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Il potere deicida delle religioni

Nella religione l’uomo può voler prendere possesso del sacro per disporne unicamente per la propria autogiustificazione

Il potere deicida delle religioni
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14 Maggio 2016 - 22.00


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di
Marco Galloni
.

Perché i media dell’informazione mainstream continuano a insistere tanto
sulla matrice islamica degli atti terroristici che insanguinano questi primi
due decenni del terzo millennio? Eppure, soprattutto dopo le recenti ammissioni
di Tony Blair, Hillary Clinton, Wesley Clark e altri, dovrebbe essere chiaro che
questi attentati sono semmai da attribuire al fondamentalismo giudaico/cristiano
di George W. Bush, dei suoi neocon e del loro ideologo Leo Strauss.

Il punto, però, non è questo.

Le ragioni di tale insistenza non vanno cercate
in una specifica confessione religiosa quanto piuttosto nella religione in sé.
Più precisamente, nell’ambiguità e nel potere di separazione che si annidano in
ogni religione.

Non che le religioni siano intrinsecamente divisive,
e in questo senso diaboliche (dal verbo “diabállein”, che significa “disunire”,
“separare”). Le religioni, intese come risposte dell’uomo alle manifestazioni
del sacro, sono, nella loro essenza, tutt’altro che diaboliche. Solo che
possono facilmente degenerare, come tutto ciò che è umano. Anzi, secondo Karl
Rahner, da molti ritenuto il massimo teologo cattolico del XX secolo, possono
degenerare «ancor più di ogni altra realtà umana. Nella religione, infatti,
l’uomo (…) può voler prendere possesso del sacro per disporne unicamente per la
propria autogiustificazione. Quest’ambiguità e duplice possibilità si trovano
per lo più, nelle religioni concrete, mescolate insieme (…)». Quando l’essere
umano cerca di mettere le mani sul sacro, nella religione può manifestarsi non
l’abbandono a Dio ma – aggiunge Rahner – «la più estrema autoaffermazione
dell’uomo, la sua assoluta, chiusa autosufficienza». Ci vuol poco perché una religione
in tal modo pervertita diventi liberticida, omicida, fratricida: basti pensare
ai milioni di morti causati dalle guerre tra cattolici e protestanti
nell’Europa del XVI – XVII secolo.

La
morte di Dio

La religione può diventare persino deicida, e
sono proprio l’ebraismo e il cristianesimo a mostrarcelo con maggior evidenza. Gesù
di Nazareth, che per il cristianesimo è vero Dio e vero uomo, viene ucciso per
volere dei sinedriti, l’élite religiosa del popolo eletto. E viene ucciso innanzitutto
per questioni teologiche; solo in seconda battuta subentrano le logiche
politiche di Pilato, la scelta del popolo di liberare Barabba, eccetera. È
quanto si evince dal processo a Gesù raccontato dall’evangelista Matteo (Mt 26,57-68).
Alle domande del sommo sacerdote, il Nazareno risponde utilizzando due figure
pienamente ortodosse per l’ebraismo: la figura del Messia e quella del Figlio
dell’uomo che viene sulle nubi annunciata dal profeta Daniele (Dn 7,13-14).

Il problema è che Gesù, mettendo insieme queste
due figure e attribuendo a se stesso la statura divina del Figlio d’uomo dell’oracolo
di Daniele, crea una miscela esplosiva che agli orecchi dei sinedriti non ha
più nulla di ortodosso e suona anzi come una bestemmia. Diciamo meglio: per la
teologia ebraica è una bestemmia, e come tale va punita con la morte; così esige
la legge mosaica.

I successori di quei zelanti difensori
dell’ortodossia religiosa, i sacerdoti cristiani, sono stati anch’essi a dir
poco irriguardosi nei confronti di Dio, benché in modo diverso: hanno
attribuito la morte del Messia alla volontà del Padre. Questo pervicace, sciagurato
fraintendimento nasce con l’apostolo Paolo e sarà poi codificato, circa mille
anni più tardi, da sant’Anselmo d’Aosta nella dottrina dell’espiazione vicaria,
secondo la quale sul Figlio si sarebbe abbattuta la punizione divina altrimenti
destinata a noi. Ma nel ‘900 le menti teologiche più brillanti hanno cominciato
a capire che una dottrina del genere è insostenibile: non solo è completamente sbagliata
ma è addirittura blasfema, dal momento che accusa il Padre di essere
l’assassino del suo unico Figlio innocente, o peggio ancora il mandante di
quell’omicidio/deicidio. In realtà sono numerosi i passi del Nuovo Testamento che
scagionano Dio Padre da un’accusa così infamante, basti vedere la parabola dei
vignaioli omicidi (Mt 21,33-39; Mc 12,1-8; Lc 20,9-15), il discorso di Pietro
alla folla (At 2,22-36) o il discorso sulla sapienza divina di 1 Cor 2,7-8.

La
teologia morale del diavolo

Dunque le religioni, paradossalmente, possono
trasformarsi nei più implacabili nemici di Dio, e quando Dio muore assassinato
dagli uomini tutto è perduto. Perfino Nietzsche arriva ad ammetterlo nel
celebre aforisma 125 de “La gaia scienza”, quello dell’uomo folle che va al
mercato con la lanterna accesa in pieno giorno a cercare Dio: «Dove se n’è
andato Dio? (…) Siamo stati noi a ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi
assassini! Ma come abbiamo fatto? (…) Chi ci ha dato la spugna per strofinare
via l’intero orizzonte? Che mai facemmo a sciogliere questa terra dalla catena
del suo sole? (…) Non è il nostro un eterno precipitare? (…) Non si è fatto più
freddo? Non seguita a venire notte, sempre più notte?».

Ecco perché chi sta destabilizzando il Medio
Oriente e l’Europa con guerre e attentati ha fin dai primi momenti affibbiato a
questa strategia della tensione una forte connotazione (pseudo)religiosa: da
una parte l’Islam, dipinto come religione opprimente che spinge i suoi devoti,
invidiosi della nostra libertà, a scagliarsi contro torri gemelle, quartieri
generali della difesa e via dicendo; dall’altra lo sfrenato liberismo
occidentale, che è una forma di religione anch’esso, con le sue credenze, i
suoi riti, i suoi dogmi indiscutibili. Il gioco è fatto: è quella che Thomas
Merton chiama «la teologia morale del diavolo», una sorta di religione manichea
fatta di nette distinzioni tra bene e male, tra bianco e nero, tra questo e
quello, tra buono e cattivo. È facile aderire a una religione così. Facile ed
estremamente vantaggioso per chi la organizza e la gestisce, perché una
religione siffatta è un formidabile strumento di divisione e quindi di potere.

Per uscire da una situazione del genere
occorre liberarsi dalle credenze, fare il salto dalla religione alla fede. Ne
parlava, anche se in un contesto diverso dal terrorismo, il filosofo ed esperto
di mistica cristiana Marco Vannini in un articolo intitolato “Preghiere laiche. L’incontro tra fede e
ragione è nel distacco dell’Io”
, pubblicato su “la Repubblica” nel 2013:
«Il problema sta proprio nel concetto di fede come credenza, che in quanto tale
confligge spesso con la verità storica, scientifica, e assume perciò le vesti
di una inaccettabile finzione. In realtà la fede non è affatto credenza, ma il
contrario: è distacco, ovvero il movimento del pensiero che, rivolto
all’assoluto, spazza via ogni credenza, riconoscendone la finitezza. Come
insegna san Giovanni della Croce, la fede non produce credenza o scienza
alcuna, ma conduce nella “notte”, nel “nulla” – ovvero fa il vuoto di ogni
presunto sapere, rendendo l’intelligenza finalmente libera da ciò che la teneva
legata. Questa è propriamente la verità della fede (…)».

Chi non può compiere il salto mistico di cui
parla Vannini, perché non crede in Dio o per altre ragioni, può sempre riporre
la propria fiducia nell’uomo, nel mondo, nella possibilità di rapporti più
autentici tra le persone, nella verità. Anche questo genere di fede può salvare
dalle menzogne di certe religioni.

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