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Come si salva il giornalismo online?

La pubblicità non cresce e gli abbonamenti funzionano solo per i colossi. La via d’uscita passa dai micropagamenti?

Come si salva il giornalismo online?
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30 Agosto 2017 - 14.05


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di Andrea Daniele.

 

Ci sono due grosse controindicazioni nel modello di business classico del giornalismo online, quello basato solo sulla pubblicità: la prima, e più nota, è che costringe le testate a concentrarsi ossessivamente sui click, con la conseguenza di ridurre l’informazione a una sequela di video, gallerie fotografiche, articoli clickbait, gossip e quant’altro. La seconda è che questo modello si sta dimostrando fallimentare anche dal punto di vista esclusivamente economico.

La torta della pubblicità digitale si sta infatti trasformando in un duopolio in cui gli unici a guadagnare davvero sono Facebook e Google. I calcoli, come spiega Jason Kint, sono presto fatti: nel 2016 sono stati spesi negli Stati Uniti 72,5 miliardi di dollari in pubblicità online; di questi, Google se n’è accaparrati 37,6 e Facebook 14,1. Tutti gli altri operatori del settore assieme si fermano a 20,8. In percentuale, significa che i due colossi conquistano da soli il 71% di tutti gli introiti pubblicitari online.

Peggio ancora: solo loro stanno crescendo. Nel 2016 il mercato della pubblicità digitale è cresciuto, rispetto all’anno precedente, di 12,9 miliardi. L’89% di questa crescita è andata a Google e Facebook, che quindi continuano ad aumentare la loro fetta di torta. Gli altri si sono dovuti accontentare delle briciole. E la situazione rischia di peggiorare con il passare del tempo, ponendo in seria difficoltà tutte le testate che speravano di diventare economicamente sostenibili basandosi solo sulla pubblicità online.

 

 

Gli introiti della pubblicità online negli Stati Uniti: a crescere sono solo Facebook e Google, a tutti gli altri non restano che le briciole.

Non stupisce allora che, come scrive BuzzFeed, “mentre Facebook e Google continuano ad accrescere il loro potere, chiunque altro sta faticando a restare al passo. Nella primavera 2017, ESPN, Yahoo, HuffPost, Vocativ, MTV News e un numero di altre compagnie di alto profilo hanno avuto un gran numero di licenziamenti. Chi c’è dietro questo recente bagno di sangue? Il dominio di Google e Facebook”.

Il business model basato sulla pubblicità online, insomma, si sta dimostrando la via sbagliata da percorrere per le testate giornalistiche. Se il mercato non cresce, peraltro, il rischio è di vedere sempre meno fiducia nelle potenzialità a lungo termine del giornalismo di qualità e sempre più ossessione per qualunque articolo, video o gallery (prodotti da giornalisti pagati 5 euro a pezzo) che possa portare gli agognati click. E in effetti, nonostante tutte le condanne nei confronti degli articoli clickbait e le promesse di puntare sul “buon giornalismo”, basta scorrere la homepage (ancora meglio, la pagina Facebook) di una qualunque tra le principali testate italiane per rendersi conto che la situazione non sta migliorando. E come potrebbe?

La buona notizia è che gli editori potrebbero a breve essere costretti a cambiare rotta. Non fosse altro perché, ormai, anche la piattaforma che per lungo tempo ha garantito una marea di visualizzazioni (tanto per cambiare, parliamo di Facebook) sta voltando loro le spalle. Secondo quanto riporta Digiday, nei primi mesi del 2017, in seguito agli ultimi cambi di algoritmo decisi da Facebook, gli editori hanno visto l’ennesimo crollo nella reach dei loro articoli (ovvero il numero di persone che vede i post delle testate sul newsfeed). La ragione è presto detta: “Facebook sta soffocando la reach degli editori per convincerli a spendere sempre di più per promuovere i loro articoli”. È quella che altrove avevo chiamato “la strategia del pusher”: Facebook ha per anni permesso agli editori di conquistare enormi quantità di visualizzazioni; dopo averli resi interamente dipendenti dal social network, Zuckerberg ha iniziato a chiedere di essere pagato per fare quanto prima faceva gratis. E di essere pagato sempre di più.

Il circolo vizioso è micidiale: gli editori devono spendere di più su Facebook per ottenere le visualizzazioni che, attraverso la pubblicità, portano loro gli introiti. Allo stesso tempo, Facebook (assieme a Google) si mangia una fetta sempre più grande di quella pubblicità. Vista così, non sembra esserci molta scelta: bisogna cambiare rotta. Ma come?

 

Come potrebbe sperare di ottenere abbastanza abbonati chi può contare, com’è il caso dell’Italia, su una platea massima che non è di miliardi, ma di 60 milioni di persone (includendo anche i neonati e chi non legge mai nulla)?

Fino a questo momento, i modelli alternativi (o complementari) alla pubblicità sono stati sempre i soliti: gli abbonamenti a pagamento, il native advertising (gli articoli o video di approfondimento sponsorizzati da aziende) e le testate interamente sorrette da società private che vi investono (in maniera trasparente) per ragioni di brand awareness (com’è il caso de Le Macchine Volanti). Ma se queste ultime due formule sono necessariamente limitate a un certo tipo di giornalismo, le cose non sembrano andare nel migliore dei modi nemmeno per quanto riguarda gli abbonamenti.

Certo, l’esempio del New York Times e dei suoi due milioni di abbonati alla versione digitale ha ormai fatto scuola e ha ispirato parecchie testate a provare a seguire la stessa strada. Ma, appunto, parliamo del New York Times: la più prestigiosa testata al mondo che può godere di un’audience potenziale di un miliardo di persone in tutto il globo. Più che un esempio per gli altri, quello del NYT rischia di restare un caso isolato (o comunque molto raro). Come potrebbe sperare di ottenere abbastanza abbonati chi può contare, com’è il caso dell’Italia, su una platea massima che non è di miliardi, ma di 60 milioni di persone (includendo anche i neonati e chi non legge mai nulla)?

Un esempio tutto italiano è quello del Corriere della Sera, che però – dopo aver reso noto, oltre un anno fa, di aver raggiunto 30mila abbonati – non ha più diffuso dati in merito. Ma il punto più importante è un altro: siamo davvero sicuri che l’abbonamento sia la forma migliore per convincere gli utenti a ricominciare a pagare per del giornalismo di qualità? Secondo una ricerca del Reuters Institute, chi usa il web anche per informarsi attinge in media a 5 diverse fonti informative. È facile immaginare che un lettore forte – ovvero chi potrebbe essere disposto ad abbonarsi – ne legga un numero ancor maggiore. Di conseguenza, per chi è abituato a incappare in articoli di approfondimento sui social network, a cercare informazioni su Google o a ricevere le newsletter, l’abbonamento rischia di essere una formula troppo vincolante e onerosa (fatti salvi i casi di testate estremamente specializzate com’è il celebre caso di Politico Pro, destinato solo ai professionisti del settore).

 

Personalmente, ogni volta che compare il paywall che mi chiede di abbonarmi per leggere quel contenuto, la mia reazione è sempre uguale: provo ad aggirarlo in qualche modo, altrimenti mi arrendo e rinuncio alla lettura. E questo non perché non sia disposto a pagare per del buon giornalismo, ma perché generalmente leggo pochissimi articoli al mese di un vasto numero di testate italiane ed estere (magari articoli reperiti in seguito a una ricerca su Google, quindi senza sapere prima dove avrei trovato il contenuto che cercavo). Per chi si trova in questa situazione – che è la maniera più naturale di informarsi sul web – l’abbonamento è una forma che stride con la vastità di fonti a cui si è abituati ad accedere. Pago volentieri 10 euro al mese a Spotify, perché mi dà accesso a tutta la musica; nel caso del giornalismo mi si chiede di pagare la stessa cifra per accedere a una porzione microscopica dell’informazione.

Ma se nemmeno l’abbonamento può funzionare (eccezion fatta per rarissimi casi di testate prestigiose con audience globale) allora quale può essere la soluzione per rendere economicamente sostenibile il giornalismo di qualità? Il parallelismo con Spotify ci porta a investigare il caso di chi si è definito proprio lo Spotify dell’informazione: Blendle. A differenza di Spotify, però, la startup olandese – che aveva fatto scalpore nel 2015 annunciando di aver raggiunto in pochissimi mesi (in seguito a una campagna di crowdfunding) ben 250mila utenti nella sola Olanda – non chiede un abbonamento fisso mensile, ma permette ai suoi iscritti di pagare per i singoli articoli “premium”, prodotti dalle varie testate partner, cifre che vanno dai 10 ai 40 centesimi.

Dopo essere sbarcata in Germania nel 2016 e negli Stati Uniti nel marzo di quest’anno, Blendle ha raggiunto un milione di utenti. Un risultato da non sottovalutare, sebbene negli ultimi mesi si sia parlato sempre meno di Blendle e la sensazione è che l’esperimento non sia, almeno per ora, di vero successo. Eppure, quella dei micropagamenti sembra essere la via ideale: invece di vincolarsi a una sola testata, è possibile pagare una cifra assolutamente ragionevole per leggere l’articolo che si desidera.

Uno dei problemi di Blendle potrebbe essere la controintuitività della piattaforma: perché devo iscrivermi a un sito che mi chiede di pagare per leggere articoli, quando ci sono così tanti contenuti di qualità completamente gratuiti? Senza contare che Blendle diventa una piattaforma in più a cui deve accedere chi già passa una parte considerevole di tempo a guardare le newsletter a cui è iscritto, a salvarsi articoli in cui incappa su Facebook o Twitter o che trova facendo qualche ricerca su Google. Blendle rischia di diventare uno strumento in più in una situazione già decisamente sovraffollata.

Non sarebbe meglio se noi potessimo continuare a reperire informazione come facciamo oggi, ma per alcuni di questi contenuti (i più lunghi e approfonditi) ci venisse richiesto di pagare una modesta cifra? Ogni volta che una testata mi chiede di abbonarmi per leggere un articolo, lascio perdere. Ma cosa succederebbe se avessi la possibilità di proseguire nella lettura dopo aver versato 20/40 centesimi? Sono praticamente certo che accetterei, tanto più che è quasi impossibile leggere più di un longform al giorno e quindi la spesa quotidiana sarebbe veramente limitata (come si suol dire, “meno di un caffè”). In totale, si arriverebbe (al massimo) ai fatidici 9 euro al mese; ma invece che destinarli a una sola rivista, sarei libero di allocare la spesa come meglio ritengo.

 

Mille visualizzazioni portano in media tra i 7 e 15 euro in pubblicità. Con i micropagamenti fissati a, poniamo, 30 centesimi, basterebbero 50 lettori per arrivare a 15 euro. Non vale almeno la pena di fare un tentativo?

Ovviamente, alcune condizioni devono essere soddisfatte: devo aver la possibilità di pagare quasi senza rendermene conto (un po’ come avviene con il One Click di Amazon) e non devo essere costretto a inserire la mia carta di credito ogni volta che incrocio una testata nuova (rischia di essere un ulteriore barriera; ma tecnologie come Apple Pay o Satispay possono facilitare la situazione). Inoltre, mi deve essere permesso di leggere una parte consistente dell’articolo gratuitamente, in modo da essere sicuro che la spesa valga (su Foreign Affairs, per fare un esempio molto snob, la richiesta di abbonarsi arriva dopo 6 o 7 paragrafi).

I micropagamenti non andrebbero a sostituire gli introiti pubblicitari, ma ad aggiungersi a essi; dando una nuova ragione per produrre contenuti d’approfondimento più longevi delle normali news. Ma quanti soldi in più potrebbero arrivare? Per fare un calcolo spannometrico, e riferito all’Italia, ci si può affidare a quanto scritto da Anna Momigliano su Rivista Studio: “Stando ai dati che abbiamo, la Rpm, o revenue pubblicitaria per mille visualizzazioni, in Italia varia in media tra i 7 e i 15 euro. Dipende dal sito: più hai un pubblico mirato e un tuo prestigio, più sale la Rpm”.

Mille visualizzazioni portano quindi tra i 7 e 15 euro in pubblicità (fermo restando che la diffusione degli adblocker complica la situazione). Con i micropagamenti fissati a, poniamo, 30 centesimi, basterebbero 50 lettori per arrivare a 15 euro. E nonostare conquistare mille lettori disposti a pagare sarebbe più difficile (ma quanto difficile?), un articolo con questo numero di lettori genererebbe 300 euro; venti volte tanto la RPM pubblicitaria. Ovviamente, non tutti gli articoli dovrebbero essere soggetti al micropagamento, solo quelli veramente meritevoli.

Vale la pena di notare, di nuovo, che questi soldi andrebbero ad aggiungersi a quelli garantiti dalla pubblicità, non a sostituirli; anche perché la pubblicità potrebbe sempre restare nell’anteprima dell’articolo a pagamento, per poi sparire una volta che il lettore ha pagato. In questo modo, i micropagamenti si andrebbero a sommare alla pubblicità anche negli articoli premium.

Fino a questo momento, i micropagamenti sono stati usati molto raramente nel giornalismo online – il canadese Winnipeg Press, l’anno scorso, è stato il primo quotidiano online nordamericano a tentare questa strada, con buoni risultati – per cui non ci sono veramente dati per sapere se e quanto possa funzionare. Sicuramente, da solo non potrà salvare il giornalismo; ma potrebbe essere una soluzione parziale da aggiungere a un portafoglio che deve essere sempre più diversificato (newsletter personalizzate, native advertising, eventi, libri, ecc.) e che porti un po’ di respiro a un mercato che rischia di vedere gli introiti pubblicitari continuare a ridursi e le spese per la promozione su Facebook, invece, aumentare. Con l’unico risultato di restare strangolati nella morsa.

 

Fonte: https://www.lemacchinevolanti.it/approfondimenti/come-si-salva-il-giornalismo-online.
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