di Sandro Vero
«Qualsiasi pensiero “responsabile”, “moderno” e “realista”,
ovvero conforme a tale razionalità, è caratterizzato
dall’accettazione preventiva dell’economia di mercato,
delle virtù della concorrenza, dei vantaggi della globalizzazione
dei mercati, dei vincoli ineludibili introdotti
dalla “modernizzazione” finanziaria e tecnologica.»
Pierre Dardot e Christian Lavalle, La nuova ragione del mondo.
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Senza la complicità della sinistra, e non solo quella socialdemocratica, il neoliberismo non avrebbe raggiunto un tale grado di penetrazione, di pervasione, di perversione. Le politiche, ad esso ispirate, della Thatcher e di Reagan dei primi anni ’80 si sono perfezionate – si potrebbe dire compiute – con la third way di Blair, che ha cantato le lodi del mercatismo fino a farne il principio ispiratore di un’intera stagione di contro-riforme che ha smantellato una parte consistente della cultura del welfare, dei diritti del lavoro, della solidarietà sociale.
Ma andiamo con ordine.
Il motivo ricorrente, per molti versi fondativo, di una sinistra convertita alle ragioni del management esistenziale, più ancora che aziendale, è la patetica solfa della centralità dello stato e della sua mission, di contro alle presunte tesi neoliberiste del laissez faire. L’arrogante bugia è stata, in altre parole, quella di raccontarsi come portatrice di un valore – l’organizzazione della società da parte dello stato – in netto contrasto con la strategia della spoliazione statale attribuita alla destra.
Una maledetta balla!
Già da tempo, e completamente dentro al suo dibattito interno, il neoliberismo aveva precisato la funzione fondamentale dello stato nella cornice teorica e politica che assegnava ai mercati – al loro giudizio finale – una sorta di priorità metodologica nella definizione dei programmi economici e sociali. Il cosiddetto laissez faire era ed è rimasta solo una delle posizioni che compongono la galassia neo-liberale. Lo stato deve costruire, mantenere, sorvegliare, una complessa struttura istituzionale che garantisca la realizzazione dei princìpi fondamentali della governamentalità neoliberista: la concorrenza sempre e dovunque, la misura della valorizzazione economica applicata alle materie più refrattarie, il dispiegamento pieno e privo di intralci della cultura del “capitale umano”.
La distinzione è dunque fasulla, come una moneta fra i denti che segnala la sua natura fraudolenta. Una sinistra che consegna l’anima e il corpo a una “razionalità” irriducibile, moderna, autocentrata, senza deroghe, fatta di progressive mortificazioni del patrimonio keynesiano di una politica economica e di una economia politica nel segno del compromesso sociale. Una sinistra il cui sogno – da realizzare mediante la sostituzione della lotta per l’uguaglianza con la lotta alla povertà – è divenuto la scomparsa delle classi. E non nel senso vaticinato da Marx…
Insomma, un mondo totalmente riempito da piccoli medi e grossi capitalisti!
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Ma la responsabilità della sinistra, specie nell’imminenza del varo dell’euro e dell’Europa come fetazione di quel processo ambiguo che è la globalizzazione (altra infatuazione ingovernabile), non si esaurisce nel fatto di aver fornito alla destra finanziaria i suoi strumenti istituzionali. Il potere di penetrazione che la nuova ragione del mondo ha dispiegato nel passaggio al nuovo millennio proviene dalla sottile, pervicace, quotidiana costruzione di una soggettività perfettamente speculare alle necessità oggettive di cui lo stato si fa garante. La forgia di un soggetto costantemente richiamato al suo diritto/dovere di essere libero – concorrenzialmente libero – è stata portata avanti nelle officine di una sinistra che ha fatto valere il peso delle sue rinunce, della sua sconfitta, della sua colpa, quasi come un enorme motivo di vanto: una gara con la destra nella partita della modernità, una vigliacca dimostrazione di cambiamento epocale sulle spalle di un’intera umanità del lavoro, che ha visto stravolgere giorno dopo giorno il modo di intendere, di vivere, di sognare il rapporto con il proprio fare e con il proprio essere, entrambi risucchiati dentro la logica dell’auto-misurazione, dell’auto-premiazione, perfino dell’auto-esecrazione.
La solidarietà sociale è divenuta presto una sorta di materia purulenta che infetta la mente e l’anima dell’individuo, privandolo dell’energia che gli occorre per realizzare la piena forma del suo essere: un capitale da amministrare, nei rischi e nei successi, nella certezza che l’infelicità è riconducibile solo e soltanto a un errore di computo!