia d’Italia dai primi anni Cinquanta fino all’era della Tv berlusconiana, di cui bene conosciamo gli effetti.

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Nel capitolo “Informazione e spettacolo” gli autori espongono il loro giudizio sui Tg con queste parole: “La regia degli eventi, la costruzione dei colpi di scena, il montaggio degli argomenti, la personalità e l’aspetto fisico degli interpreti, l’impaginazione e la titolazione seduttiva, la costruzione della suspense, il lavoro che continuamente l’apparato mette in opera per costruire un’illusione di realtà. […] In televisione anche le notizie esistono solo se fanno spettacolo e si sottopongono alle leggi dello spettacolo – la prima delle quali è naturalmente che il pubblico ha sempre ragione e non si deve mai annoiare”.

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I due esperti non dimenticano l’aspetto ideologico del problema per cui: “Lo spettacolo del mondo come è raccontato dai notiziari televisivi è, secondo il punto di vista di Edelman, una essenziale sorgente di legittimazione per lo Stato: là fuori ci sono terribili nemici e sfide complicate; per riuscire a vivere tranquilli qui dentro, nel salotto di casa dove il mondo è spettacolo, qualcuno deve pensarci per noi”. Spettacolo: genere Telegiornale.

E’ vero che Marx, già un secolo e mezzo fa, aveva capito che il capitalismo sarebbe degenerato verso la forma del più bieco consumismo. Egli tuttavia credeva che la morte del capitalismo si sarebbe verificata nel momento in cui l’offerta avrebbe superato la domanda, in una spaventosa abbondanza delle merci al consumo. Le cose sono andate un po’ diversamente. Nel nostro secolo almeno due “profeti” vanno menzionati in tal senso, per la loro opera di prosecuzione del pensiero di Marx nell’analisi della società consumistica: Pier Paolo Pasolini e Guy Debord rappresentano due punti di riferimento per tutti coloro i quali avvertono l’esigenza del cambiamento attraverso la critica sociale.

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Dai primi anni Sessanta entrambi si erano accorti che la situazione per le masse andava via via peggiorando per il sempre più invasivo e opprimente potere della televisione. Pasolini in un articolo dal titolo Acculturazione e acculturazione pubblicato sul “Corriere della Sera” del 9 dicembre 1973 (ora contenuto nella raccolta Scritti corsari) arrivò addirittura provocatoriamente a lanciare una sfida ai dirigenti Rai nella promozione della lettura: veri e propri sponsor, non relegati solo ai programmi culturali, ma inseriti nei palinsesti secondo le regole pubblicitarie che impongono di consumare.

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Da queste affermazioni del poeta emerge l’aspetto “utopico”, se vogliamo idealistico, del suo pensiero. In un tentativo estremo di arginare il “genocidio culturale”, o comunque il disastro politico-sociale verso cui ci si stava indirizzando, attraverso forme di rieducazione delle masse mediante la presa di coscienza della propria condizione di sfruttati e inebetiti, derivante dalla lettura dei libri, Pasolini credeva di poter salvare ancora parte del popolo italiano prima che l’omologazione diventasse totale.

In una intervista per la Rai degli anni Settanta lo scrittore confessava di non aver compreso il motivo per cui al regima fascista non era riuscito il completo assoggettamento delle masse attraverso l’appiattimento e la sottomissione totale negli usi e costumi degli italiani: un contadino rimaneva tale e così gli appartenenti alla classe operaia o del sottoproletariato urbano. Capì che tutto questo stava perfettamente riuscendo a questa forma di neocapitalismo detta consumismo, ma non fece in tempo a cogliere le modalità in cui questo assoggettamento si stava attuando.

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Tutta questa terribile mutazione totalitaria il poeta l’argomentò, con sconcertante lucidità, nel già citato articolo Acculturazione e acculturazione della fine del 1973. All’epoca bollato come catastrofico, antimodernista, eccessivo e, da alcuni addirittura ideologico, se riletto oggi, risulta essere una delle più precise analisi della società italiana a venire, quella che dagli anni Ottanta in poi sarebbe divenuta la massima espressione della cosiddetta “neo-civilizzazione berlusconiana”. L’articolo merita di essere riportato nella sua quasi totale interezza:

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Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava a ottenere la oro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal centro è totale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati. L’abiura è compiuta. Si può dunque affermare che la “tolleranza” della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana.

Come si è potuta esercitare tale repressione? Attraverso due rivoluzioni, interne all’organizzazione borghese: la rivoluzione delle infrastrutture e la rivoluzione del sistema d’informazioni. Le strade, la motorizzazione ecc. hanno ormai strettamente unito la periferia al Centro. Ma la rivoluzione del sistema d’informazioni è stata ancora più radicale e decisiva.

Per mezzo della televisione il Centro ha assimilato a sé l’intero Paese, che era così storicamente differenziato e ricco di culture originali. Ha cominciato un’opera di omologazione distruttrice di ogni autenticità e concretezza. Ha imposto cioè i suoi modelli: che sono i modelli voluti dalla nuova industrializzazione, la quale non si accontenta più di un “uomo che consuma”, ma pretende che non siano concepibili altre ideologie che quella del consumo. Un edonismo neo-laico, ciecamente dimentico di ogni valore umanistico e ciecamente estraneo alle scienze umane.

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L’antecedente ideologia voluta e imposta dal potere era, come si sa, la religione: e il cattolicesimo, infatti, era formalmente l’unico fenomeno culturale che “omologava” gli italiani. Ora esso è diventato concorrente di quel nuovo fenomeno culturale “omologatore” che è l’edonismo di massa: e, come concorrente, il nuovo potere già da qualche anno ha cominciato a liquidarlo.

Non c’è infatti niente di religioso nel modello del Giovane Uomo e della Giovane Donna proposti e imposti dalla televisione. Essi sono due Persone che avvalorano la vita solo attraverso i suoi Beni di consumo (e, s’intende, vanno ancora a messa la domenica: in macchina). Gli italiani hanno accettato con entusiasmo questo nuovo modello che la televisione impone loro secondo le norme della Produzione creatrice di benessere (o, meglio, di salvezza dalla miseria).

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[…]

Nel tempo stesso, il ragazzo piccolo borghese, nell’adeguarsi al modello “televisivo” – che, essendo la sua stessa classe a creare e a volere, gli è sostanzialmente naturale – diviene stranamente rozzo e felice. Se i sottoproletari si sono imborghesiti, i borghesi si sono sottoproletarizzati. La cultura che essi producono, essendo di carattere tecnologico e strettamente pragmatico, impedisce al vecchio “uomo” che è ancora in loro di svilupparsi. Da ciò deriva in essi una specie di rattrappimento delle facoltà intellettuali e morali.

La responsabilità della televisione, in tutto questo, è enorme. Non certo in quanto “mezzo tecnico”, ma in quanto strumento del potere e potere essa stessa. Essa non è soltanto un luogo attraverso cui passano i messaggi, ma è un centro elaboratore di messaggi. E’ il luogo dove si fa concreta una mentalità che altrimenti non si saprebbe dove collocare. E’ attraverso lo spirito della televisione che si manifesta in concreto lo spirito del nuovo potere.

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Non c’è dubbio (lo si vede dai risultati) che la televisione sia autoritaria e repressiva come mai nessun mezzo di informazione al mondo. Il giornale fascista e le scritte sui cascinali di slogans mussoliniani fanno ridere: come (con dolore) l’aratro rispetto a un trattore. Il fascismo, voglio ripeterlo, non è stato sostanzialmente in grado di scalfire l’anima del popolo italiano: il nuovo fascismo, attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di informazione (specie appunto la televisione), non solo l’ha scalfita, ma l’ha lacerata, violata, bruttata per sempre…

Al suo pensiero mancava ancora un tassello, un’ultima tessera del puzzle per avere l’immagine nitida della realtà sociale che si stava configurando. La genesi del cancro è stata descritta da Guy Debord quando, nel saggio La società dello spettacolo del 1967, ha compreso il segno dell’irreparabile nella deriva consumistica dei lavoratori.

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Il capitale non opprime più l’operaio solo all’interno della fabbrica o ufficio, ma è fuoriuscito convertendo il lavoratore in consumatore. Anche il concetto marxiano di alienazione subisce una mutazione, un cambiamento radicale portato dal fatto che lo spreco del tempo libero diventa essenziale all’abbattimento, da parte del capitale, di ogni velleità rivoluzionaria.

Mentre in passato era essenziale per il rivoluzionario mettere a buon fine il proprio tempo libero, pianificando la lotta da porre in essere contro la classe dominante, oggi il consumatore passa le proprie ore ad istupidirsi di fronte agli spettacoli che i suoi sfruttatori generano per lui.

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Baudrillard ha egregiamente sintetizzato questo concetto nella frase: “Il consumatore è un lavoratore che non sa di lavorare”.

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Scenario da romanzo di fantascienza. Completamente imprigionati all’interno delle gabbie del consumo, i lavoratori rimangono oggetti passivi da sfruttare (in forme sempre più viscide e sottili) per la totalità della loro esistenza. Non va peraltro dimenticato che l’analisi debordiana rivelava che lo strumento principale di influenza politico-sociale è ludico e non tanto religioso o politico.

Come ribadiscono Volli e Calabrese nel saggio succitato: “Che una società tesa al consumo piacevole del tempo sia dominata dallo spettacolo, è perfettamente naturale, dato che lo spettacolo è la forma più economica di divertimento organizzato: economica per chi ne fruisce, perché gli si richiede pochissima attività; economica per chi la produce, dato che egli può contare su una forte sproporzione tra attori e pubblico. Economica infine nei suoi mezzi e contenuti, dato che si basa generalmente su forme fortemente codificate di racconto”.

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Il tassello finale, si diceva, sta nell’introduzione, da parte di Debord, del concetto di “contemplazione” che egli riprende da Storia e coscienza di classe di Gyorgy Lukács abbinandolo all’elemento fondamentale del consumo.

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In un passo di quest’opera il filosofo di Budapest afferma: “[…] più aumentano la razionalizzazione e la meccanizzazione del processo lavorativo, più l’atteggiamento del lavoratore perde il suo carattere di attività per trasformarsi in un atteggiamento contemplativo…”, concetto, questo, a cui Debord dedica l’occhiello al secondo capitolo.

A proposito di questo termine (dal latino contemplari cioè “trarre qualche cosa nel proprio orizzonte”, che era lo spazio che l’augure circoscriveva per osservare il volo degli uccelli e divinare il futuro), mutuato dalla teoria estetica, non va trascurata l’origine che si ritrova in ambito filosofico e mistico-religioso. Già in Platone e Aristotele rappresentava la conoscenza intellettuale (theoria) da contrapporsi all’azione (praxis).

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Nel senso mistico-religioso l’atteggiamento contemplativo è quello in cui la mente si fissa su una realtà spirituale fino all’oblio di ogni altra realtà. Molto interessante risultano essere le tendenze mistico-contemplative fuori del cristianesimo, soprattutto nello yoga e nel buddismo, in cui la contemplazione è considerata il vertice nell’itinerario ascetico portando all’annullamento del pensiero e di tutti i desideri; sorta di comportamento ipnotico che fa pensare alla chiesa catodica del film Videodrome di David Cronenberg, in cui il culto nei confronti del video aveva raggiunto livelli di affascinante catastroficità.

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Debord insiste fortemente nell’identificazione tra capitale e spettacolo giungendo ad una intuizione assolutamente geniale: “Lo spettacolo è il capitale a un tal grado di accumulazione da divenire immagine”. L’offerta, come voleva Marx, ha sicuramente superato la domanda, assumendo l’inconsistente forma dell’immagine.

Aggiunge Debord: “Il consumatore reale diviene consumatore di illusioni. La merce è questa illusione effettivamente reale, e lo spettacolo la sua manifestazione generale”. Questo è il surplus richiesto al lavoratore, non più inteso come proletario-operaio, come voleva l’economia politica nella prima fase dell’accumulazione capitalista, ma elevato al rango di consumatore durante il periodo di svago dal lavoro, bombardato da colossali investimenti in campo pubblicitario che garantiscono alla classe dominante di inculcare e imporre sempre più il modello di vita piccolo borghese, modello cinico, egoista, indifferente.

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(22 dicembre 2014)

Nota

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Lo scritto Acculturazione e acculturazione di Pier Paolo Pasolini apparve sul “Corriere della Sera” il 9 dicembre 1973 col titolo Sfida ai dirigenti della televisione; ora in Saggi sulla politica e sulla società, Meridiani Mondadori, Milano 1999, pp. 291-293).

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