di Fulvio Scaglione.
Sarà pure un neofascista-razzista-diffusore di fake news, però Steve Bannon, lo stratega della vittoria più clamorosa nella storia delle elezioni presidenziali americane, ha ragione: con il suo licenziamento è ufficialmente finita la presidenza di Donald Trump. Quella, almeno, per cui gli elettori spuntati dalla penombra dell’America profonda avevano votato: nazionalista in economia, isolazionista, attenta alle ragioni dei lavoratori, meno disposta a fare, con gli esiti che conosciamo, il gendarme (spesso non richiesto) del mondo.
Si può certamente discutere di tale apparato ideologico, negargli qualunque valore di novità, e persino considerare l’arrivo di Trump una disgrazia epocale. Siamo in democrazia, perbacco. Ed è lecito anche chiedersi se tale “presidenza Trump”, tra i pasticci del Donald, l’opposizione del Partito democratico, l’ostilità di una parte del Partito repubblicano e il boicottaggio dello Stato profondo, sia mai cominciata.
Però, se fossimo nei panni dei tanti benintenzionati che hanno scambiato Trump per il demonio e il suo arrivo sulla scena per la fine del mondo, adesso ci faremmo qualche domanda.
Alla Casa Bianca, adesso, comandano due gruppi del tutto complementari. Il primo è quello dei boss di Goldman Sachs, la banca d’affari che nel 2008 contribuì a innescare la crisi finanziaria che poi ebbe ripercussioni in tutto il mondo. Non lo dico io, lo ammise Lloyd Blankfein, all’epoca amministratore della banca, che nel 2010 ha dichiarato durante un’intervista alla Cnn: “Abbiamo contribuito allo scoppio della bolla che ha portato alla crisi, finanziando progetti immobiliari con un livello di indebitamento troppo elevato”.
Goldman Sachs era stata anche uno dei principali donatori per la campagna elettorale di Barack Obama nel 2007 e 2008, con un milione di dollari tra donazioni dirette dell’istituto e donazioni dei suoi dirigenti. Ovviamente si tratta di un caso ma nel 2010, con Obama presidente, il Dipartimento di Giustizia ritenne di non avere “basi adeguate” per perseguire per truffa la banca e i suoi dirigenti a proposito dello sfacelo finanziario del 2008, nonostante che il rapporto della speciale Commissione d’inchiesta del Congresso, presieduta dal senatore democratico Carl Levin, sostenesse esattamente il contrario.
La banca nel 2008 fu salvata da un bail out finanziato con 10 miliardi di dollari dei contribuenti americani. Ora, nella Casa Bianca del Donald Trump evirato, il Consiglio economico nazionale ha come direttore Gary Cohn, che fu il vice di Lloyd Blankfein, mentre il ministro del Tesoro è Steven Mnuchin, che di Goldman Sachs fu chief information officer. In pratica, la politica economico-finanziaria degli Usa è oggi sotto la loro tutela.
Bel colpo, no? Anche perché l’altro gruppo dominante è quello dei generali. John Kelly, già capo della Sicurezza interna, è da qualche tempo capo di gabinetto della Presidenza, e sta silurando tutti i trumpiani della prima ora come Bannon. Poi c’è James Mattis al Pentagono come ministro della Difesa. E per finire Herbert Raymond McMaster come consigliere per la Sicurezza nazionale. Per dare un’idea: era dai tempi di Richard Nixon, cioè della guerra in Vietnam, che non c’era un militare nel ruolo di capo di gabinetto.
Ecco, la domanda è: ma davvero ci sentiamo meglio ora che gli Usa sono diretti da un pugno di banchieri e di generali? Le conseguenze già si vedono. Bannon è stato cacciato dopo aver detto che l’idea di una missione militare contro la Corea del Nord era insostenibile. Cosa che tutti pensano, perché bombardare il cortile sul retro della Cina non è una grande idea, ma che forse non piaceva alla lobby militare. Poi Trump ha deciso di spedire altri 4 mila soldati Usa in Afghanistan, a proseguire un disastro che da sedici anni si perpetua senza prospettive. L’ondivago Obama prima aveva potenziato la missione, portando fino a 95 mila il numero dei soldati negli anni tra il 2010 e il 2013; poi aveva concluso il secondo mandato presidenziale con promesse di ritiro totale. La nuova Casa Bianca si rimette sulla stessa strada, come se non fosse successo niente.
Piacerebbe sapere che cosa pensano, adesso, i famosi liberal americani, quelli delle marce per la pace e il progresso. Devono essere gli unici a non capire che finanza e militari non sono ricomparsi insieme per caso ma perché da decenni, sotto l’ombrello ideologico neo-con (dove “con” sta per conservatori, anche quelli del Partito democratico), sono la testa e il braccio di un unico genere di globalizzazione, quella che fa gli interessi degli Usa e delle grandi compagnie transnazionali, e che si incarica di spianar loro la strada spianando questo o quel Paese che non risulta allineato.
Alla fine, con le manifestazioni, i cartelli e tutto l’ambaradan, questa brava gente preoccupata per le sorti della democrazia ha dato una mano affinché i finanzieri che hanno speculato e si sono poi salvati a spese dei risparmi della piccola e media borghesia e i generali di imprese come l’Afghanistan e l’Iraq potessero riprendersi tutto, ma proprio tutto il potere. Donald Trump e i suoi saranno pure stati un disastro. Ma di che cosa dovremmo essere contenti, adesso?