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Il fordismo individualizzato e lo storytelling della sharing economy

Non crediamo più a Babbo Natale e neppure alle sue renne, però crediamo alla rete, ai motori di ricerca, a Facebook e oggi anche alla sharing economy. [Lelio Demichelis]

Il fordismo individualizzato e lo storytelling della sharing economy
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24 Dicembre 2015 - 06.18


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di Lelio Demichelis.


Non crediamo più a
Babbo Natale e neppure alle sue renne, però crediamo alla rete, ai
motori di ricerca, a Facebook e oggi anche alla sharing economy.
Abbiamo creduto – e in molti lo credono ancora – che la rete fosse
libera e democratica e magari anche un poco anarchica. Che si potessero
fare le rivoluzioni via Facebook e via Twitter. Credendoci, abbiamo
adottato senza accorgercene ma pieni di tecno-entusiasmo il nuovo
dizionario che veniva proposto e imposto, necessario per la costruzione
di una nuova lingua universale, omologante, pedagogica, a una sola
dimensione (tecnica & economica), fatta per integrare tutti in rete,
per diventare tutti capitalisti, competere contro tutti, crederci
individui liberi e libertari, essere in una nuova era, in una nuova
economia, in una vita tutta nuova.

Recentemente l’abbiamo definita come LII, Lingua Internet Imperii – attualizzando le riflessioni e il titolo del libro Lingua Tertii Imperii
del filologo tedesco Victor Klemperer. Analisi di come il nazismo sia
arrivato a conquistare il potere anche usando la parola e non solo la
violenza, attivando un processo minuzioso, incessante e pervasivo di
sostituzione del senso delle parole con quello
dettato/richiesto dall’ideologia nazista, dando cioè alle parole un
significato progressivamente diverso (e a farlo condividere) da quello
che avevano per tradizione e per dizionario. Una trasformazione della
lingua e del linguaggio utile/necessaria alla costruzione e poi alla
accettazione di massa (il conformismo, oggi si chiama effetto rete)
della nuova lingua del potere e alla introiezione da parte di ciascuno
di ciò che il potere voleva (e che vuole oggi: la connessione di tutti
con tutti e con la rete e con il mercato, ma tutti rigorosamente
separati dagli altri, incapaci di fare società e di auto-nomia, ma
attirati da tutto ciò che fa comunità).
La Lingua Internet Imperii

E oggi, appunto: Lingua Internet Imperii,
perché da quando è nata la rete (e la globalizzazione) essa ha
progressivamente sostituito il senso delle parole del ‘900 con un altro
senso, ha costruito una propria lingua totalizzante e ormai totalitaria
dove alla predicazione della morte del nazismo (necessaria alla
costruzione dell’organizzazione totalitaria) si è sostituita la
predicazione della connessione e del dover essere connessi.
Scriveva Hannah Arendt, prima della rete ma il cui pensiero è
adattabilissimo anche alla rete e al capitalismo e al loro
funzionamento: il vero fine della propaganda totalitaria non è tanto la persuasione quanto la costruzione dell’organizzazione; e ancora: è un errore pensare di propagandare un’ideologia mediante l’insegnamento, l’ideologia si può solo esercitare e praticare – che è esattamente il modo di procedere anche di rete & capitalismo, mettendoci al lavoro e facendoci esercitare e praticare incessantemente la relativa propaganda (ordoliberismo e neoliberismo insieme). Oggi siamo infatti tutti perfettamente e volontariamente integrati in rete (vogliamo essere sempre connessi), tutti organizzati dal mercato e tutti abbiamo un nostro doveroso capitale umano. Mentre occorre ricordare che si ha organizzazione
quando ogni parte prima suddivisa è integrata nell’apparato, condivide
gli obiettivi dell’apparato, persegue non i propri interessi individuali
ma quelli dell’organizzazione.

Un processo linguistico che in
verità è antico e tipico di ogni potere totalitario o religioso o
populista che voglia produrre (sì, produrre) un uomo nuovo, diverso dal passato. E questo si può fare attraverso la parola e con una parola (il mezzo che permette di raggiungere il fine) capace di costruire lo storytelling necessario (il raccontare storie e il sentirsi raccontare storie
che tanto piace agli uomini: oggi si chiama storytelling, ma anche
un’ideologia è una storia, una Grande Narrazione, una gigantesca
Pedagogia sociale basata appunto non tanto sull’educazione ma sul far fare come deve essere fatto).
Ecco allora qualche esempio di questa LII e di questo incessante,
infinito, inarrestabile e sempre nuovo storytelling tecno-capitalista (e
storytelling è qualcosa di leggero e coinvolgente che ha
sostituito – formalmente ma non sostanzialmente, posto che gli effetti
che deve produrre sono i medesimi – la vecchia e novecentesca propaganda; o manipolazione di massa; o ideologia): new economy, negli anni ’90; condivisione in rete; social
network; amicizia; rivoluzioni via Twitter; rete libera e democratica;
web 2.0; fabbrica 4.0; tecno-entusiasmo contro pensiero critico;
nuovo/moderno contro vecchio; rottamazione contro gufi; gli Apple store;
la rete come ecosistema e come ambiente naturale; le nuvole-cloud; i mercati che procedono in automatico.
Abbiamo dimenticato il senso delle parole che avevamo faticosamente
costruito nel ‘900, ormai le nuove parole e la nuova LII dominano la
scena, a rappresentazione unica anche se sempre diversa ma in infinite
repliche.
Forme tecniche, forme capitalistiche, forme sociali

Lo scopo è questo: con-fondere – come scriveva Günther Anders – le forme tecniche di funzionamento degli apparati tecnici in forme sociali (la società che diventa società fordista, oggi che diventa società in rete e a rete); ma, e insieme sovrapporre le forme capitalistiche (tutto è mercato, tutto è competizione, tutto è scambio e merce) alle forme sociali.
Una doppia sovrapposizione, una doppia sostituzione. Qualcosa che è
nella logica degli apparati tecnici ed era negli obiettivi, per
l’economia di mercato, dell’ordoliberalismo tedesco e del neoliberismo
austro-statunitense. La società si deve cioè sciogliere, deve annullare
se stessa come società aperta e come essere in-comune
con gli altri/diversi (e capace di una progettualità propria) per
assumere la forma standard e le norme – uniche e universali – del
capitalismo e oggi della rete. Mentre ciascuno di noi (le parti dell’apparato tecno-capitalista) deve diventare sempre più mero (s)oggetto economico, quindi a capitale umano
da valorizzare sempre più e incessantemente messo in vetrina per farsi
comprare (oggi per lo più a prezzi di saldo), ciascuno dovendo essere
sempre più non se stesso, ma imprenditore di se stesso, sempre più competitivo con gli altri ma anche a mobilitazione totale permanente e crescente
nell’apparato tecno-capitalista. Questo sono oggi il lavoro in rete e
la globalizzazione: una mobilitazione di tutti al lavoro o alla ricerca
di un lavoro o a sviluppare nuove tecnologie e nuove applicazioni, senza
più distinzione tra tempo di vita e di lavoro, tra mercato e società,
tra rete e società, tutti a produttività crescente ma ad alienazione
anch’essa crescente – anche se abilmente nascosta dall’apparato sotto la
parole della neolingua e del proprio storytelling, ciascuno sempre più
innovativo ma innovativo solo in termini di nuove tecnologie, non di
innovazione sociale, culturale, politica.

E da qualche tempo,
nel grande storytelling del tecno-capitalismo (che si rinnova
continuamente – il trasformismo è nella sua natura), si è aggiunta la sharing economy, ovvero l’economia della condivisione, un’economia dove il sociale orienterebbe un nuovo modo di essere economia. O un modo nuovo di essere dell’economia. Che farebbe della relazionalità e della libera condivisione (sharing,
appunto) – unitamente alla tecnologia della rete, dove la condivisione è
la rete in sé e la rete è condivisione o meglio connessione – la
propria forma ed essenza. A nulla serve obiettare che
vent’anni fa (o dieci o cinque) le retoriche e lo storytelling erano
uguali, anche allora si favoleggiava di condivisione, di wikinomics e di
libertà in rete: lo storytelling della rete è più forte di ogni
obiezione, di ogni confronto con la realtà, di ogni smentita della
storia e davvero è ormai una Grande Narrazione globalizzata (ma
tecno-economica, invece che politica) che ha preso il posto delle vecchie Grandi Narrazioni del ‘900.
Sharing economy?

Ovviamente virtuosa, questa nuova economia sociale (social economy), perché non più basata sul bieco capitalismo e sullo sfruttamento di un tempo; e ovviamente sociale,
perché appunto relazionale, condivisa, quasi umanistica e basata sulla
gratuità e il dono (quindi, presentata addirittura per
post-capitalista). Un’economia che rappresenterebbe un nuovo modello di
mercato ovviamente alternativo o superiore o almeno successivo al capitalismo novecentesco; una nuova-nuovissima-economia migliore anche rispetto alla vecchia new economy
degli anni ’90, oggi già vecchia e comunque sulla quale – viste le
promesse tradite e anzi l’eterogenesi dei fini che ha indotto (più
sfruttamento, cancellazione della distinzione tra vita e lavoro, falsa
individualizzazione e realissima integrazione di tutti in una rete) – è
meglio sorvolare. Se andiamo ad analizzare con spirito critico – come
sempre si dovrebbe fare – questa mitizzata sharing economy ci
accorgiamo che la realtà è – ancora una volta – diversa dalla promessa;
che spesso è semplicemente una maschera al vecchio sfruttamento del
lavoro del capitalismo 0.0; che è un’economia del tutto
capitalistica; che produce oligopolio; e che, soprattutto la
condivisione è permessa solo se passa attraverso la rete e l’infinita
connessione/integrazione/organizzazione di tutti e di ciascuno permessa
dalla rete stessa, dove qualcuno trae profitto per sé dalla condivisione
degli altri. Sharing economy che è passata – come ha scritto Tom Slee – dalla generosità e dall’altruismo di quel che è mio è anche tuo all’egoismo interessato di quel che è tuo è mio, mentre i valori non commerciali evocati dalla parola condivisione
sono stati ridotti ad un esercizio di pubbliche relazioni o forse
meglio di purissimo (e vecchio) marketing; con una rete che sempre meno è
un mezzo di comunicazione, condivisione vera e di conoscenza (lo era
agli inizi) e sempre più è un mezzo tecnico e capitalistico di connessione, di incessante messa al lavoro, di sfruttamento della ricchezza anche sociale e delle conoscenze altrui. Ancora Slee: la
sharing economy ha tradito le sue promesse e un modello basato sulla
comunità, sui legami interpersonali, sulla sostenibilità è diventato
terreno di caccia di miliardari, finanzieri e capitalisti che cercano di
far penetrare i valori del mercato sempre più all’interno della vita
personale di ciascuno, generando il contrario della condivisione:
deregolamentazione, nuovo consumismo e nuova precarizzazione del lavoro
. Potremmo aggiungere: lo storytelling della sharing economy – coma la Lingua Internet Imperii – è una forma di foucaultiana biopolitica, un modo per governamentalizzare (organizzare) la vita intera – in senso capitalistico e tecnico – degli uomini, per produrre un’economia (e una rete che sempre più è capitalista e riproduce capitalismo) che sia sempre meno un mezzo al servizio della società (e della democrazia) e sempre più la forma/norma di vita (il fine) – omologata e sempre ri-omologante – degli individui e dell’intera società.

Qualche esempio di sharing economy, sociale, condivisa, relazionale? Il sempre citato Airbnb, colosso (sic! – come può esistere un colosso economico in una economia della condivisione?) della sharing (?) economy,
che con i suoi 24 miliardi di dollari e 1,5 milioni di alloggi
registrati in 190 paesi vale ben più di una tradizionale catena
alberghiera, ma che con le sue retoriche della condivisione ha
stravolto il mercato degli affitti di San Francisco, arricchendo una
parte della classe media ma impoverendo quella medio bassa e spingendo
molti a doversi spostare in periferia per l’insostenibilità dei prezzi. E
poi Uber, il servizio di noleggio di auto con autista che sembra
la rottura della casta dei taxisti in nome della libera concorrenza,
mentre in realtà è purissima concorrenza sleale, anche se abilmente
presentata dal marketing come sharing economy – con Uber che
dovrebbe chiudere l’anno con un valore delle prenotazioni globali vicino
ai 10 miliardi di dollari, che ha attirato 3,7 miliardi di
finanziamenti e annunciato la quotazione in borsa, ma che fa profitti
sfruttando il lavoro degli autisti.

Certo, Airbnb e Uber e tutte le imprese della sharing economy
che fanno profitti lo fanno sfruttando al meglio la logica della
disintermediazione (e questo dovrebbe essere positivo), ma anche della
esternalizzazione e della precarizzazione del lavoro – pur essendo esse
stesse delle agenzie di intermediazione, che non producono nulla ma che
fanno profitti sfruttando e mettendo in rete il lavoro o le prestazioni
degli altri. Una forma diversa rispetto alla finanziarizzazione dell’economia
(la produzione di denaro a mezzo di denaro, D-D’), ma ad essa molto
simile (produzione di denaro a mezzo di gestione diretta dell’incontro
tra domanda e offerta). E quindi: Modu-Parking, Booking.com, HomeAway,
WeWork, ShareDesk, BlaBlaCar, Ola, Materest (per incontrare possibili
coinquilini), Etsy (per lo scambio p2p di prodotti artigianali o
vintage, dichiarando 60 milioni di utenti registrati), Quirky (per
mettere in contatto inventori e aziende), e un’infinità di altre
proposte. E poi il crowdfunding. E ancora lo smart work (lavorare da
remoto condividendo spazi disegnati apposta per i millennials
però utilizzati non solo da lavoratori autonomi ma anche da piccolissime
imprese), e il temporary shop e poi il social eating e il social
cooking e la peer education. La neolingua produce incessantemente
parole-nuove, che sono anche parole-chiave necessarie, come nel vecchio marketing per attrarre, sedurre e convincere.
Sharing o economy?
Sharing economy, dunque. Che tuttavia si dividerebbe sempre più tra chi privilegia la dimensione sharing e chi quella economy (ovviamente: capitalistica) e on demand, per cui, per questa seconda modalità di gestione il modello è sempre quello a controllo centralizzato, non permettendo forme di mutualismo (Fondazione Unipolis, 2015), con lo sfruttamento intensivo del lavoro precario (ma promosso come auto-imprenditorialità o come poter essere finalmente il boss di se stessi – come titolava un articolo di Affari&Finanza dello scorso 19 ottobre dedicato alle virtù della uberizzazione
del lavoro) e poco tutelate (appunto, il vecchio capitalismo 0.0
riverniciato di 2.0). Mentre coloro che mettono invece l’accento su sharing sarebbero, loro sì davvero nuovi
cercando di sviluppare e sostenere le relazioni tra pari, avvicinandosi
al non-proft se non alle tematiche dei beni comuni (in realtà,
radicalmente diverse). Ecco allora il co-working e la rete degli hub,
condividendo lavoro e vita con altri, esperienze e competenze; oppure i
fab-lab e la condivisione di nuove tecnologie come le stampanti 3D. O le
B-Corporation, imprese non-profit che ottengono una certificazione
rilasciata da B-Lab (?) dietro compilazione (volontaria) di un modulo di autovalutazione che misura il rispetto dei valori sociali e ambientali. O ancora le cooperative di comunità, per arrivare alle social street che hanno l’obiettivo di socializzare (meglio: comunitarizzare) i vicini di casa e di strada, rovesciando il titolo di un recente e critico libro di Sherry Turkle, Insieme ma soli, in Vicini e connessi (Ricerca del Dipartimento di Sociologia dell’UniCattolica di Milano), pur dividendosi tra social street più dedicate agli aspetti ludico-ricreativi e quelle più orientate al civico-partecipativo. E ancora: il sharing werlfare. Tutto bene, bello e giusto – in questa sharing economy?
In parte anche sì, in mancanza di meglio; ma è proprio il meglio – un
modo radicalmente diverso di fare economia rispetto a questo capitalismo
– che manca, se è appunto vero, come dovrebbe essere evidente, che
anche la sharing economy è questo capitalismo.

In
realtà la condivisione e l’aiuto erano pratiche antiche. La rivoluzione
francese – in altro modo – era nata anche per realizzare un principio di
fraternità e di solidarietà. Il welfare pubblico post-1945 era basato anch’esso sulla condivisione
(la redistribuzione della ricchezza dall’alto verso il basso della
società, la creazione di uguali punti di partenza per tutti, le
assicurazioni sociali come forma di partecipazione e di condivisione
sociale dei rischi), oltre che sulla fraternità/solidarietà
inter-generazionale. E anche il ’68 è stato rivoluzionario verso la
società di classe e verso i suoi falsi bisogni, in nome di una diversa
solidarietà e di una nuova condivisione. Ma tutto questo è stato
progressivamente rimosso, cancellato. L’idea di una società aperta,
molteplice, non omologata né omologante è stata sciolta in un’infinità
di pratiche di comunità chiuse (etniche, identitarie, in rete), la
modernità liquida si è sostituita (dice Bauman) a quella pesante (anche
se, in verità questa modernità liquida è molto più pesante della
precedente), il lavoro è passato dall’essere un diritto a essere una
merce, lo stato sociale è stato ridotto e privatizzato, ciascuno è
lasciato solo (ma sempre più connesso/integrato in qualche forma di
comunità – di rete, di lavoro, di strada, di blog – spacciata per social).
La globalizzazione & la rete scompongono, suddividono, isolano
(essendo tecnica & capitalismo) per poi ricomporre in strutture
unitarie e totalitarie le parti prima suddivise (il mercato globale e le
sue leggi, la rete) – questa è la logica intrinseca e necessaria di
ogni organizzazione, dalla prima rivoluzione industriale e dalla
fabbrica di spilli di Adam Smith alla rete e alla sharing economy.
Rete e globalizzazione hanno liquefatto la società aperta, ma per
compensare emotivamente e relazionalmente gli individui isolati dai
processi tecnici e di mercato ecco la rete che lega e apparentemente non
lascia soli, ecco l’ideologia della
condivisione-che-non-è-vera-condivisione, la fabbrica come comunità di lavoro
e da cui deve essere ovviamente eliminato il conflitto e quindi
l’immaginazione di cose diverse, il nuovo paternalismo imprenditoriale e
il welfare aziendale (o sharing), il populismo tecnocratico, la favola
della rete libera e democratica. Se la rete de-socializza, la rete poi comunitarizza e dà l’illusione della condivisione e quindi docilizza l’insieme (tutti noi).
La rete come mezzo di connessione. La connessione come fine

Mezzo di connessione, la rete – abbiamo detto; sempre più. E sempre
meno, un mezzo di comunicazione e di conoscenza (l’altra favola degli
anni scorsi, traditasi nel suo contrario: la conoscenza e la
comunicazione sono sempre più merce dei motori di ricerca, quello che
doveva essere il marxiano general intellect è una società portata alla semplificazione – l’opposto della conoscenza – le imprese esternalizzano a makers individuali
e super-sfruttati quello che un tempo facevano in casa con grandi
investimenti, ovvero la R&S). Mezzo di connessione necessario quanto
più il tecno-capitalismo si fa globale e veloce. A questo serviva la
catena di montaggio, nel fordismo concentrato delle grandi
fabbriche, a questo serviva il just in time del toyotismo e oltre. Oggi
la catena di montaggio esiste ancora ma il lavoro non ha più bisogno di
essere concentrato in un luogo fisico, può essere facilmente
esternalizzato e indivualizzato (lavoro precario, finto-autonomo,
free-lance, makers dell’innovazione, ma anche co-working e dintorni)
ancora di più, di più rispetto alla frammentazione del lavoro della vecchia catena di montaggio, in quello che definiamo come fordismo individualizzato, dove la rete è il mezzo di connessione/organizzazione
che permette appunto di connettere/legare tutti coloro che sono stati
individualizzati ed esternalizzati (facendo però credere loro di essere
diventati lavoratori autonomi e imprenditori di se stessi), dentro
l’apparato di produzione, sia esso di produzione materiale, immateriale,
finanziaria, di consumo, di divertimento, di comunità) del
tecno-capitalismo.

Niente di nuovo, in verità, ma fatto
apparire come nuovo (ancora, lo storytelling della biopolitica
tecno-capitalista). Lo aveva intuito Henry Ford, già cento anni fa:
“Nelle nostre prime prove noi ritenevamo necessario raggruppare nello
stesso impianto le linee di produzione e di montaggio, ma poi, con
l’esperienza, abbiamo imparato che la fabbricazione di ciascuna delle
parti che compongono il prodotto finito costituisce un settore distinto
e può effettuarsi dovunque si presenti la convenienza, visto che il
montaggio finale può avvenire in qualsiasi posto. Tutto ciò ci ha dato
la misura della flessibilità della produzione moderna”. E ancora: “una amministrazione efficiente si basa sulle registrazioni, sulla progettazione, sullo studio delle operazioni e su buoni sistemi di comunicazione e non necessariamente sulla possibilità di supervisione diretta e locale”. E oggi questo buon sistema di comunicazione/connessione
si chiama rete. Con una serie di vantaggi per il tecno-capitalismo:
fine del conflitto sociale e del conflitto tra capitale e lavoro (oggi
tutti siamo ormai persuasi di dover essere imprenditori di noi stessi), fine di Grandi Narrazioni alternative (al più, una Piccola Narrazione da social street, giusto per sopravvivere e sentirsi non-più-soli o meno-soli), fine della progettazione sociale (al più, e ancora: da social street),
fine della società aperta e moltiplicazione delle comunità (che sono
pratica diversa e opposta alla società). E con una serie di svantaggi
per ciascuno di noi: perdita della capacità di essere se stessi, di
progettare insieme (essendo isolati e/o chiusi in comunità), di guardare
lontano (oltre la street, del falso social), di guardare la realtà e di conservare un poco di capacità di non-connessione/integrazione con gli altri. Liberi servi, felici di esserlo.

E dunque, la sharing economy.
Una delle tante forme che ha assunto e che può assumere il capitalismo.
Capace di produrre anche qualcosa di diverso da sé per dimostrare di
non essere totalitario; di produrre apparente diversità e
moltiplicazione delle opportunità e delle merci (i consumi
personalizzati, le pubblicità personalizzate, la produzione in serie di
merci individualizzate), per dimostrare di essere molteplice; di offrire
forme di mercato (basate sulla condivisione) diverse da quelle
strettamente capitaliste. Ma poi, essendo il tecno-capitalismo una
religione secolare e trascendentale insieme (religione nel senso di
legare a sé ciascuno, ovunque egli sia, portandolo ad essere fedele e
integrato nel gregge di rete & mercato) ed avendo anch’esso una
propria teologia (ridurre a uno ogni diversità, riportare dentro di sé
ogni due, ogni tre, ogni diversità che pure crea), le diversità e le
molteplicità sono tali solo se funzionali al tecno-capitalismo, la cui
essenza e razionalità è una sola: prima suddividere e poi totalizzare/integrare in sé ogni parte prima suddivisa e diversa da sé. Anche la sharing economy è dentro questa logica. Produce capitalismo socializzandolo, non produce altro dal capitalismo. Neppure lo democratizza; o lo fa social (qualcosa di assolutamente impossibile).

Beni comuni, solidarietà, società, umanità, responsabilità, progettualità, sostenibilità e democrazia sono tutt’altra cosa. 

Bibliografia essenziale

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Fonte: http://temi.repubblica.it/micromega-online/il-fordismo-individualizzato-e-lo-storytelling-della-sharing-economy/.

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