Come si manipola la storia attraverso le immagini

La narrazione corrente sulla vicenda delle Foibe è costruita con tantissime foto che falsificano e invertono vittime e carnefici. Analisi spietata di un metodo.

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12 Marzo 2015 - 12.33


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di Piero Purini*
con la collaborazione del gruppo di lavoro «Nicoletta Bourbaki»
1. UN GIORNO A DANE, SLOVENIA, 31 LUGLIO 1942
Guardate questa foto:
Un plotone d’esecuzione in divisa, cinque fucilati di schiena che attendono la scarica.
Guardate quest’immagine:
E quest’altra:
E questa ancora:
Ce ne sono molte altre simili nei manifesti che pubblicizzano iniziative per il Giorno del ricordo.
A questo punto vi sarete convinti: i fucilati, chiaramente, sono italiani che vengono uccisi dalle truppe jugoslave.
La foto viene messa in onda nella trasmissione Porta a porta condotta da Bruno Vespa per la giornata del ricordo del 2012. Ospiti in studio, tra gli altri, gli storici Raoul Pupo Alessandra Kersevan.
In quella trasmissione però emerge, con enorme disappunto di Bruno Vespa, che la foto non mostra la fucilazione di vittime italiane da parte dei feroci partigiani titini. Tutt’altro. Alessandra Kersevan fa notare che la foto ritrae la fucilazione di cinque ostaggi sloveni da parte delle truppe italiane durante l’occupazione italiana della Slovenia (1941-1943). Bruno Vespa attacca furiosamente la signora Kersevan (non si sa perché altri ospiti vengono definiti professore o professoressa, titolo che spetterebbe di diritto anche a questa ricercatrice storica); Raoul Pupo interviene sulla questione solo quando viene interpellato direttamente dalla Kersevan e conferma che il contenuto dell’immagine è completamente opposto a quanto viene fatto passare nella trasmissione. Quando è costretto a prendere atto che la foto ritrae effettivamente ostaggi sloveni fucilati da un plotone d’esecuzione italiano, il conduttore si giustifica dicendo che l’immagine è tratta da un libro sloveno.
Bruno Vespa non porgerà  mai le proprie scuse alla professoressa Kersevan per il madornale errore.
In effetti la fotografia è stata scattata nel villaggio di Dane, nella Loška Dolina, a sudest di Lubiana. Si sa anche il giorno in cui la foto fu scattata, il 31 luglio 1942, e addirittura i nomi dei fucilati:
Franc Žnidaršič,
Janez Kranjc,
Franc Škerbec,
Feliks Žnidaršič,
Edvard Škerbec.
Come nella Wehrmacht e nelle SS, anche nell’esercito italiano si documentavano stragi e crimini, salvo tenerli nascosti negli anni successivi per confermare il (finto) cliché del «bono soldato italiano».

Il rullino di cui la fotografia faceva parte viene abbandonato dalle truppe italiane dopo l’8 settembre 1943 e finisce nelle mani dei partigiani. Nel maggio del 1946 la foto (insieme ad altro materiale che testimonia la Lotta di liberazione jugoslava ed i crimini di guerra italiani e tedeschi in Slovenia) viene pubblicata a Lubiana nel libro Mučeniška pot k svobodi («La travagliata strada verso la libertà»).
Nello stesso anno, sempre a Lubiana, viene pubblicato – stavolta in italiano  – un altro libro sullo stesso tema, Ventinove mesi di occupazione italiana nella provincia di Lubiana: considerazioni e documenti, a cura di Giuseppe Piemontese.

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Da quest’ultimo libro è tratta questa pagina, che riporta la foto con la didascalia: «…e un ufficiale si diletta a fotografare…»

…che è la continuazione del commento ad un foto pubblicata accanto: «Prima di venir fucilati devono scavarsi la fossa». Non è la stessa fucilazione ma sono gli stessi fucilatori, è un’esecuzione di ostaggi nella vicina Zavrh pri Cerknici, avvenuta quattro giorni prima.
La stessa immagine però è passata sul Tg3 riferita alle vittime delle foibe:
In un’altra pubblicazione – Tone Ferenc, La provincia “italiana” di Lubiana. Documenti 1941-1942, Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione, Udine 1994 – si trova la didascalia con tutte le informazioni necessarie a identificare la fucilazione di Dane:
Eppure non basta: si continua a spacciare la foto dei cinque ostaggi sloveni come italiani vittime degli slavocomunisti.

In alcuni casi l’uso della foto nei manifesti della Giornata del ricordo scatena reazioni internazionali: a protestare contro il clamoroso errore (ammesso e non concesso che non si tratti di una bufala voluta) è addirittura il Ministero degli esteri sloveno che segnala al Comune di Bastia Umbra l’uso improprio della fonte. Altre volte lettere giungono da storici indipendenti come Alessandra KersevanClaudia Cernigoi e Sandi Volk. Le reazioni sono spesso di scuse (con la conseguente rimozione del materiale iconografico da siti on line), ma in alcuni casi – quali quella dell’assessore alla cultura di Bastia Umbra Rosella Aristei – si procede ad un’improbabile giustificazione dell’uso della foto come denuncia simbolica della violenza, esecrabile in tutte le sue varie forme.

La vicenda della foto di Dane ha il suo apice in una lettera di protesta spedita direttamente al presidente Napolitano da parte di Miro Mlinar, Presidente dell’Associazione dei combattenti per i valori della lotta di liberazione nazionale di Cerknica (Slovenia), offeso dal fatto che l’immagine fosse stata addirittura pubblicata impropriamente sul sito del Ministero degli interni italiano. Purtroppo non abbiamo lo screenshot del sito del Ministero, tuttavia la lettera di Mlinar è reperibile qui.
Il Presidente dell’Associazione dei combattenti slovena sostiene che è stata proprio la pubblicazione sul sito ufficiale italiano a giustificare in seguito l’uso scorretto della foto, facendola diventare uno strumento improprio per aizzare l’odio verso il popolo sloveno. Per questo suggerisce a Napolitano di spostare la data del Giorno del ricordo al 10 giugno, «data del vero inizio delle tragedie del popolo italiano.» A quanto mi risulta il primo presidente proveniente dal partito italiano che più aveva contribuito alla Resistenza non si è nemmeno degnato di rispondere a Mlinar.

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Per la vicenda delle false attribuzioni della foto di Dane rimando a questo dossier  e ringrazio Ivan Serra e lo staff del sito diecifebbraio.info per la minuziosa ricostruzione della bufala e delle sue implicazioni internazionali.

In qualche modo, tuttavia, la vicenda dell’abuso della foto di Dane arriva fino ai media nazionali. Finalmente, pochi giorni fa, se ne occupa un articolo sull’Espresso, grazie ad un post pubblicato proprio qui su Giap:

Si spera che con questo passaggio su un periodico a diffusione nazionale finalmenteFranc Žnidaršič, Janez Kranjc, Franc Škerbec, Feliks Žnidaršič ed Edvard Škerbecpossano avere la giustizia e la collocazione storica che si meritano.

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2. FUCILATI MONTENEGRINI SPACCIATI PER «VITTIME DELLE FOIBE»

Le bufale legate alla giornata del ricordo non si limitano alla fucilazione degli ostaggi di Dane. Ecco qui un altro esempio:

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ed ancora un altro:

Nell’intento di chi ha utilizzato queste foto, la prima rappresenterebbe un gruppo di italiani uccisi dai titini e la seconda un partigiano che prende a calci un povero prigioniero italiano.

Anche in questo caso invece la realtà è un’altra (già le divise dei due militari della seconda immagine non lasciano dubbi che si tratti di un soldato e di un ufficiale italiano): entrambe le foto fanno parte dello stesso rullino e documentano la fucilazione di ostaggi e partigiani in Montenegro, occupato dall’esercito italiano dall’aprile del 1941 all’8 settembre 1943. Ne esiste la sequenza completa (sul sito criminidiguerra.it ), qui le tratteremo una per una perché ogni fotogramma contiene particolari che smentiscono si tratti di italiani.

I prigionieri montenegrini sono presi a calci da un soldato italiano riconoscibile dalla divisa mentre vengono portati sul luogo della fucilazione:

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Poi i prigionieri sono schierati davanti al plotone d’esecuzione. Che non si tratti di italiani è intuibile dal copricapo del terzo e del quinto condannato da sinistra che indossano la tipica berretta montenegrina. Quattro ostaggi alzano il pugno chiuso, evidente testimonianza che – almeno quei quattro – sono partigiani comunisti. L’uomo al centro della foto, accanto a quello che mostra il pugno, indossa il berretto partigiano, la cosiddetta “titovka”.

Parte la scarica (italiana)…
Gli ostaggi sono morti. E’ la stessa foto che illustra la notizia del Giorno del ricordo a Cernobbio, ma ora sappiamo che sono vittime montenegrine degli italiani e non italiani vittime degli jugoslavi.
L’ufficiale italiano, la cui mano si intravede in alto a sinistra, spara il colpo di grazia ai fucilati. Anche in questa foto c’è un particolare che conferma il fatto che le vittime non sono italiane: uno dei morti calza le tipiche babbucce serbo-montenegrine, le opanke.
L’ultima foto del rullino:
3. NUMERO D’INVENTARIO 8318
Altra foto che non rappresenta vittime delle foibe, ma che viene fatta passare come tale:

Fin da subito di questa foto non mi hanno convinto diversi particolari: il paesaggio non è per nulla istriano o carsico, le divise non sembrano assolutamente divise “titine” o anche di partigiani non inquadrati in formazioni regolari, i cadaveri sono troppi e troppo “freschi” per essere stati estratti da una foiba. Nel caso in cui non si trattasse di vittime estratte da una foiba ma di un’esecuzione sommaria da parte degli jugoslavi, colpisce invece il fatto che i morti sembrano essere tutti maschi e che non ci sia tra loro nemmeno una persona in divisa (dal momento che, nella vulgata fascista e neofascista sulle foibe, nel 1943 sarebbero stati eliminati tutti coloro che potevano essere considerati funzionari dello Stato italiano, compresi dunque militari e pure donne).

Dopo innumerevoli supposizioni (Katyn? Stragi di ebrei nel Baltico?), grazie alla solerzia di un giapster, Tuco, troviamo l’originale. Si trova nell’archivio dell’Armata Popolare Jugoslava a Belgrado. Eccola:

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Che si tratti di una stampa dal negativo è chiaro dalla pulizia e dalla definizione dell’immagine: in nessuno dei siti italiani che riportano la foto, questa è così nitida e i dettagli così visibili. Ma ciò che è più interessante è quel che c’è scritto dietro. Il sito, infatti, riporta anche il retro della foto, dove ogni archivio fotografico segnala le note e la descrizione relativa all’immagine.

La traduzione è la seguente: «Numero d’inventario 8318. Crimine degli italiani in Slovenia. Negativo siglato A-789/8. Originale: Museo dell’JNA a Belgrado»

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Dunque non si tratta, nemmeno in questo caso, di vittime delle foibe, ma piuttosto del contrario: vittime slovene uccise dall’esercito italiano.

Ciò che è impressionante è la velocità con cui su internet un’immagine diventa virale (e dunque “vera”): cercando nel web il 10 febbraio alle otto di sera, quest’immagine – secondo le mie modeste conoscenze informatiche – appariva sette volte, tutte e sette associata al descrittore “foibe”. Due giorni dopo (giovedì 12 verso le 23.00) la foto era reperibile su ben 103 siti, a dimostrazione dell’incredibile potenza moltiplicativa di Internet, pur trattandosi di una bufala.

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4. SI PARLA DEL «DRAMMA DEGLI INFOIBATI» E SI MOSTRA UN UFFICIALE DELLE SS MA FORSE LA STORIA E’ ANCORA PIU’ ASSURDA

Su internet si trova anche la seguente immagine:

Immagine generalmente associata al massacro degli ufficiali polacchi a Katyn, alla liquidazione degli Shtetl in Polonia ed Ucraina, alle uccisioni delle foibe, addirittura ad esecuzioni da parte austro-ungarica di prigionieri catturati durante la disfatta di Caporetto nel 1917. Non ho trovato un archetipo, ma escludo tanto Katyn quanto le foibe in quanto non esistono testimonianze fotografiche delle esecuzioni ed in entrambi i casi non avrebbe avuto senso spogliare le vittime. L’attribuzione più plausibile mi sembra quella dell’eliminazione di prigionieri (russi?) in qualche villaggio dell’est o in un campo di concentramento, vista anche la divisa del boia, che sembra essere delle SS-Totenkopfverbände (Testa di morto), reparto adibito alla custodia dei campi nazisti.
5. BRUNO VESPA CI RICASCA: I PARTIGIANI IMPICCATI A PREMARIACCO
Torniamo ora a Bruno Vespa. Oltre a non essersi mai scusato ufficialmente con Alessandra Kersevan per l’errore (?) dei fucilati di Dane, nella trasmissione dedicata alla Giornata del ricordo di quest’anno (2015), mentre sta parlando di «esecuzioni sommarie a Trieste», manda in onda questa foto:

Chiaramente lo spettatore ignaro viene indotto a pensare che si tratti di italiani impiccati dai partigiani titini. Invece non è così: come nel caso di Dane, Vespa mostra in un contesto un’immagine che è esattamente l’opposto. Si tratta infatti di partigiani friulani (più uno goriziano ed uno sloveno) impiccati a Premariacco in Friuli il 29 maggio del 1944. Anche i nomi delle vittime di questa strage sono conosciuti:
Sergio Buligan, 18 anni;
Luigi Cecutto, 19 anni;
Vinicio Comuzzo, 18 anni;
Angelo Del Degan, 18 anni;
Livio Domini, 18 anni;
Stefano Domini, 19 anni;
Alessio Feruglio, 19 anni;
Aniceto Feruglio, 17 anni;
Pietro Feruglio, 18 anni;
Ardo Martelossi, 19 anni;
Diego Mesaglio, 20 anni;
Mario Noacco, 20 anni;
Mario Paolini, 18 anni,
tutti di Feletto Umberto.
Inoltre:
Ezio Baldassi di San Giovanni al Natisone, 16 anni;
Guido Beltrame di Manzano, 60 anni;
Sergio Torossi di Corno di Rosazzo, 17 anni;
Antonio Ceccon di Dogna, 19 anni;
Luigi Cerno di Taipana, 21 anni;
Bruno Clocchiatti di Corno di Rosazzo, 17 anni;
Oreste Cotterli di Udine, 41 anni;
Agostino Fattorini di Reana del Rojale, 24 anni;
Dionisio Tauro di Chions, 41 anni;
Guerrino Zannier di Clauzetto, 25 anni;
Mario Pontarini o Pontoni;
Luigi Bon di Gorizia, 35 anni;
Jože Brunič di Novo Mesto.

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Ecco la foto non deturpata dal logo della trasmissione di Vespa:

Dal momento che in contemporanea ci fu un’esecuzione collettiva anche a San Giovanni al Natisone e non è perfettamente chiaro quali dei partigiani elencati sopra siano stati uccisi a Premariacco e quali a San Giovanni, pubblichiamo qui di seguito anche la foto dei caduti per la libertà di San Giovanni al Natisone, sperando in questo modo di evitare preventivamente che si insulti anche la loro memoria (anche considerando che l’Anpi di Udine, pochi giorni dopo la bufala di Bruno Vespa, ha tolto dal proprio sito foto e riferimenti ai martiri del 29 maggio. Speriamo si tratti di un caso.)
[N.d.R. Nei commenti a questo post viene spiegato l’arcano: «il sito dell’ANPI di Udine ha cambiato non solo server, ma anche piattaforma (da Drupal a WordPress); in ragione di ciò tutti i link interni devono essere editati a mano.»]

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6. CHE C’ENTRA SREBRENICA CON LE FOIBE?

C’è poi l’articolo de «Il Piccolo» di Trieste che sarebbe esilarante se non trattasse di un argomento, anzi due, così macabro e doloroso.

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Il sottotitolo della foto reca la dicitura: «L’esumazione di una parte dei cadaveri rinvenuti in una foiba». Peccato che la foto sia a colori, gli esumatori indossino jeans e sia evidente come l’immagine sia di decenni più recente. Facendo una rapida ricerca su internet si trova l’originale: è una fossa comune nel villaggio di Kamenica in Bosnia, nel Cantone di Tuzla, in cui sono stati sepolti musulmani bosniaci dopo la deportazione da Srebrenica.

L’errore è così grossolano che il giornale nel giro di poche ore sostituisce la foto con questa (che si riferisce effettivamente al recupero di corpi dalla foiba di Vines, 1943):

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7. LA «VERA STORIA» CON COPERTINA FALSA

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Passiamo poi ad uno dei taroccamenti più evidenti dell’intera vicenda “foibe”, che richiama alcuni dei luoghi comuni più triti sulla bestialità dei partigiani, la sanguinarietà truculenta e la partecipazione delle partigiane (le terribili “drugarice”) alle azioni più violente. Si tratta della copertina del libro Una grande tragedia dimenticata. La vera storia delle foibe, di Giuseppina Mellace, edito da Newton Compton.

Nella copertina si vede un trio (ad occhio: un partigiano e due partigiane) nell’atto di sgozzare una vittima (presumibilmente un povero italiano). Anche qui però il taroccamento è palese. La foto originale infatti è questa:

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Anche in questo caso si assiste ad un totale ribaltamento del senso dell’immagine. I carnefici della foto infatti sono una Crna trojka (“Terzetto Nero”), unità četniche, cioè appartenenti all’esercito nazionalista serbo. Si trattava di una sorta di tribunale volante che aveva il compito di eliminare collaborazionisti dell’occupatore. Con l’evolversi della guerra e con l’avvicinamento di Draža Mihailović ai tedeschi, le Crne trojke si dedicarono sempre più all’esecuzione sommaria di partigiani comunisti, di simpatizzanti del movimento partigiano e dei loro familiari. Che si tratti di četnici e non di partigiani è facilmente deducibile dall’abbigliamento: anziché la bustina partigiana (la cosiddetta titovka, già citata nel caso dei fucilati montenegrini), gli individui fotografati sul libro della Mellace hanno in testa una šajkača, il tipico copricapo serbo, utilizzato dai nazionalisti serbi.

Qui di seguito la differenza tra una titovka (che peraltro è sempre ornata da una stella rossa) e una šajkača (che solitamente ha in fronte uno scudo con l’aquila serba, decisamente più grande, come si può notare dal copricapo del četniko in piedi al centro della foto).

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Il fatto poi che siano četnici esclude che le due persone in piedi siano donne: è noto che i nazionalisti serbi portavano i capelli lunghi alle spalle.

Inoltre che la vittima non sia un italiano è nuovamente intuibile dalle calzature, che sono – come nel caso di alcuni dei fucilati del Montenegro – opanke, cioè le babbucce tipiche della Serbia e del Montenegro.

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8. MORTI NEI LAGER NAZISTI E FASCISTI SPACCIATI PER… INDOVINATE COSA?

Per taroccare le immagini relative alla Giornata del ricordo non si è disdegnato di utilizzare anche i campi di concentramento e sterminio nazisti.

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Il Comune di Brisighella (ma a grandi linee mi pare che l’utilizzo della foto sia più diffuso) commemora le foibe con questa foto:

…che in realtà è una foto di cadaveri nel campo di Bergen-Belsen; mentre su alcuni siti e addirittura in un manifesto della Provincia di Foggia appare quest’altra foto di bambini in un campo nazista…

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…spacciata – non si capisce bene in che modo – per una foto relativa alle foibe.

Sempre in tema di campi di concentramento ecco un’altra foto clamorosamente sbagliata:

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In realtà si tratta di un deportato croato nel campo di concentramento italianodell’isola di Arbe.L’immagine è addirittura sulla copertina di un libro di Alessandra Kersevan:

Ancora una volta le fotografie utilizzate per la Giornata del ricordo girano la verità storica di 180°, presentando le vittime come aguzzini e viceversa.

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9. FRANCESI IN FUGA DA HITLER SPACCIATI PER ESULI ISTRIANI

Non basta, manca l’esodo. Ecco qui una foto che negli ultimi tempi ha girato parecchio su internet: una bambina e la sua famiglia scappano dall’occupazione jugoslava di una città istriana.

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Ma ecco la sorpresa:

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La didascalia dice: «Bambini fuggono dall’avanzata di Hitler nel 1940». Si tratta di una foto scattata nel giugno del 1940 quando le truppe del Reich invasero la Francia. Dunque sbagliata la collocazione (non Istria, ma Francia), sbagliato l’anno (non 1945-47, ma 1940), sbagliato l’invasore (non Tito, ma Hitler).

La foto si trova addirittura sulla copertina di questo libro di Hanna Diamond, storica e francesista, docente all’Università di Bath in Inghilterra, ma come ben si sa, raramente in Italia si prendono in considerazione gli studi stranieri…

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10. BRIGANTI INFOIBATI

Appare su un sito la seguente foto di infoibati:

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Peccato che queste vittime delle foibe siano state uccise circa ottant’anni prima, e non dall’esercito jugoslavo, bensì da quello italiano. Infatti è una delle tante foto che le armate sabaude scattavano ai cadaveri dei briganti appena uccisi, nell’intento di dimostrare la semibestialità delle masse rurali meridionali, di documentarlo con scientificità lombrosiana e di assecondare il gusto morboso dell’epoca. Al di là dell’errore marchiano (ma ci siamo abituati) in questo caso è interessante vedere la genesi dell’errata attribuzione che dimostra la superficialità assoluta con cui molti scelgono la documentazione fotografica da allegare agli articoli. L’immagine, infatti, è evidentemente tratta da quest’altro sito, in cui appaiono tre foto di briganti uccisi, stigmatizzando il fatto che esista la Giornata del ricordo per gli infoibati, ma non per le vittime della lotta al brigantaggio.

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11. DOVEROSE RIFLESSIONI

Colpisce il fatto che, mentre per le foibe manca una documentazione fotografica delle uccisioni e le immagini relative al recupero dei corpi sono abbastanza rare (il che potrebbe essere un ulteriore riscontro che le effettive uccisioni nelle cavità carsiche furono relativamente poche, nell’ordine di grandezza delle centinaia e non delle migliaia), immagini dell’esodo sono invece piuttosto diffuse, soprattutto di quello da Pola, ma in occasione della Giornata del ricordo non si disdegna di adoperarne di fasulle. Perché?
Una parte di responsabilità va sicuramente attribuita al fatto che spesso queste ricorrenze sono organizzate (o pubblicizzate graficamente) da persone senza una sufficiente preparazione storica, quando non del tutto estranee all’ambito. Mi pare possibile che le foto vengano selezionate in base all’impatto emotivo che possono suscitare su chi le guarda e dunque non si vada troppo per il sottile. La foto dell’esodo “francese” ha in primo piano un’adolescente dall’espressione spaventata, che sicuramente è un elemento di grande presa emotiva e ha l’effetto di rappresentare l’esodo istriano per quello che non è stato: una fuga disordinata da un invasore sanguinario (come invece lo fu quella dei profughi francesi dalla Wehrmacht) invece che un processo migratorio sviluppatosi nell’arco di un decennio abbondante, come i dati statistici permettono di rilevare.

Tuttavia ciò che colpisce di più è il fatto che la maggior parte dei falsi che siamo riusciti a smascherare presenti un totale ribaltamento del contenuto: sono foto che mostrano vittime slovene (o croate o partigiane) uccise dagli italiani, ma vengono presentate come l’opposto, italiani vittime delle violenze slavocomuniste.

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Una spiegazione “tecnica” potrebbe essere quella che gli addetti al reperimento del materiale si siano limitati a digitare su Google qualcosa tipo “Jugoslavia”, “crimini” o “vittime” e “italiani” e senza accorgersi siano capitati in siti dove vengono documentate le violenze italiane in Jugoslavia: l’utilizzo di quelle immagini sarebbe dunque semplicemente un errore di superficialità. Se è vero che la cura nella corretta identificazione delle immagini fotografiche è significativamente inferiore a quella riservata ad altre tipologie documentali, nel caso delle immagini delle foibe questa pessima pratica sembra quasi essere la norma.

Non mi sento però di escludere che questa totale inversione sia invece dolosa: che si tratti di un atto volontario nato proprio per instillare on line confusione e il dubbio che le foto delle vittime della resistenza siano effettivamente tali (e rendere questo dubbio virale attraverso l’incredibile forza di replica di internet), o forse più semplicemente per provocare, offendere e screditare la memoria della Lotta di liberazione jugoslava.

Un altro aspetto che salta agli occhi ricercando in questo campo è la carenza di immagini testimonianti la repressione violenta degli italiani ad opera dell’Esercito Popolare di Liberazione Jugoslavo, se confrontate alle foto esistenti di violenze italiane in Jugoslavia, decisamente più numerose e dettagliate. D’altra parte ciò è fisiologico: i popoli jugoslavi subirono un’invasione che provocò un numero enorme di vittime. La Jugoslavia ebbe un milione di morti su una popolazione di quindici milioni (cfr. John Keegan, Atlas of the Second World War); nella provincia di Lubiana vi furono 30.299 vittime su una popolazione totale di 336.300 abitanti (9% degli abitanti). Nella Venezia Giulia, invece, il numero delle vittime “italiane” dell’Esercito Popolare di Liberazione Jugoslavo arriva a poche migliaia (contando anche coloro che morirono in prigionia di stenti e malnutrizione, cosa che accadeva anche nei campi di prigionia angloamericani), tra cui alcune centinaia di “infoibati”. Non lo dico io ma il rapporto della Commissione storica italo-slovena, che certo non si può accusare di “titoismo”.
A dispetto della risonanza mediatica che viene data alle foibe e alle vicende del confine orientale, si trattò di un episodio minore e periferico in quell’immane catastrofe che fu la seconda guerra mondiale.

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L’attribuzione a sé da parte italiana di questo materiale iconografico potrebbe semplicemente mascherare la consapevolezza di non averne o di averne pochissimo e di volersi opportunisticamente appropriare di quello dell’avversario per colmare le proprie lacune, in un’epoca come quella odierna in cui le immagini contano di più dei concetti.

L’idea che alla base di questi errori vi sia un opportunismo di questo tipo viene in qualche modo confermata anche dall’analisi di chi sono gli autori. Se nel caso di singoli utenti di Facebook o di blogger che arricchiscono con immagini i propri commenti, l’errore in buona fede può sicuramente starci; nel caso di giornalisti, di grafici o di impiegati comunali che cercano materiale fotografico per la Giornata del ricordo l’errore mi sembra possibile, ma abbastanza più grave. Del tutto ingiustificabile invece risulta un’attribuzione sbagliata quando si tratta di media a diffusione nazionale e di opinion maker come Bruno Vespa, oppure di istituzioni pubbliche nazionali, come nel caso del sito del Ministero degli interni denunciato da Mlinar. Un ultimo caso in questo senso è stata la foto allegata ai tweet per il 10 febbraio di quest’anno della Camera dei deputati…

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…e del presidente della Camera Laura Boldrini:

L’originale di questa foto si trova alla Sezione storia della Biblioteca Nazionale e degli studi di Trieste (Narodna in študijska knjižnica – Odsek za zgodovino). A quanto ne so è stata pubblicata solo una volta, nel libro di Jože Pirjevec Foibe. Una storia d’Italia(Einaudi 2009). La foto completa è questa:

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Si noti la didascalia presente sotto la foto.

Non appena alcuni utenti segnalano via tweet la falsificazione, lo staff comunicazione di @montecitorio e @lauraboldrini si affretta a rimuovere la foto da twitter scusandosi per l’errore ma, considerando che quell’immagine è stata pubblicata solo ed esclusivamente con una didascalia che ne spiega con chiarezza il contesto, è difficile pensare che il suo utilizzo per raffigurare le foibe sia dovuto soltanto a un’ingenuità. Ciò che inquieta è che siano le stesse istituzioni dello Stato a prestarsi a questo gioco, ma dal momento che la Giornata del ricordo è diventata uno dei pilastri della creazione di una mitologia collettiva nazionale italiana e della memoria condivisa, non stupisce che il travisamento della realtà storica e delle immagini venga portato avanti anche ad alto livello politico.

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Il materiale fotografico è documentazione storica. Dovrebbe essere utilizzato come tale, con rigore e consentendo a chi lo guarda di avere tutte le informazioni che gli permettano di utilizzarlo al meglio: che cosa mostra la foto, dove è stata scattata, quando, da chi, dov’è conservata. Dovrebbe essere uno strumento per capire meglio gli avvenimenti storici, per poter comprendere gli eventi non solo attraverso la lettura, il racconto e la riflessione, ma anche attraverso la vista. L’utilizzo che invece si è fatto del materiale fotografico che abbiamo preso in esame è l’opposto di questo. Le immagini sono state utilizzate (e manipolate) per colpire le emozioni e non la ragione, sono state usate come santini della vittima di turno, come oggetti devozionali, reliquie con le quali esprimere e consolidare la propria fede, sono state manipolate per dimostrare l’esatto opposto di ciò che rappresentano. E, come buona parte delle reliquie, si sono dimostrate false.

A noi il compito di resistere, continuando a segnalare le manipolazioni della storia e a contrastare l’omologazione e il pensiero unico.

http://www.wumingfoundation.com/giap/2015/03/come-si-manipola-la-storia-attraverso-le-immagini-il-giornodelricordo-e-i-falsi-fotografici-sulle-foibe/

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#Foibe o #Esodo? «Frequently Asked Questions» per il #GiornodelRicordo


[Oggi pubblichiamo un importante testo di Lorenzo Filipaz.
Lorenzo è triestino e figlio di un esule istriano. Dal ramo materno è di ascendenza slovena. Fa parte del gruppo di inchiesta su Wikipedia «Nicoletta Bourbaki». Appassionato delle storie della sua terra di confine, da anni ha intrapreso un percorso di ricerca e autoanalisi sul cosiddetto «Esodo giuliano-dalmata». L’intento è quello di capire cosa sia andato storto, per quali ragioni l’esodo da Istria e Dalmazia sia diventato una narrazione così platealmente assurda e antistorica, e come mai i figli di una terra meticcia siano diventati i pasdaran del nazionalismo.

L’approccio è quello di una seduta psicoanalitica, una sorta di terapia post-traumatica. Terapia in ritardo di sessant’anni, ma più che mai utile agli odierni discendenti di esuli, per disinnescare certi meccanismi difensivi che favoriscono reticenze e strumentalizzazioni.

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Qui sotto trovate ventiquattro risposte ad altrettante domande sull’esodo istriano. Domande basate su quell’insieme di stereotipi e omissioni che ci piace chiamare «l’ideologia del Giorno del ricordo». Ventiquattro chiarimenti, uno per ogni ora del 10 febbraio. Diverse fotografie sono “finestre” aperte su interessanti approfondimenti, ma consigliamo di aprirle solo dopo aver letto le FAQ preparate da Lorenzo. Buona lettura. WM]

di Lorenzo Filipaz

«Il vero guaio è che gli sciocchi la violentano, la vita, specie quella altrui, illusi di togliere la complicazione.»
Giulio Angioni, Gabbiani sul Carso

Febbraio: Come ogni anno mi preparo alla valanga di imposture che si accompagna al cosiddetto Giorno del Ricordo. Capi di stato, di governo e di partito di qualsivoglia colore faranno a gara a chi la spara più grossa o a chi intona più forte la solita solfa. Vediamo quest’anno a che altezza arriva l’asta degli infoibati, e se è un’annata buona possiamo contare su un bell’incidente diplomatico.

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Per un giorno tutti si riempiranno la bocca di confine orientale per poi dimenticarsene per gli altri 364 giorni. È l’effetto bagnasciuga: un’alternanza che favorisce le panzane più pindariche e taglia le gambe a qualsiasi reale approfondimento. Sulla battigia chiunque può deporre ciò che vuole, tracciare nella sabbia le sparate più inaudite, tanto la risacca cancellerà tutto e la spiaggia sarà pronta all’uso per l’anno successivo.

Non sono mai riuscito ad abituarmi: ogni 10 febbraio una sgradevole sensazione mi corre giù per la schiena. Sarà perché uno dei miei genitori viene da lì, da quell’Istria piccola e povera che spesso si contrae e diventa enorme e ricchissima, sarà perché quel genitore non c’è più, sarà perché vivo a Trieste, città rimasta ferma al ‘54, dove di foibe ed esuli si parla 400 giorni all’anno.

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Ma questa celebrazione parla veramente della nostra storia? Questa è la domanda che faccio sempre agli esuli rimasti, che ormai sono perlopiù i figli, quelli emigrati con la famiglia prima di aver raggiunto l’età della ragione. Quelli per cui l’infanzia è stata una baracca in un campo profughi, con i suoi gelidi spifferi di Bora, i giochi e le amicizie con la muleria (= gioventù) di paesi lontani, improvvisamente divenuti vicini. Figli di un popolo bombardato di propaganda nazionale, di italianità millenaria e altre carabattole vuote a sommergere una ben più complessa realtà, dove magari una nonna o un nonno parlava dialetto croato che guardacaso mamma e papà non parlavano più…

Il fatto è che di esuli fin da subito sono stati altri a parlarne, altri hanno deciso quale fosse la loro storia fin da prima di diventare esuli. La ricchezza del meticciato in questa terra mistilingue è stata negata ai suoi abitanti ai quali è stata imposta dall’alto una narrazione unitaria di purezza. Chi ha dissentito o anche solo “diversificato” questa verità ufficiale ha perduto il diritto di rappresentanza, per le associazioni i “dissidenti” cessano di essere “esuli” e persino “istriani” (o giuliano-dalmati). Oggi a parlare sono spesso i nipoti che con la scusa dei drammi familiari giustificano la loro adesione alla destra xenofoba e ultranazionalista, magari ignorando che quello stesso nonno esule a cui ascrivono il loro credo nazionale se ha rischiato di crepare è stato davanti ad un mitra nazista piuttosto che sul ciglio di una foiba “rossa”.

Quando si inizia a parlare di esodo si finisce sempre col parlare di qualcos’altro. QuesteFrequently Asked Questions – cantieri aperti più che risposte definitive – si propongono di neutralizzare quel qualcos’altro, i depistaggi che deviano l’approfondimento e impediscono di affrontare il passato.
Iniziamo a parlare veramente di esodo, come se fossimo tutti sul lettino di uno psicoterapeuta, perché è proprio questo che è mancato alla mia gente: una grande terapia di gruppo per superare il trauma dello sradicamento e la vergogna della profuganza. Una reale guarigione si ottiene però affrontando il proprio passato in maniera matura, analizzandolo nelle adeguate proporzioni, per esempio iniziando a parlare di “esodi”, perché furono diverse ondate da diversi luoghi, in diversi anni e con diverse motivazioni. Ogni esperienza dolorosa è unica nel suo genere, prendere coscienza della peculiarità della propria sofferenza permette poi di empatizzare con il dolore altrui smantellando l’insana idea di essere stati gli unici a soffrire: abbiamo abbandonato case, terre – è vero – molti hanno abbandonato terre in colonato e case in comodato a dirla tutta, ma altrove in Italia ci sono state intere città rase al suolo con centinaia di migliaia di sfollati, oppure interi paesi sono stati cancellati dalla faccia della terra con tutti i suoi abitanti, e non occorre andare a Marzabotto o a Sant’Anna di Stazzema, basta andare poco lontano dall’Istria, a Lipa o a Podhum per esempio.

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Prima di ogni cosa dobbiamo ripulire questa storia da quei pensieri ricorrenti nocivi, vecchi e ambigui che parlano di purezza attraverso metafore agricole rimettendo in circolo sotto mentite spoglie vittimarie la religione del blut und boden, sangue e suolo, una retorica che prima ha amputato la nostra identità e poi ci ha trascinato assieme a tutta l’Europa nella mattanza. Oggi non a caso questa religione trova il suo perfetto alveo nella metafora carsica delle foibe, nel mito di una terra le cui viscere traboccherebbero di sangue italiano.

1. Cosa si commemora veramente nel «Giorno del Ricordo»?

La Pace!
Il 10 febbraio 1947 furono firmati i Trattati di Parigi che sancirono la pacificazione dell’Europa. Dal 2004 l’Italia è diventato l’unico paese del continente a commemorare quella data con il lutto al braccio.
La legge 30 marzo 2004 n. 92, con la scusa di ricordare in pratica le vittime della pace, costituisce potenzialmente un vulnus per gli stessi valori espressi dalla Costituzione della Repubblica Italiana, fondata per l’appunto sulla pace oltre che sulla Resistenza e sulla sconfitta del nazifascismo. Peraltro l’ Associazione Nazionale Venezia Giulia e Dalmazia (ANVGD), prima promotrice dell’istituzione della Giornata del Ricordo, nel suo statuto (Art. 2) si adoperava per «agevolare il ritorno delle Terre Italiane della Venezia Giulia, del Carnaro e della Dalmazia in seno alla Madrepatria, concorrendo sul piano nazionale al processo di revisione del Trattato di Pace», in netto contrasto con il Trattato di Helsinki del 1975 che sanciva l’inviolabilità delle frontiere europee, principio su cui veniva poi fondata l’OSCE e quindi la Comunità Europea (l’ANVGD ha poi modificato quell’articolo alla chetichella nel novembre 2012, con una clausola sui “rimasti” di cui parleremo in seguito).
Il 10 febbraio si configura quindi come la Giornata nazionale del Revanscismo, dove tutti (specialmente gli alunni delle scuole), sono tenuti a manifestare un po’ di “sano” neoirredentismo di stato in perfetta continuità con il vecchio mito della vittoria mutilata.

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2. L’irredentismo non è forse solo un ideale o un’innocua nostalgia?

Gli irredentismi hanno spesso trascinato i propri paesi in disastrose guerre sanguinarie. Con la scusa della difesa di una propria minoranza nazionale oppressa si sono giustificate aggressioni e oppressioni ben peggiori. Dalla Megali Idea greca, ai Sudeti, a Danzica, e ancora Nagorno-Karabakh, Erzegovina, Kosovo… Gli irredentismi e i revanscismi hanno una grande capacità di quiescenza, possono covare per decenni, se foraggiati sono potenzialmente immortali: una riserva sempre disponibile di nazionalismo e odio etnico.
Se si ritiene che questi scenari siano lontani e non inerenti con la nostra celebrazione basti ricordare che il primo firmatario della proposta di legge del giorno del Ricordo, il triestino Roberto Menia, salpò alla volta di Belgrado assieme a Fini e Tremaglia nel 1991 per contrattare con la Serbia di Milosevic la cessione di Istria e Dalmazia in cambio di supporto politico e militare [1], come dire che stava per trascinare l’Italia nel carnaio balcanico. Oltre a ciò associazioni neoirredentistiche fecero una colletta per una forza internazionale composta dal 30% di italiani da mandare in Krajina contro la Croazia [2].
Attenzione a riposare troppo sulle garanzie comunitarie: i nazionalisti percepiscono sempre le compagini statali sovranazionali come provvisorie, si tratti dell’impero Austroungarico, della Jugoslavia o dell’Unione Europea. In attesa della loro caduta essi preparano la resa dei conti. Il moltiplicarsi di partiti nazionalisti e xenofobi nell’attuale scenario europeo dà una piega inquietante a questa prospettiva.

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3. Perché la «Giornata della memoria» va bene e il «Giorno del ricordo» no?

La monetizzazione politica della Shoah da parte del sionismo ha sempre colpito il neoirredentismo nostrano, che ha cercato di mutuarne spregiudicatamente i meccanismi di legittimazione. Nel dopoguerra l’unico frasario disponibile per riprodurre il paradigma vittimario era quello dell’olocausto, così si iniziò a parlare di «genocidio delle genti giuliane», facendo inorridire storici come Giovanni Miccolidell’IRSML, che lo definì un «accostamento aberrante» [3].
Poi arrivò la guerra nell’ex-Jugoslavia, il massacro di Srebrenica permise di giocare sullo stereotipo dell’atavica barbarie orientale-balcanica e così un nuovo vocabolo, la “Pulizia etnica” (ma in verità esisteva già “bonifica etnica”, usata storicamente per descrivere la snazionalizzazione della Venezia Giulia operata dal fascismo), soppiantò il genocidio che tuttavia rimase in sordina per poi riemergere proprio nel linguaggio del giorno del Ricordo, strategicamente piazzato due settimane dopo quello della Memoria a scimmiottarne nome e forma.
Lo scopo malcelato è quello di ingenerare confusione – vedasi le «Foibe Ardeatine», tragicomica crasi segnalata da Federico Tenca Montini [4] – tra due episodi incomparabili: da un lato una commemorazione mondiale dal significato universale, dall’altro una commemorazione di impianto nazionale. Uno squilibrio che si manifesta a ogni livello di questo accostamento: emigrazione equiparata a deportazione, epurazioni politiche e rese dei conti equiparate a sterminio e massacri indiscriminati.
Interessante è anche confrontare i significati simbolici dei giorni prescelti dalle due commemorazioni: mentre nella giornata della memoria si celebra la liberazione di Auschwitz da parte delle truppe sovietiche – la fine del male per gli ebrei – dall’altra parte si celebra la firma del trattato di pace – l’inizio del male secondo una certa narrazione esule – un male che continua e che idealmente soltanto la restituzione delle terre sottratte o dei “beni abbandonati” potrebbe chiudere.
Se proprio si volesse prendere ad esempio la giornata della memoria si dovrebbe indicare una data che celebrasse la fine delle ostilità, magari il 10 novembre, firma delTrattato di Osimo. Nessuna associazione di esuli lo accetterebbe, quella data in zona suscita ancora malumori (riemersi persino in recenti avventure politiche, come MTL) ma se non altro significò la normalizzazione dei rapporti italo-jugoslavi e la fine definitiva delle ostilità fra i due paesi. In realtà il giorno del Ricordo non ricopia quello della memoria, ma ne è un detournement: si ricalcano gli aspetti emotivi ma si perseguono diverse finalità.

4. Dovremmo ritornare a non parlarne, continuando il “silenzio assordante”?

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Questo è un topos della propaganda revanscista, ma il presunto silenzio sulle foibe è legato ad un altro silenzio, ben più pesante: quello sui crimini di guerra italiani, eternamente  insabbiati. L’opinione pubblica italiana ignora che l’unica vera pulizia etnica nelle terre a cavallo del confine orientale fu quella operata dall’esercito italiano ai danni delle popolazioni civili slovene e croate negli anni dell’invasione della Jugoslavia.
C’è un elastico che lega questi crimini di guerra italiani alle foibe.  Nell’immediato dopoguerra si parlò di foibe in maniera isterica e ossessiva, quando la questione di Trieste era sul tavolo e le Nazioni unite chiedevano la consegna dei criminali di guerra italiani. Del Boca, citando Focardi, scrive:

«[…] nel luglio 1945, infine, erano gli stessi Alleati a inoltrare al governo di Roma le liste dei presunti criminali di guerra consegnate da vari paesi (Iugoslavia, Grecia, Albania, Etiopia, Gran Bretagna, Francia, URSS) alla Commissione delle Nazioni Unite. L’Italia, per almeno tre anni, non rispondeva alle ripetute richieste e pressioni, adottando un’ambigua strategia tesa soltanto a prendere tempo. Ma non basta […] il Ministero degli Esteri raccoglieva una contro-documentazione, il cui solo scopo non era quello di “accertare le eventuali responsabilità delle persone accusate dalla Iugoslavia, ma di raccogliere prove sulla loro innocenza e di ribaltare le accuse sui partigiani iugoslavi. […] Il Ministero degli Esteri apprestò anche una controlista di criminali di guerra iugoslavi con circa 200 nominativi. In cima alla lista figurava il Maresciallo Tito […]» [5].

Penso che agli Alleati bastò leggere il primo nome per sentirsi presi per il culo a sufficienza, sicché risposero minacciando di venire a prendere loro stessi i criminali italiani per consegnarli alla Iugoslavia. Solo allora De Gasperi costituì una commissione d’inchiesta presso il Ministero della Guerra. Il problema era che i criminali italiani erano pezzi grossi dell’esercito, non solo fascisti, per cui con vari cavilli si archiviò il tutto senza dar luogo mai a nessun processo. Sempre Del Boca rileva che proprio per il fatto di aver scelto di non consegnare i propri criminali di guerra, il governo italiano ritenne prudente rinunciare a chiedere alla Germania la consegna dei nazisti macchiatisi di crimini in Italia tra il ‘43 ed il ’45 [6]. Guardacaso, contemporaneamente le foibe sparirono dal dibattito pubblico, almeno a livello istituzionale. Si ritornò a far cagnara solo dopo che gli insabbiamenti si erano ben stagionati, a 50 anni dagli eventi bellici.
Insomma prima non se ne parlò per evitare di esporre i propri scheletri ancora freschi nell’armadio, poi se ne parlò per evitare di farli riesumare.
È nell’interesse di noi eredi degli esuli far luce finalmente su quei crimini, poiché una volta svelati anche la nostra storia potrebbe essere narrata liberamente, nella sua interezza, senza dover stare sotto il tallone nazionale delle foibe. L’orrore di Rab, Gonars, Lipa riguarda anche noi poiché colpì i nostri cugini, quelli che parlavano un po’ più stretto.

5E allora le foibe???

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Nel momento in cui si inizia a parlare di foibe si smette di parlare di esodo.
Le foibe vengono aumentate di proporzioni e di peso storico per essere presentate come causa del trasferimento di massa. Una prospettiva sfalsata che rimuove la scelta, poiché l’emigrazione in Italia fu un’opzione, per alcuni più obbligata, per altri automatica e per altri ancora una scelta sofferta ma ponderata. Per questo motivo per anni le associazioni di esuli hanno disprezzato, boicottato e negato il loro riconoscimento ai cosiddetti “italiani rimasti” in Istria: la loro stessa esistenza inceppava la narrazione deterministica foibe-esodo, dimostrando che si poteva rimanere e, nonostante le difficoltà dell’essere una minoranza legata ad un paese politicamente ostile, persino preservare la propria identità linguistica e nazionale.
Per molti esuli rimuovere la propria scelta significò liberarsi dal peso della responsabilità, un sollievo immediato che comportò però la perdita della potestà sul proprio passato di cui divennero prigionieri, siglando un’ipoteca sulla propria storia familiare, sottratta anche ai propri eredi, per essere affidata alle associazioni, ai partiti e al nazionalismo. Io ora, come erede, impugno quell’ipoteca: voglio riappropriarmi della storia della mia famiglia.

6. Ma… l’esodo non fu una fuga dalle foibe?

No.
L’esodo fu un fenomeno che si produsse principalmente in Istria nel dopoguerra, uno stillicidio durato per oltre un decennio, di sicuro non una fuga disordinata. Gli unici a fuggire dall’Istria in tempo di guerra temendo realmente di finire infoibati furono fascisti, militari e persone compromesse con l’apparato statale fascista, la cosiddetta “ondata nera” esauritasi prima del ‘45. Mi rifiuto di includere questa ondata nella stessa categoria dell’esodo del dopoguerra che con il fascismo non ci ebbe niente a che fare. L’altro spostamento di popolazione notevole nel periodo bellico fu quello degli zaratini che però consistette in uno sfollamento oltre l’Adriatico a causa dei bombardamenti aerei angloamericani, ragione per cui la loro inclusione nella categoria dell’esilio è sempre risultato molto dubbia per gli addetti ai lavori [7].
Epurazioni ed emigrazioni furono fenomeni ben distinti cronologicamente. Le “foibe istriane” datano settembre 1943. Nel ‘45 ci furono altre epurazioni diverse nel Carso goriziano, triestino e sloveno ma che non riguardarono l’Istria. La stessa generalizzazione dei due fenomeni in un unico contenitore è tendenziosa.

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7. Cosa cambia tra “foibe istriane” e “foibe giuliane”?

Sono due momenti ben distinti, cambiano anche le dinamiche e le pertinenze militari, gli obiettivi e gli attori. Soprattutto, sono diversi i contesti: nel ‘45, a guerra finita, le epurazioni – con gli annessi eccessi – furono in linea con fenomeni del tutto analoghi che bene o male si verificarono negli altri paesi liberati in Europa. Le foibe del ’43 furono invece un caso inseribile nella straordinaria situazione storica generata dall’Armistizio di Cassibile e dall’improvviso vuoto di potere che esso generò nel bel mezzo della guerra, causa di eccidi anche molto gravi come quello di Cefalonia. In Istria questa situazione particolare si concretizzò nell’immediata presa di potere del movimento partigiano croato, l’unico assieme a quello sloveno ad essere attivo all’epoca sul territorio amministrato dall’Italia. Il potere popolare instauratosi sfuggì allo stesso controllo partigiano il quale a stento riuscì a imporre parvenze di processi e disciplina a quella che fu più che altro l’esplosione della rabbia popolare covata in un ventennio di violenze, portate poi al parossismo con l’invasione della Jugoslavia. Questa situazione si tradusse in veri e propri linciaggi, condotti in taluni casi da criminali comuni infiltrati, alcuni dei quali furono poi identificati e condannati a morte dalla stessa giustizia partigiana [8]. Oltre a ciò, molti prigionieri militari furono liquidati di fronte all’impossibilità di mantenerne la custodia all’approssimarsi della Wehrmacht [9].
Questa esplosione di violenza, che indubbiamente in alcuni casi assunse i connotati di una vendetta anche su base nazionale, pur essendo piuttosto contenuta nei numeri e nella durata (200-500 vittime in 20 giorni), ebbe un forte impatto sugli istriani. Per la parte “italofona” della popolazione rappresentò l’inizio di quella guerra che invece per la parte “slavofona” era già iniziata da ben due anni, mostrandosi con il volto della pulizia etnica portata avanti dall’esercito italiano mediante massacri indiscriminati e deportazioni in campi di concentramento di interi villaggi, comprese donne, vecchi e bambini.
Lo shock prodotto dalle foibe istriane fu amplificato e sfruttato dai nazifascisti non appena ripresero il controllo della zona. Essi diedero ampio risalto al fenomeno attraverso stampa ed esposizioni pubbliche corredate di immagini truculente dei cadaveri semi-decomposti [10]. Lo scopo principale era chiaramente togliere il supporto popolare ai partigiani jugoslavi, ma un altro scopo non meno importante fu quello di distrarre la popolazione dalle rappresaglie che la Wehrmacht scatenò non appena riprese il controllo dell’Istria nell’ottobre 1943, provocando circa 5.000 morti in una settimana [11].

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8. Ma… non furono infoibati decine di migliaia di italiani?

In Istria furono recuperati poco più di 200 corpi. Tale numero può essere ragionevolmente esteso fino a una cifra di 500-700 persone. Un numero di corpi di poco superiore fu estratto da cavità e fosse del Carso goriziano, triestino e sloveno nel ’45. [12]

9. Il numero è così importante?

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Stimare le vittime in decine di migliaia serve a sostenere il falso storico della pulizia etnica [13], riportare le vittime di quella stagione all’ordine delle centinaia di unità riconduce il fenomeno alle epurazioni che si verificarono nel resto d’Europa (laddove il revanscismo ne vorrebbe fare un unicum storico). Per esempio in Francia nella cosiddetta Épuration légale furono eseguite quasi 800 condanne a morte, ma ne furono comminate più di 6.700 [14], dopodiché alcuni autori parlano di 9.000 esecuzioni sommarie [15]. Nella sola Emilia Romagna si ebbero 2.000 epurazioni, a Torino più di 1.000 [16].

10. Ma, aldilà del numero, in Istria non furono infoibati «solo perché italiani»?

Se si guarda il quadro dell’intera Jugoslavia le vittime di nazionalità italiana furono una minima parte rispetto a quelle collaborazioniste jugoslave [17]. In secondo luogo come già detto la definizione etnica nell’Istria “bonificata” era alquanto problematica. Per fare alcuni esempi: l’eroe della resistenza croata Joakim Rakovac, ucciso dai nazisti nel ‘45 e considerato infoibatore dalla vulgata neoirredentista, all’anagrafe italiana era registrato come Gioacchino Racozzi [18)]. Alcuni autori attribuirono la responsabilità delle foibe, tra gli altri, a Giusto Massarotto e Benito Turcinovich, chiaramente italiani[19]. Per contro il “Padre” degli esuli, Flaminio Rocchi, nasce come Anton Sokolic. Ciò fa capire come la nazionalità in quei luoghi fosse spesso subordinata ad una precisa scelta, in molti casi politica.

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11. Gli istriani italofoni erano dunque tutti fascisti?

Certo che no, anzi, molti italofoni di Rovigno o della val d’Arsa – zone operaie – erano persino inossidabili comunisti e più in generale l’Istria vantava una radicata tradizione socialista. Altrettanto certo è che il fascismo ebbe una certa predilezione per questa regione e vi pestò più forte che altrove, prima coi manganelli e le taniche di benzina, scatenando in prossimità del confine orientale una violentissima ondata di squadrismo che precedette quella nazionale di qualche anno [20], e poi anche con le scuole e i registri anagrafici, attuando una bonifica integrale di ogni elemento slavo dal territorio, passando per cognomi, toponomastica, iscrizioni tombali oltre che con uno squadrismo permanente atto a dissuadere l’uso delle lingue “allogene”. Contemporaneamente il regime fabbricò il mito dell’atavica italianità di Istria e Dalmazia, mutuata dalla vecchia propaganda irredentista/imperialista dell’Italia liberale combinata all’epopea mussoliniana della romanità imperiale. Soprattutto a Zara il regime martellò molto sui cittadini rappresentandoli come sentinelle della patria nel barbaro mare slavo. Le motivazioni di questo battage sono spiegate qui: la Venezia Giulia (regione in cui all’epoca si faceva rientrare l’Istria) e l’enclave zaratina costituivano la porta di accesso al sogno imperialista italiano sul Mediterraneo orientale, i suoi abitanti nei programmi del duce ne sarebbero dovuti diventare i giannizzeri più fidati.
Si è dibattuto anche troppo sul legame tra bonifica etnica e rivalse nazionali slovene e croate contro gli italiani, ma non si è invece riflettuto abbastanza sugli effetti devastanti che questa bonifica, senza pari nel resto d’Italia (eccetto forse nell’Alto Adige/Südtirol), operò nel lungo termine su quella generazione di istriani, fiumani e zaratini che la assorbirono attraverso le scuole del ventennio, guardacaso proprio a quella generazione appartennero coloro che poi a guerra finita si rifiutarono di vivere sotto un’amministrazione slava, scegliendo l’esodo come «plebiscito d’italianità». Quando oggi chiedi ad alcuni dei pochi superstiti di quella generazione di raccontarti la loro storia familiare, per prima cosa attaccano con la favola della romanità dell’Istria, della sua millenaria purezza italiana, in altre parole espongono «un passato ricreato attraverso l’espulsione della differenza», come l’ha felicemente definito l’antropologo Stefano Pontiggia [21]. Ovviamente non è la vera storia dell’Istria quella che ti stanno raccontando, spesso smentita dal loro stesso cognome, ma piuttosto il panorama culturale della loro infanzia, quello della bonifica nazionale, dove le lingue “allogene” erano state messe a tacere con la forza mentre si inculcava nei bambini l’ideologia della romanità littoria, laddove la storia dell’Istria ci restituisce invece il volto di una terra che nei millenni fu soggetta a continue migrazioni in entrata e in uscita. Purtroppo i precetti inculcati nell’infanzia sono i più duri da estirpare ed i loro retaggi si manifestano anche in coloro che da adulti non aderiscono all’ideologia che li ha prodotti.

12. E’ vero che furono epurati anche antifascisti italiani?

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Sì, in parte. Ma non si può tacere il fatto che molti presunti antifascisti locali furono piuttosto ambigui. I CLN della zona insorsero all’ultimo minuto all’avvicinarsi delle truppe angloamericane, quasi ad opporsi alla presa di potere da parte dei partigiani jugoslavi più che a neutralizzare i nazifascisti [22]. Almeno il CLN di Trieste ebbe il merito di preservare le strutture portuali e industriali della sua città. Nel caso di Fiume invece il CLN locale non fu nemmeno in grado di organizzare una resistenza simbolica contro i tedeschi che distrussero il porto in tutta tranquillità prima di ritirarsi. Il Comitato divenne realmente attivo solo dopo l’entrata dei primi partigiani jugoslavi in città, in pratica fu un CLN antislavo più che antifascista [23]. Per contro la repressione fu senza dubbio dura, condotta con metodi polizieschi e anche secondo una logica di repressione preventiva verso i potenziali oppositori alla presa di potere jugoslava, chiunque si opponeva ai poteri popolari diventava automaticamente un fascista agli occhi dei partigiani [24]. Ma per contestualizzare adeguatamente il momento storico bisogna sottolineare come molti antifascisti dell’epoca fossero spuntati ex-post e magari con trascorsi non del tutto specchiati. Oltre a ciò vi furono contatti su tutto il Confine Orientale tra fascisti e comitati di liberazione italiani (dai quali erano fuoriusciti i comunisti), al fine di creare un comune fronte antislavo, fatto unico in Europa [25]. Tali accordi non ebbero seguito ma c’è anche da rilevare il fatto che gran parte degli esponenti di questi CLN nel dopoguerra andarono ad ingrossare le fila dell’organizzazione stay behind Gladio [26], di fatto coordinandosi con elementi neofascisti in funzione antislava. In ultimo c’è anche da dire che sebbene non siano mancate esecuzioni molto sbrigative e omicidi sospetti, gran parte dei dissidenti fiumani “spariti” in quel periodo perirono in prigionia a causa di malattie e fame.

13.  Che senso ha distinguere gli infoibati dai morti nei campi di prigionia jugoslavi?

L’uso disinvolto del concetto di “foiba” per qualsiasi vittima riconducibile al movimento di liberazione jugoslavo ha una finalità psicologica, serve a produrre l’idea di un’eccezionale barbarie. Quelli che vengono definiti come gli infoibati del dopoguerra, con i quali si fa lievitare il conto fino a 4.000-5.000 vittime [27], in verità morirono in gran parte in prigionia, di stenti e di malattie. Oltretutto si trattò soprattutto di militari e quindi “POW – Prigionieri di guerra” i quali, purtroppo, non se la passarono bene in nessun paese coinvolto nella seconda guerra mondiale (nei campi americani morirono 56.000 POW tedeschi).
Questa realtà, soprattutto la sua triste ordinarietà in quel momento storico, non era tuttavia spendibile in senso politico. Molto più efficace l’immagine di grappoli di centinaia di persone al colpo scaraventate vive negli abissi carsici, per tratteggiare uno scenario mostruoso di decine di migliaia di cadaveri sepolti più o meno in ogni cavità della zona [28] e riconfermare nell’immaginario collettivo lo stereotipo etnico dell’eccezionale sanguinarietà balcanica. Molti storici si sono “arresi” a questa semplificazione accettando di usare il termine “foibe” in senso simbolico ma si deve essere ben consci che questo “trucchetto” stereotipizzante è un derivato della propaganda nazifascista del ‘44 che puntava sulla truculenza e sul conflitto etnico per spezzare la resistenza e convincere le popolazioni a collaborare. A riguardo dell’uso degli stereotipi etnici come arma terroristica di persuasione di massa giova ricordare la “leggenda del cane nero”, fabbricata da un cronista di un giornale collaborazionista di Trieste, Manlio Granbassi [29], il quale riferì di una presunta usanza slava (priva di alcun riscontro etno-antropologico) di gettare la carcassa di un cane nero nella foiba per impedire all’anima dell’infoibato di trovare pace (con molte variazioni sul tema).
Spingere le popolazioni a temersi, odiarsi e darsi alla faida etnica corrispondeva alla più pura ideologia nazionalsocialista, che in questo modo cercava di imporre al mondo il proprio principio di blut und boden [30] – suo obiettivo ultimo “spirituale”. Questo meccanismo purtroppo sopravvisse al nazismo morente e oggi si perpetua, ad esempio nella pubblicistica di stampo nazionalista attraverso la rappresentazione della lotta di liberazione jugoslava cui pure contribuirono diverse brigate garibaldine italiane, come puro “espansionismo slavo”, confondendolo deliberatamente con il nazionalismo grande-serbo dei cetnici o grande-croato degli ustascia che di fatto i partigiani combatterono, sempre allo scopo di infilare di contrabbando il falso storico della pulizia etnica.

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14. Non fu espansionismo slavo? E l’annessione dell’Istria e la «corsa per Trieste»come si spiegano?

Considerare una lotta di liberazione di un fronte antifascista perdipiù multietnico come una mera forma di espansionismo non solo è disonesto ma anche sinistro: significa tifare più o meno inconsciamente per l’Asse. Di questa grave implicazione non si accorsero molti esponenti dei CLN locali, si può concedere loro anche il beneficio della buona fede (e qui mi riallaccio ai precetti inculcati nell’infanzia che operano anche contro il proprio credo adulto). Detto questo non si può negare una indubbia ambizione territoriale ai partigiani jugoslavi ma c’è una differenza sostanziale tra l’incorporare obiettivi nazionali al fine di guadagnare il consenso popolare locale ed il perseguire obiettivi imperialistici. Bisogna anche ricordare che l’AVNOJ annoverava anche partigiani di ispirazione non comunista, come tutti i fronti popolari. Per tale ragione esso all’inizio si prefisse come principî da perseguire anche l’inviolabilità della proprietà privata e la difesa della libera iniziativa privata, obiettivi ben poco comunisti.
Diversamente, le truppe collaborazioniste ustascia e cetniche si prefissero obiettivi imperialistici che comportavano la sparizione delle altre etnie all’interno delle aree cui anelavano. Ciò si concretizzò in massacri, stupri etnici, deportazioni e orrori come il lager di Jasenovac [31]. E ad istruire e foraggiare questa gente furono i fascisti italiani prima e i nazisti tedeschi dopo, non bisogna dimenticarlo. I partigiani jugoslavi, se proprio ne avessero condiviso gli stessi principî espansionistici si sarebbero alleati a loro, non li avrebbero combattuti senza quartiere come fecero e c’è anche da dire che cetnici e ustascia non è che deposero le armi nel ’45, ma continuarono una ben poco nota guerra civile in Jugoslavia, armi in pugno, fino al ’47. Dopo di che sparirono per riemergere nel ’91. I massacri in Bosnia, in Slavonia e in Kraijna furono compiuti inneggiando a Draža Mihailović e Ante Pavelić, non di sicuro a Tito o alla Jugoslavia.

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15. Ma il regime Jugoslavo non voleva «sbarazzarsi degli italiani»? L’ha ammesso anche Gilas!

Quella di Gilas è una bufala. Il meccanismo attraverso il quale essa si è prodotta e amplificata è spiegato qui. Aldilà del fatto che è stato dimostrato che Gilas non era presente in Istria in quel momento, Kardelj effettivamente fu inviato in loco ma per motivi diametralmente opposti: convincere gli italiani a rimanere.

16. Per quale ragione il regime jugoslavo avrebbe voluto trattenere gli italiani?

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Perché l’esodo di massa da Pola e Fiume fu un disastro per la Jugoslavia, sia sul piano economico che politico. Per contro i famigerati CLN “antislavi” d’Istria e Fiume spinsero gli italiani ad andarsene in massa (tramite stampa e propaganda di strada), da un lato con lo specifico scopo di sabotare la Jugoslavia – una specie di sciopero di cittadinanza (un porto vuoto è un porto morto), dall’altro fu una tattica suicida per convincere la commissione alleata a riassegnare quelle terre all’Italia mostrando ad essi una sorta di “plebiscito di fatto” a mezzo emigrazione di massa.

17. Ma l’Italia non aveva interesse a mantenere gli italiani nella Zona B?

Le posizioni iniziali di Italia e Jugoslavia mutarono molto nel tempo.
L’aria cambiò bruscamente nel ‘48. Con la rottura Tito-Stalin la Jugoslavia fu isolata a livello internazionale, la difficile ripresa economica fu bloccata dagli embarghi non dichiarati che Mosca ordinò agli altri paesi cominformisti che circondavano la Jugoslavia. Nel paese si diffuse l’instabilità politica che comportò l’instaurazione di uno stato di polizia paranoico. Tenca Montini citando Dubravka Ugresić l’ha efficacemente definito periodo del “maccartismo jugoslavo” [32], gli anni (1948-1954) furono più o meno gli stessi e le dinamiche pure. A farne le spese, tra i tanti, furono anche le minoranze nazionali che fino allora il regime si era premurato di difendere: gli ungheresi della Vojvodina, gli albanesi del Kosovo e gli italiani d’Istria, furono i più sospettati di cominformismo a causa delle posizioni antijugoslave prese dai rispettivi partiti comunisti nazionali. Oltre a ciò la comunità italiana pagò molto i contrasti internazionali con l’Italia. Ci furono intimidazioni, danneggiamenti e pestaggi in corrispondenza delle elezioni del 1950 e della nota angloamericana dell’8 ottobre 1953[33]. Si trattò di atti teppistici ai quali le autorità non seppero reagire lasciando spesso agli italiani la sensazione di essere lasciati soli. C’è da dire che se i diritti civili in Jugoslavia soffrirono in questo frangente storico, quelli nazionali continuarono ad essere tutelati. Ciononostante molti istriani, anche di lingua slovena e croata, emigrarono in Italia per via del generale clima politico instabile e a causa dell’economia disastrata (specialmente il mondo agricolo che contraddistingueva la zona B dell’Istria ne fu travolto), sfruttando l’opportunità dell’opzione nazionale stabilita dai trattati. Questa ondata di opzioni non fu per niente gradita dall’Italia che ormai non riusciva più a gestire l’afflusso di profughi e soprattutto sperava di mantenere una presenza consistente di italiani nella Zona B al fine di riuscirla a reclamare. Oltretutto questi esuli erano i più “sospetti”, il governo italiano li percepiva come “i meno italiani” e soprattutto sospettava che fossero comunisti cominformisti in fuga. Questa fu una delle ondate più consistenti dell’esodo dopo quello di Pola e fu effettivamente la più sfigata: trattati come fascisti o stalinisti in Jugoslavia e come comunisti in Italia.

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18. E quanti furono gli esuli?

Una stima complessiva definitiva è difficile da stabilire poichè furono molti gli esuli che non si registrarono come profughi all’arrivo in Italia e molti furono gli espatri illegali che continuarono fino agli anni ‘60 secondo una logica affine a quella che interessò altri paesi del blocco comunista e anche perché la Jugoslavia, dopo il disgelo con l’URSS, consentì ai propri cittadini di viaggiare liberamente (il passaporto jugoslavo era uno dei più ambiti all’epoca del muro di Berlino, consentendo di transitare sia nei paesi del blocco occidentale che in quelli orientali). La cifra dipende dai limiti cronologici che si vuole dare all’esodo: se si include l’esodo di guerra o gli espatri successivi al ’56 la cifra cambia sensibilmente. Oggi si è propensi a quantificare una quota fra i 200.000 e i 250.000 [34].

19. Perché si sente ripetere la cifra di 350.000?

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L’OAPGD (Opera assistenza profughi Giuliani e Dalmati) dapprima rese pubblici i dati di rilascio di 150.000 certificati di profugo; questo numero, poi, tramite criteri statistici molto controversi, arrivò fino a quota 250.000. In maniera del tutto arbitraria Padre Flaminio Rocchi – nato Anton Sokulic – dell’ANVGD fece lievitare la cifra fino a 350.000. Tale cifra, mai giustificata da alcun dato o stima statistica [35], divenne quella di riferimento delle associazioni degli esuli.

20. Ma che siano stati 250.000 o 350.000 cosa cambia?

Non molto, apparentemente. L’ordine di grandezza è all’incirca lo stesso, eppure c’è un significato nascosto. Importante è notare che le associazioni parlano di 350.000 esuli italiani, mentre la somma complessiva degli abitanti dell’Istria ammontava grossomodo a 400.000 e anche gli studi statistici più benevoli stimano un massimo di 185.000 italiani in Istria nel 1941 [36] (abbiamo visto anche come la definizione etnica degli istriani fosse tutt’altro che lineare). Questa cifra non solo nega l’esistenza di una quota di istriani rimasti ma nega anche una presenza storica slava nella regione. In pratica attraverso questa cifra apparentemente tecnica si perpetua quell’ideologia di purezza millenaria di cui già abbiamo discusso.

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21. Perché le associazioni degli esuli sarebbero così nazionaliste?

Le associazioni di esuli non sono monolitiche, c’è tutto un arcipelago molto “balcanico”, a proposito di stereotipi: tanti potentati in lotta fra loro, ma tutte le associazioni sono contraddistinte da un loro peculiare modo di intendere il nazionalismo. C’è una lontana e nascosta origine: come già si è detto tra ‘43 e ’45, vi fu una cosiddetta “ondata nera” verso la RSI di elementi compromessi con il regime fascista. Furono costoro i veri e propri esuli a fuggire dall’Istria a causa delle foibe. Si è anche già detto che questi elementi neri fondarono i primi comitati di esuli, finanziati dalla stessa RSI [37]. Molti quadri di detti comitati si riciclarono poi nelle associazioni degli esuli nel dopoguerra (si veda il caso di Oddone Talpo), ne è testimonianza la continuità di contenuti propagandistici che poi tennero in ostaggio la narrazione dell’esodo negli anni a seguire. Da allora “foibe ed esodo” divenne un’endiadi obbligatoria, chiunque non la replicava veniva ostracizzato. Ciò su cui non si è riflettuto molto è che questa endiadi era la precisa impronta di quei primi “esuli” compromessi con il fascismo, mescolatisi poi nel dopoguerra agli esuli veri e propri, imponendo ad essi le loro parole d’ordine e di fatto usandone il dramma per riciclarsi come vittime e fare proselitismo. Sarebbe a dire che l’identificazione tra esuli e fascisti fu fomentata inizialmente proprio dai primi comitati esuli, salvo poi lamentarsene al cambio di stagione politica, imputandola interamente agli “slavo-comunisti”.

22. Quindi gli esuli furono obbligati ad essere nazionalisti?

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In molti casi fu un’adesione spontanea e la stessa opzione fu una scelta nazionale, ma a costoro si uniformarono anche coloro che emigrarono per ragioni differenti, ideologiche, economiche o di qualsiasi altro tipo. Furono persuasi con le buone, ma alla bisogna anche con le cattive. L’OAPGD concedeva lo status di profugo a propria discrezione, espungendo dalle proprie liste gli elementi politicamente inaffidabili. Lo status di profugo non era uno scherzo, comportava assistenza, sussidi economici, assegnazione di alloggi e poi precedenze nei concorsi, etc.
Questo meccanismo fu sfruttato anche dal CLN Istria che si sostituì come gruppo dirigente agli ex-repubblichini e voleva orientare politicamente la massa degli esodati verso la DC o altri partiti. Ciò comportò l’esclusione di tutte le altre storie di profuganza non allineate, la moltitudine di vicende familiari complesse fu così uniformata nella cornice nazionalista. Molto spesso però furono gli stessi esuli ad aderire spontaneamente a questa narrazione, primo, per il banale principio che non si sputa nel piatto dove si mangia, in secondo luogo, perché questo tipo di narrazione riempiva gli spazi aperti dal trauma dello sradicamento. Furono molti gli esuli a fuggire dall’Istria a causa di intimidazioni, portate avanti talvolta da teste calde spesso nell’imbarazzo dei locali dirigenti jugoslavi. Le “Foibe” furono un concetto che le associazioni politicizzate fornirono ai propri associati per spiegare queste intimidazioni, come anche le ondate di arresti del paranoico periodo post-‘48 (che abbiamo chiamato del “maccartismo jugoslavo”, noto anche come periodo “dell’Informbiro”).
Così nella memoria ex-post di molti esuli, ma soprattutto nei figli degli esuli, questi episodi drammatici – spiegabili solo attraverso una complicata disamina storica – si trasfigurarono in un racconto lineare dove magari i propri genitori erano riusciti miracolosamente a sfuggire a presunte “liste di infoibamento” (in un’epoca in cui questo genere di epurazioni erano ben che finite, come le ricerche storiche accurate hanno rilevato). “Il martirio delle foibe” rispondeva anche ad una comprensibile necessità di legittimazione che l’esule avvertiva di fronte all’ostilità della popolazione del luogo dove andava a trasferirsi, spesso risentita per i privilegi che egli otteneva, per esempio nelle graduatorie per l’assegnazione di case popolari e nelle liste di collocamento.

23. Ma gli esuli esistono ancora? Quali e quanti soci ormai contano le loro associazioni?

Gli esuli veri e propri stanno scomparendo e invecchiano anche i figli emigrati in tenera età al seguito dei propri genitori. Dopo aver “nazionalizzato” gli esuli e la loro prole, le associazioni si sono adoperate alla “nazionalizzazione” dei nipoti, ormai gli stessi presidenti delle associazioni sono di seconda generazione. Chiaramente “l’entusiasmo” si sta esaurendo e in un certo senso l’istituzione della giornata del Ricordo risponde alla necessità di continuare a perpetuare quell’ideologia nazionale specifica anche dopo la scomparsa dei diretti interessati.
Come si era preannunciato nella prima di queste FAQ, ci sono sviluppi in atto in alcune associazioni come ANVGD, che ha sostituito la clausola revanscista del suo statuto con nuove disposizioni miranti alla collaborazione con la comunità degli italiani rimasti in Istria. In linea di massima mi verrebbe da salutare positivamente questo cambiamento di rotta: dopo averli insultati e accusati di tradimento e “collaborazionismo” coi titini per anni, finalmente si ravvedono. Eppure qualcosa non quadra: i rapporti transfrontalieri, le celebrazioni congiunte e le collaborazioni fra esuli e rimasti si intensificano ma il frasario rimane lo stesso: foibe, 350.000 esuli e tutto l’armamentario neoirredentista. Non solo, queste parole d’ordine le stanno incominciando a ripetere anche i rimasti, pur essendo concetti che negano la loro stessa storia! Come se le associazioni degli esuli spingessero i rimasti a rinnegare le scelte dei propri padri. Un meccanismo terribilmente simile alla spoliazione e all’uniformizzazione cui furono sottoposte più o meno volontariamente le storie degli esuli. A inquietare inoltre è il recente interesse per i rimasti di soggetti non prettamente progressisti come Lega Nazionale e come… Roberto Menia, sì, lui, il braccio destro di Fini – il cerchio di queste FAQ si chiude. Un mese fa ha lanciato una propria formazione politica parlando proprio di rimasti e della necessità di ritornare «a seminare italianità nell’Europa adriatica». Se si tratta di riscoperta delle radici, di tutte le radici ovviamente, non posso che compiacermene, ma «seminare italianità nell’Adriatico», detto da Menia a me fa paura. Il 1991 non è poi così lontano.

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24. Cosa leggere per capire l’esodo?

Individuare pubblicazioni adatte è molto arduo, perché la quantità di ciarpame nazionalista, etnicista, culturalista e subdolamente revanscista o irredentista è spropositato rispetto agli studi storici seri e indipendenti, ma per fortuna questi ultimi si stanno moltiplicando. Per iniziare, personalmente consiglio tre testi molto diversi:

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Aa.Vv. Storia di un esodo
Il libro “maledetto” dell’IRSML (Istituto Regionale per la Storia del Movimento di Liberazione) è molto invecchiato. Giovanni Miccoli nella prefazione del 1980 esprimeva l’augurio che tale testo potesse essere un’introduzione all’argomento, da sviluppare negli anni a venire. Ma così non fu: il testo non incontrò il favore delle associazioni degli esuli e finì in disgrazia, mai più ristampato. Da allora non è stato scritto niente di altrettanto esaustivo in merito, perché ogni altra pubblicazione si è dovuta confrontare con questa lobby, presentando verità patteggiate con il frame nazionalista.

Piero PuriniMetamorfosi etnicheI cambiamenti di popolazione a Trieste, Gorizia, Fiume e in Istria
Trent’anni dopo Storia di un esodo, Piero Purini raccoglie il testimone allargando la visuale, l’iniziale periodo 1945-1956 viene ampliato al 1914-1975. Un ingrandimento del diaframma necessario per capire tutti i mutamenti di popolazione della zona e inquadrarvi adeguatamente l’esodo del secondo dopoguerra. Era la tesi di dottorato dell’autore e a tutt’oggi è uno dei testi di riferimento per analizzare i mutamenti demografici sul confine orientale.

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http://www.wumingfoundation.com/giap/2015/02/foibe-o-esodo-frequently-asked-questions-per-il-giornodelricordo/

Opinioni / Italiani brutta gente. I crimini di guerra nei Balcani 1940-1943

Per tutto il dopoguerra insabbiamenti e depistaggi governativi hanno rimosso dalla memoria collettiva gli orrori perpetuati all’estero duratne il ventennio, perpetuando “il mito del bravo italiano, sempre vittima e mai agente di violenza”

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27 gennaio 2012 – 14:04

Pubblichiamo il testo dell’intervento di Antonio Senta al dibattito “La memoria abbandonata” previsto oggi, in occasione della giornata della memoria,  al Circolo Berneri di Reggio Emilia

Era l’alba di un calda giornata d’estate del 1942 a Podhum, villaggio nell’entroterra del comune di Jelenje a non troppi chilometri da Rijeka. Fiume, non Rijeka, bisognerebbe dire, perché la città era italiana; per la precisione capoluogo della provincia del Quarnaro, governata dal prefetto Temistocle Testa, camicia nera fra le più convinte. E sanguinarie.
Quel giorno l’esercito italiano, i carabinieri e gli “squadristi emiliani” di Jelenje circondarono il villaggio: tutti insieme formavano la seconda armata, guidata dalla “bestia nera”, il generale Mario Roatta. Alle otto in punto fece irruzione la fanteria motorizzata supportata dai carri armati. Mentre alcuni soldati affiggevano sui muri manifesti firmati da Testa che vietavano alla gente di uscire di casa fino alle dieci della sera, altri soldati e carabinieri penetravano nelle case prelevando tutti, senza distinzione.
Zeljac Matejk, una vecchia di sessantasette anni gravemente malata capì subito quel che sarebbe successo quando sentì calciare la porta: fu percossa e trascinata fuori da casa a forza, poi costretta a camminare verso la campagna. Insieme a lei c’erano altri vecchi, donne e bambini: non avevano nulla con loro, se non l’immagine della truppa che saccheggiava i loro averi, se non la faccia di quei soldati che con i lanciafiamme in spalla davano fuoco alle loro case. Zeljac sentiva i pianti e le imprecazioni sommesse, sovrastate dalle urla dei militari italiani, sentiva soprattutto il terrore aleggiare nell’aria. In serata furono fatti salire sugli autocarri in direzione di Fiume. Da lì furono deportati nei campi di concentramento italiani che facevano del Bel Paese una prigione a cielo aperto.
Ma una sorte ancora peggiore aspettava gli uomini. Furono condotti all’aerodromo militare e venne loro ordinato di sedere per terra. Poi tutt’intorno furono piazzate le mitragliatrici e in quel momento il silenzio si fece totale. Lo ruppe un ufficiale d’aviazione che chiese ad alta voce ai superiori se dovessero essere fucilati anche gli operai impiegati all’aeroporto. Il maggiore Mario Rampioni rispose con tono perentorio: “in seguito ad ordine del prefetto: tutti”!
Fu allora un carabiniere a chiamare ad alta voce i primi nomi. Quattro. Si alzarono in piedi e furono portati duecento metri più in là, ai piedi di un monte. Furono massacrati dalle mitragliatrici di due carri armati. Poi fu la volta di altri quindici nomi. Nomi a cui corrispondevano uomini in carne e ossa. Stessa scena: portati un po’ più in là e poi il rumore, inconfondibile, delle mitragliatrici. Chi ci metteva troppo a esalare l’ultimo respiro veniva finito con i fucili.
Ferdinando Barek era un ragazzo di quindici anni, ma già un uomo per l’esercito italiano. Assistette alla fine dei suoi compagni, poi fu la sua volta, insieme ad altri nove. Poi quella di un altro gruppo, poi un altro ancora, poi…
C’era chi urlava, chi si agitava in ogni modo, chi dava di matto, chi provava a scappare, ma mai ci fu pietà. Alcuni abitanti di Podhum furono costretti sotto la minaccia delle armi a trascinare i propri compagni fino al luogo della fucilazione per poi essere trucidati a loro volta. Nessuna pietà per i vivi, né per i morti. I corpi senza vita venivano derubati degli orologi, dei portamonete, di ogni oggetto di un qualche valore. A mezzogiorno l’artiglieria cominciò a martellare le case del paese: la distruzione fu sistematica.
Alla fine della giornata furono almeno centoventi i fucilati, quasi duecento le famiglie deportate, cinquecento gli edifici dati alle fiamme, più di mille i capi di bestiame sequestrati. Di Podhum, villaggio di millecinquecento abitanti, non era rimasto praticamente più nulla.
Perché tutto questo? L’esercito italiano di occupazione accusava i cittadini di Podhum di essere solidali con chi era salito in montagna o si era dato “alla macchia”, con i partigiani insomma e voleva quindi con il terrore della morte soffocare all’inizio il movimento nazionale di liberazione.
Questo del villaggio di Podhum è solo un caso tra mille. In tutti i Balcani, in Montenegro, Slovenia, Croazia, in Grecia e in Albania, durante i due anni di occupazione dal 1941 al 1943 l’esercito italiano ha compiuto una serie impressionante di crimini di guerra simili a quelli compiuti dalle truppe tedesche in Italia: bombardamenti e incendi di villaggi, esecuzioni indiscriminate di partigiani, deportazione di migliaia di persone in campi di concentramento, istituzione di tribunali speciali, torture, uccisioni di ostaggi, rappresaglie in proporzione di “otto a uno”.
Quella nei Balcani del resto non è che una tappa in un continuo di efferatezze sistematiche che caratterizzano la politica di aggressione fascista. Oggi abbiamo notizia di molte delle atrocità compiute in Etiopia a metà degli anni Trenta, grazie al lavoro degli storici, tra i quali soprattutto Angelo del Boca. Con la benedizione di Pio XI e de la “Civiltà Cattolica” l’esercito italiano fa duecentomila morti tra la popolazione etiope anche per mezzo di gas tossici. Oggi sappiamo quale fu il ruolo dell’esercito italiano nella guerra civile spagnola, sappiamo, tra l’altro, che sono gli aerei italiani a bombardare ripetutamente Barcellona nel 1938. Un filo nero che attraversa gli anni Trenta e arriva fino all’inizio degli anni Quaranta, con l’invasione della Grecia e dei territori dell’ex Jugoslavia.
Oggi che abbiamo a disposizione alcune carte su questi avvenimenti viene fuori non solo che i crimini dell’esercito italiano nei Balcani sono del tutto simili a quelli commessi dai nazifascisti e dalla Wermacht in Italia, ma che essi li precedono cronologicamente, essendo cominciati già tra la fine del 1941 e l’inizio del 1942. Così come per l’utilizzo dei gas tossici e dei campi di concentramento è l’esercito italiano a compiere ancor prima di quello tedesco tutte le atrocità possibili in guerra. È un ulteriore elemento, questo, che smentisce il mito degli “italiani brava gente”, mito in crisi di credibilità ormai, almeno da quando gli storici si sono presi la briga di svelare cosa hanno fatto i nostri connazionali nelle province del cosiddetto “Impero”.
C’è un altro interessante parallelismo con i crimini compiuti da nazistifascisti in Italia: entrambi sono stati negati, rimossi dalla memoria collettiva e fisicamente occultati. È probabilmente noto a tutti cosa si intende per armadio della vergogna. Un armadio di uno scantinato di un tribunale militare con le ante rivolte verso il muro in cui furono occultati per decenni i documenti comprovanti i crimini nazifascisti in Italia. Qualcosa di molto simile è avvenuto per i crimini dell’esercito italiano e delle camicie nere in Jugoslavia: i governi dal dopoguerra a oggi hanno messo in atto tecniche di depistaggio e insabbiamento che si sono servite di fini strategie diplomatiche e di una sorta di cortina culturale che ha creato e rafforzato ad arte il mito del bravo italiano.
Nell’immediato dopoguerra circa 750 militari italiani sono richiesti dalla Jugoslavia, circa 180 dalla Grecia e 140 dall’Albania, perché siano processati per crimini di guerra. Sono tutti accusati di crimini simili a quelli avvenuti nel villaggio di Podhum.
Ma fin dall’8 settembre 1943 una delle preoccupazioni principali degli organi di governo è impedire l’estradizione, rinviando sine die qualsiasi procedimento giudiziario contro i propri soldati. Nel 1948 il governo De Gasperi fa definitivamente propria questa posizione, fino a che nel 1951 la magistratura militare chiude con un nulla di fatto tutte le istruttorie.
Non a caso alcuni storici evidenziano come sia stata proprio la mancanza di una “Norimberga Italiana” a contribuire a perpetuare il mito del bravo italiano, secondo cui l’italiano è sempre vittima e mai agente di violenza.
Anche grazie a questa memoria falsata, le classi dirigenti del nostro Paese si sono scrollate di dosso troppo velocemente il proprio passato fascista. Nel secondo dopoguerra i vertici politici, e ancor più quelli militari e giudiziari, si sono ripuliti dagli orrori del passato per presentarsi come ceto dirigente della nascente democrazia, dichiarandosi d’un tratto antifascisti, anche grazie alla compiacenza dei vertici del Partito Comunista, Togliatti su tutti.
Questi nodi insoluti riemergono in maniera più o meno carsica lungo la storia del dopoguerra fino a oggi, quando ancora una volta il razzismo di stato si è fatto legge: la Turco-Napolitano prima e la Bossi-Fini poi hanno istituzionalizzato le prigioni per migranti, i cosiddetti Centri di Identificazione ed Espulsione, veri e propri lager. Essere clandestino è un reato: gli stranieri sono oggi discriminati forse come mai prima in Italia. Costretti a varcare i confini di notte, e poi a nascondersi di giorno, su di loro il governo fa scatenare le pulsioni xenofobe e le speculazioni economiche di una popolazione sempre più impoverita e, forse, incattivita. Stranieri, rom, poveri: contro queste “categorie” di persone i governi scatenano le proprie crociate in perfetta continuità con il ventennio e con quelle istituzioni e quella cultura fascista che è presente nell’Italia del dopoguerra, decennio dopo decennio in un continuum scalfito solo dai movimenti di liberazione collettiva del lungo ’68, una sorta di parentesi gioiosa in un quadro dalle tinte fosche.
È anche per questo che le forze di polizia e l’esercito italiano sono a tutt’oggi pervase di una cultura sostanzialmente fascista. Gli stessi poliziotti che erano nelle strade di Napoli e di Genova a reprimere le manifestazioni di dieci anni fa sono nelle strade e nelle caserme: e hanno spesso e volentieri una qualche croce celtica, o al collo, o tatuata, o attaccata al muro. Dicono di curare l’ordine pubblico, ma sappiamo che sono solo una minaccia per tutti noi; non passa settimana senza che qualcuno muoia in carcere, in questura, o per un banale controllo stradale. E così l’esercito: gli stessi che attaccavano gli elettrodi ai testicoli dei prigionieri somali nel 1992 sono oggi in Afghanistan, le loro azioni di guerra sono circondate da silenzio e omertà: quando filtra qualche notizia la retorica di chi esporta pace o democrazia si rivela un bluff e stiamo a contare i morti. I soldati italiani morti e soprattutto centinaia di civili morti ammazzati, questa volta afghani, ancora una volta colpevoli probabilmente di dare ospitalità o di essere solidali con chi “si dà alla macchia”.
In questo contesto bisogna inquadrare il revisionismo, che ormai da almeno due decenni pervade non solo la storiografia ma soprattutto il senso comune. Dall’abbraccio tra De Gasperi e Togliatti a quello tra Fini e Violante, sino alle opere di disinformazione di massa degli pseudo storici alla Giampaolo Pansa tirate in centinaia di migliaia, il cui unico scopo è ribaltare la verità accusando i partigiani di essere loro i criminali, e non gli aguzzini di Salò, c’è un unico obiettivo: rimuovere le verità scomode, scrivere una storia a uso e consumo delle classi dirigenti, spalancare le porte al pensiero unico.
Oggi è sempre più necessaria una riflessione critica sul nostro passato, sulle tante falsità su cui si basa la cosiddetta memoria condivisa o pacificazione. L’autoritarismo, il militarismo, l’oppressione costante che lo Stato italiano ha dispiegato contro le classi subalterne da 150 anni a oggi non va taciuto. Questo lavoro culturale non può che andare di pari passo a un’opposizione sociale intransigente nei confronti del massacro sociale cui stiamo assistendo. Abbiamo un estremo bisogno di smascherare le menzogne che ogni giorno ci propinano: le menzogne dei sacrifici necessari per pagare i costi della crisi, così come le menzogne degli “Italiani brava gente”. Lunedì prossimo il Presidente della Repubblica sarà in visita a Bologna. Napolitano incarna alla perfezione la menzogna e l’inganno attraverso cui i governi di ogni colore provano a riscrivere il passato e a tenerci in uno stato di apatia e di obbedienza. Lo conosciamo bene: fedele da sempre al Partito Comunista è oggi il vero artefice del governo dell’ultraliberista Mario Monti. Sono sicuro che lunedì qualcuno proverà a ricordargli tutto ciò, gridandogli in faccia la propria volontà di resistenza alla violenza del potere.

Bibliografia:
sul sito web criminidiguera.it sono consultabili circa 170 documenti sui crimini compiuti dall’esercito italiano nei Balcani. Cfr. anche Filippo Focardi, Lutz Klinkhamer, La Questione dei “criminali di guerra” italiani e una Commissione dimenticata, “Contemporanea”, a. IV, n. 3, Luglio 2001, pp. 497-528; Costantino Di Sante, Italiani senza onore. I crimini in Jugoslavia e i processi negati (1941-1945), Ombre Corte, Verona, 2005 (prefazione di Filippo Focardi); Gianni Oliva, Si ammazza troppo poco. I crimini italiani di guerra ’40-’43, Mondadori, Milano, 2006; Alessandra Kersevan, Lager italiani, Nutrimenti, Roma, 2008; Davide Conti, L’occupazione italiana dei Balcani, Crimini di guerra e mito della “brava gente”, Odradek, Roma, 2008. Cfr. anche i video Fascist legacy, regia di Ken Kirby, BBC, Londra, 1990; La guerra sporca di Mussolini, regia di Giovanni Donfrancesco, GA&A Productions/Ert, Roma, 2008.

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Alessandra Kersevan, le foibe e la sospensione della democrazia

“Ogni 10 febbraio assistiamo ad una vera e propria sospensione della democrazia, con brutali attacchi verbali, nella direzione di chi, come noi, cerca di riportare il dibattito e il ricordo sui fatti” che hanno determinato le vittime delle foibe, arrivando anche “a criticarci con l’appellativo di negazionisti”. E’ la denuncia che arriva in occasione di una conferenza stampa alla Camera sul giorno del Ricordo indetta dalla deputata di Si Serena Pellegrino, dalla coordinatrice del Gruppo di lavoro Resistenza Storica, Alessandra Kersevan. Per la Kersevan si dovrebbe “studiare e conservare la memoria di tutte queste vicende ma nella parte più lunga e soprattutto precedente, quella che ha visto le gravi violenze italiane e fasciste contro sloveni e croati e contro gli italiani antifascisti”: dati che a giudizio della Kersevan non vengono neppure accennati in occasione delle commemorazioni disattendendo, in questo modo, anche le finalità della legge che ha istituito il giorno del Ricordo. “Si tratta di una disattenzione dovuta non ad ignoranza” attacca la storica che parla di “censure” e denuncia un “uso propagandistico fatto delle foibe come evento unico paragonabile alla Shoah”.

Per la Kersevan la stessa legge che ha istituito il giorno del Ricordo viene disattesa in diversi punti: quello, ad esempio, che conferisce una “insegna metallica” ai congiunti dei soppressi o infoibati e per la quale, da un’analisi dei “medagliati” emerge che per il “70,37% dei casi si trattava di militi della Milizia di Difesa Territoriale, cioè le camice nere dell’Adriatisches Kustenland o altre formazioni al servizio dei nazisti (i tedeschi avevano vietato la leva obbligatoria)” quando la legge esclude chi faceva “volontariamente parte di formazioni non a servizio dell’Italia”. Ma è soprattutto la data del 10 febbraio che, dice la Kersevan, “è all’ origine di tutti gli equivoci nati dalla legge”: la data della firma del trattato di pace viene collegato al dramma dell’esodo ma “attribuire alla pace e non alla guerra voluta dal fascismo il dramma delle nostre terre è evidentemente una scelta fuorviante: è stata la guerra e le aggressioni che hanno determinato la perdita della Venezia Giulia non il trattato di pace che semplicemente ha decretato la fine di un contenzioso”. Infine, “si è voluto far conseguire l’esodo dalla paura per gli infoibamenti mentre l’esodo è cominciato molto prima ed è continuato a lungo molto dopo”. Insomma “si è parlato di pulizia etnica nei confronti degli italiani quando le documentazioni riguardanti gli scomparsi indicano chiaramente che la gran parte furono colpiti sulla base della loro adesione al fascismo”.

Alessandra Kersevan, le foibe e la sospensione della democrazia

Orwell in Italia, l’invenzione delle foibe

“Chi controlla il passato controlla il futuro. Chi controlla il presente controlla il passato”.George Orwell
di Ivano Scacciarli
Parlare del paziente lavoro documentario di studiosi come Claudia Cernigoi, Alessandra Kersevan e tanti altri sulla vicenda delle foibe istriane non è solo un’operazione di precisazione storiografica. E neanche solo un occasione per distinguere questi lavori dalla paradossale accusa di negazionismo: dove quest’ultimo nega la mole documentaria in nome dell’estrapolazione di qualche dettaglio lo storiografo la assume tutta e nella sua complessità.
Non si tratta di nemmeno un’occasione per fare storia, anche se ce ne sarebbe un gran bisogno, rimettendo al centro dell’attenzione eventi già a lungo discussi quando la storiografia del ‘900 italiano è tutta da riscrivere. Parlare di questo lavoro documentario è invece mettere in evidenza lo sbarco di Orwell in Italia, che con l’invenzione delle foibe ha scritto un capitolo sinistro della verità istituzionale che si fa verità di fatto in concorso con il potere mediale.
Infatti, la vicenda delle foibe dopo l’entrata dei partigiani jugoslavi a Trieste è ristretta a decine di casi, e non a migliaia come deciso dalla verità mediale, è episodica e non ha i caratteri ne’ qualitativi ne’ quantitativi della pulizia etnica pianificata (ci sono infoibati per pure vendette personali ad esempio).
Il ristretto numero di infoibati spiega per esempio il fatto di come gli intervistati in tv siano quasi sempre esuli o parenti di esuli istriani e non parenti di infobati (che, se fossero stati migliaia, avrebbero avuto un numero superiore di parenti a testimonianza). C’è da chiedersi come sia avvenuto tutto questo, come sia potuto accadere che si sia potuto, non tanto cambiare interpretazione sui fatti, ma produrre una vera e propria storia parallela di questo paese che è diventata verità istituzionale e indiscussa. Tanto che l’attenzione mediale, ma anche la didattica nelle scuole, al 10 febbraio è persino superiore a quella nei confronri 25 aprile. E tutto attorno a migliaia di infoibati che, fortunatamente, non sono mai stati tali.
C’è davvero da chiedersi come si sia naturalizzato quest’evento che rovescia la verità storica su quanto avvenuto sul fronte orientale dove gli italiani diventano martiri del terrore venuto da est quando invece hanno invaso la Jugoslavia, come responsabili diretti di decine di migliaia di morti e corresponsabili dell’invasione nazista di quel paese che ha causato oltre un milione di morti e innumerevoli episodi di indescrivibile atrocità.
Tra le spiegazioni possibili ci sta il potere mediale sulla storia, che è una novità dell’ultimo ventennio che gli storici hanno imparato sulla loro pelle, ma anche il declino della capacità della politica di avere una propria idea di storia dopo la crisi delle grandi narrazioni.
Da quando si è fatta funzione del mediale la politica ha perso contatto con la ricerca e con la capacità di analizzare il passato. Il problema è che il potere di significazione del passato, che produce qualcosa di esemplare che vale per il futuro, è stato assunto dal mediale che ha cominciato a produrre storia.
Dal punto di vista istituzionale questa è stata l’occasione per fare una storia che guarda direttamente alla politica del presente. Creando eventi che mettono in secondo ordine l’origine della costituzione nella lotta partigiana si sono poste le premesse storiografiche per il suo sgretolamento da destra, per un nuovo assetto costituzionale decisionista e liberista. E i teorici dell’”uscita dal ‘900″, nella fretta di sbarazzarsi di un patrimonio storico e nel tentativo di traghettarsi in ogni porto, hanno contribuito ad accellerare questo processo che di emancipatorio non ha proprio nulla e porta le inquietanti caratteristiche dell’invenzione statale e mediale della verità. E siamo arrivati a chi ha tutto da perderci in questo emergere di un nemmeno tanto informale ministero della verità: eppure leggi di esponenti verdi che parlano di “pulizia etnica” dei “comunisti” come se fosse successo davvero, per non parlare del presidente della Camera che qualche mese fa ha tenuto un convegno dove, equiparando i gulag a questo fenomeno mai esistito in questi termini, neanche si è soffermato un attimo sulle fonti documentarie.
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