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di Fulvio Scaglione.
Ce la farà quella parte di America che si considera aperta, perbene e democratica a cacciare l’intruso Donald Trump? Forse sì, forse no. Ma se ciò avverrà, non sarà certo in virtù di ciò che ha stabilmente preso il nome di Russiagate. Perché lo “scandalo” dei rapporti tra il Presidente, i suoi uomini e la Russia, e dell’aiuto che il Cremlino gli avrebbe offerto interferendo nel processo elettorale, è come un miraggio: da lontano sei sicuro di vedere un’oasi, da vicino ti ritrovi con qualche illusione ottica e un mare di sabbia.
Il tutto si ripete con le cadenze regolari di quella che, in altri luoghi e in altre situazioni, chiamammo la “macchina del fango”. Prendiamo il Washington Post di ieri: dice di aver saputo da cinque persone che non si possono nominare (comodo, no?) che Robert Muelle (procuratore speciale incaricato di indagare sul Russiagate) vorrà incontrare alcuni dirigenti delle agenzie di sicurezza (e chi altri dovrebbe incontrare?) perché potrebbe persino ipotizzare di indagare su un reato di ostruzione alla giustizia da parte di Trump. Il nulla, cucinato però benissimo perché la stampa dei Paesi vassalli come l’Italia possa titolare che Trump SARA’ indagato per ostruzione alla giustizia, lo stesso reato che costò la poltrona a Richard Nixon e l’incriminazione a Bill Clinton.
La colpa di Trump sarebbe di aver licenziato in tronco James Comey, ex direttore dell’Fbi, che a sua volta incarna perfettamente l’offensiva contro Trump. Testimoniando sotto giuramento davanti alla Commissione Giustizia del Senato, Comey ha trovato modo di dire che: la Russia ha interferito nelle elezioni presidenziali e ha hackerato “centinaia, forse migliaia di istituzioni americane” (centinaia o migliaia? Che cosa sono, e quante sono, le “istituzioni americane”?) ma il voto non è stato alterato (e allora di che parliamo?); che il ministro della Giustizia Sessions si è auto-ricusato dalle indagini sul Russiagate “per una grande varietà di ragioni” di cui lui, Comey, non può però parlare perché c’è un’inchiesta in corso (comodo anche questo); che Trump non gli aveva “espressamente chiesto” di lasciar perdere le indagini su Michael Flynn, il consigliere alla Sicurezza nazionale costretto alle dimissioni, ma aveva espresso la speranza che potesse “lasciar perdere”. Comey, inoltre, ha ammesso di aver passato a un giornalista del New York Times gli appunti presi durante i colloqui riservati con il presidente Trump.
Insomma. Se uno ricorda che Comey è lo stesso che, da direttore dell’Fbi, “assolse” Hillary Clinton per le mail secretate ma sottratte ai server del Dipartimento di Stato e poi fatte sparire, e lo stesso che aveva ritirata in ballo la Clinton una settimana prima del voto, mettendo in dubbio la sua onestà ma senza poi procedere; e che sempre Comey, a proposito di altre mail secretate della Clinton, finite nei computer del marito della sua assistente a sua volta impegolato in uno scandalo sessuale, ha testimoniato prima che erano “migliaia” e poi si è smentito dicendo “solo centinaia”… Ecco, lo scandalo vero è che un fesso simile sia diventato direttore dell’Fbi. Altro che Trump presidente.
Basta andare a vedere e a leggere e tutto il Russiagate somiglia a Comey e alle sue testimonianze. La storia è ormai vecchia di un anno e stupisce che l’intelligence americana, lo stesso apparato che riusciva ad ascoltare le telefonate della Merkel e di Hollande e che è forte di 17 agenzie, 110 mila dipendenti e 60 miliardi annui di budget, in tutto questo tempo non sia ancora riuscito a trovare il cosiddetto smoking gun, la prova del delitto. Però attenzione. Cia, Nsa, Fbi, tutti coloro che hanno messo le mani nel Russiagate, non hanno mai detto che Trump abbia vinto grazie agli hacker russi, e che lui e loro fossero d’accordo. Basta leggere i rapporti, che già altre volte abbiamo linkato su Linkiesta, per accorgersene. I russi, dicono, hanno interferito. Termine abbastanza generico perché siano poi i politici e i giornalisti a fare il passo successivo.
L’accoppiata si è messa all’opera non solo su Trump. L’ammiraglio Rogers, direttore della National Security Agency (Nsa), aveva stigmatizzato il comportamento del Cremlino, colpevole di aver cercato di interferire anche con le elezioni che in Francia hanno portato Emmanuel Macron alla presidenza. Il New York Times aveva scritto articoli di fuoco contro Putin e le sue mire. Poi, qualche settimana dopo, Guillaume Poupard, direttore dell’Agenzia per la sicurezza informatica del Governo di Francia, ha detto che non v’era traccia di porcherie russe nel processo elettorale francese. Né Rogers né i giornalisti da lui imbeccati hanno sentito la necessità di correggersi o scusarsi. E va così da un anno.
Il Russiagate, dunque, non riguarda la sicurezza degli Usa. È un problema della loro politica interna. E infatti nasce politico l’estate scorsa. Il 24 luglio Debbie Wasserman Schultz, presidentessa del Partito democratico, dà le dimissioni. Il 28 Barack Obama lancia le prime accuse contro i maneggi di Mosca. Che cos’era successo? Gli hacker si erano intrufolati nei computer della Direzionale nazionale del Partito democratico e avevano passato migliaia di mail a Wikileaks. Le più interessanti, quelle che costano il posto alla Schultz, sono le mail che dimostrano che il Partito, durante le primarie democratiche, favoriva in modo spudorato la Clinton ai danni di Bernie Sanders. Poco dopo, arriva l’annuncio che i pirati informatici sono entrati anche nei server della campagna elettorale della stessa Clinton. E Obama, sempre più furioso, annuncia una grande inchiesta sulle interferenze del Cremlino.
Da allora a oggi, come dicevamo, è cambiato poco. Ogni tanto i servizi segreti dicono di avere la certezza di questo o di quello (l’hanno fatto, per esempio, un mese dopo l’insediamento del nuovo Presidente) ma di prove non ne mostrano. E anche se l’opera di sputtanamento di Donald Trump prosegue senza sosta, di novità (anzi, di notizie) sul Russiagate non ce ne sono. Si tratta, appunto, di un miraggio.
Tanto più che nessuno riesce a spiegare due strani fenomeni. Anche a pochissimi giorni dall’appuntamento elettorale, la Clinton era data da tutti in largo in vantaggio: possibile che le rivelazioni di luglio abbiano fatto effetto solo nelle ultimissime ore prima del voto effettivo? Oppure avevano fatto effetto prima e nessuno, ma proprio nessuno, se n’era accorto? Secondo fenomeno: Hillary Clinton ha preso quasi tre milioni di voti popolari più di Trump. Quindi: queste interferenze russe che effetto negativo avrebbero prodotto sul gradimento della candidata?
Sarebbe insomma giunta l’ora di trattare il Russiagate per ciò che davvero è. Dal punto di vista della sicurezza, una bufala. Dal punto di vista della politica, il tentativo di uno schieramento (democratici, funzionari leali al Partito democratico, parte del Partito repubblicano, multinazionali dell’informatica e dell’entertainment) di demolire uno dei principi cardine della democrazia no solo americana: chi vince le elezioni governa. Non siamo ancora così maturi ma ci arriveremo.
Fonte: http://www.linkiesta.it/it/article/2017/06/16/perche-il-russiagate-e-uno-scandalo-senza-prove/34616/.