‘di Francesco Pecoraro
L”articolo è uscito anche su [url”Le parole e le cose”]http://www.leparoleelecose.it/[/url] il 30 settembre 2015. Lo pubblichiamo qui per
gentile concessione dell”autore, che ringraziamo. (pfdi)
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La morte di Pietro Ingrao sta innescando un sentimento collettivo di nostalgia generazionale. La
nostalgia, se coltivata privatamente, è un sentimento come un altro. Ma quando diventa collettiva
assume consistenti sfumature di oscenità . La più ripugnante è questo ri-pensarsi delle generazioni
italiche novecentesche, considerandosi come ex-rivoluzionarie.
Non so voi, ma io, ripercorrendo l’intera mia esistenza di non-militante (e tuttavia fedelmente
immancabilmente votante PCI), mi accorgo di non essere mai stato un rivoluzionario, anche se ho
molto parlato di Rivoluzione. Non solo io non lo sono mai stato, ma la gran parte del Partito, dal
’46 in poi, non lo fu mai. Non lo fu Ingrao, non lo furono le ali estreme, non lo furono i
fuoriusciti del Manifesto, non lo furono partiti come il PSIUP: nessuno che nel PCI contasse
qualcosa fu mai un vero rivoluzionario. «Non ci sono le condizioni», si diceva in continuazione:
certo che non c’erano. L’Italia faceva parte della metà del mondo occidentale che nella spartizione
di Yalta si assegnava all’impero americano, era nella Nato: non solo non ci sarebbe stata
consentita la rivoluzione proletaria, ma era impossibile anche l’ingresso del PCI in una coalizione
di governo, per non parlare di una maggioranza parlamentare e conseguentemente di un governo a
conduzione comunista. Ma non furono queste le vere cause del nostro parlare di Rivoluzione senza
essere rivoluzionari, cioè senza essere realmente disposti alla Rivoluzione. Secondo la mia visione
i veri motivi furono altri.
Il primo, e il più importante, era che stavamo abbastanza bene nel capitalismo italiano. Il Paese
cresceva economicamente, la sinistra rivoluzionaria giovanile collaborava indirettamente alla sua
necessaria ristrutturazione, facendolo uscire da uno stato prolungato di vetero-cattolicesimo
autoritario, e introducendolo alla laicità consumista di cui ha bisogno il mercato moderno. Non
esisteva uno stato di ingiustizia sociale estrema e di massa, ma solo un normale sfruttamento, con
tassi di disoccupazione accettabili: la sofferenza e il disagio venivano però occultate dalle buone
condizioni economiche degli operai occupati, di una piccola borghesia in ascesa sociale. Il Paese
da povero che era diventava, se non proprio ricco, riccastro: il reddito veniva, sia pure
moderatamente, re-distribuito, il capitalismo era frenato mitigato contrastato da un forte
movimento operaio. Cioè da PCI & sindacati. In questo senso il PCI fu agente determinante per la
crescita capitalista. La rivoluzione proletaria non si può fare in un paese con consistenti
elementi di social-democrazia, perché viene a mancare proprio la disperazione proletaria di cui
dovrebbe nutrirsi.
Il secondo motivo di ripulsa della Rivoluzione, probabilmente derivato dalle condizioni di civiltÃ
raggiunte, fu la silenziosa non accettabilità di una implicita conseguenza dell’insurrezione: lo
scorrere del sangue. Sangue che già in effetti scorreva abbondante nello scontro tra terroristi
(questi sì, veri rivoluzionari, proprio per l’atrocità dei loro metodi e proprio per questo
completamente isolati) e Stato e che de-stabilizzava il tacito, mai dichiarato, patto di reciproca
assistenza PCI-Istituzioni. La de-stalinizzazione sovietica, prontamente adottata dal comunismo
italiano, ripudiava violenza, purghe e gulag come atrocità assolute, paragonabili a quelle del
nazismo, dimenticando che senza atrocità , purghe e gulag non c’è Rivoluzione. Si discuteva se lo
stalinismo fosse già nel leninismo, cui si voleva restare il più possibile agganciati, pena la
caduta totale di una teoria e di una prassi della Rivoluzione. La risposta, mai ufficialmente data,
era naturalmente affermativa: non puoi abolire la proprietà privata senza tagliare un bel po’ di
teste.
Il comunismo era quello che si vedeva là dove si era realizzato. Ma da un certo momento in poi si
cominciò a fare finta di no. Quello vero era tutt’altra cosa. In Russia nessuno moriva più di fame,
non c’erano più servi della gleba, tutti avevano diritto a Casa Istruzione Lavoro Salute, ma non
c’era «libertà ». Dunque occorreva costruire un comunismo diverso, munito di «libertà », senza però
chiamarlo col suo vero nome: socialdemocrazia. Fu su questa ambiguità , sull’enorme quantità di non
detto, che il PCI si incagliò nelle secche dell’89. Rotolò sulla battigia del neo-capitalismo e lì
si arenò. Mostrando una capacità trasformista degna della migliore tradizione italiana, divenne
progressivamente ciò che è oggi, assumendosi quel lavoro sporco che il capitalismo finanziario
europeo esigeva da tempo e che Berlusconi non aveva saputo/voluto fare, per sostanziale
incompetenza e disinteresse per la cosa pubblica.
Ora, a cento anni, ci muore Pietro Ingrao ed è come fosse davvero la fine della storia del
comunismo italiano: era estinto da tempo, ma non ancora sigillato nella tomba. Come molti di noi,
lo piango e piango Pietro Ingrao. Ma non andrò ai funerali, non alzerò il pugno, non canterò
Bandiera rossa. Da un paio di decenni il comunismo non può essere altro che un silente stato
interiore. Una categoria incomunicabile dell’anima, un rovello, un dubbio, una perdita. Ma il
marxismo ci fornisce ancora la possibilità di mantenere una qualche lucidità di sguardo sul
presente. Purché tutto ciò che pensiamo resti non-detto. «Noi siamo sconfitti», diceva Pietro.
Niente è più vero di questa ammissione. Ma allo stesso tempo niente ormai può distoglierci dalla
coltivazione interiore dell’idea socialista, nessuno può convincerci della superiorità di questo
liberismo da stronzetti. Siamo novecenteschi vetero-ostinati, apparentemente convinti che non ci
avranno, mentre siamo loro da molto tempo. Siamo sempre stati loro.
(30 settembre 2015)Infografica: © Andy Warhol | Hammer and Sickle (1976)
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