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Cannavacciuolo non esiste

Il programma "Cucine da incubo" non parla di cibo ma di tutti noi. [Alessandro Gilioli]

Cannavacciuolo non esiste
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18 Settembre 2017 - 08.40


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di Alessandro Gilioli

Ogni tanto a casa mia si guarda “Cucine da incubo”, quel programma in cui lo chef Cannavacciuolo va in un ristorante da schifo e lo fa diventare un posto fighissimo.

Il format è sempre uguale – sempre – senza una sbavatura.

La situazione di partenza è il caos allo stato puro. Questo è un elemento fondamentale. Non basta che al ristorante si mangi male: ci deve essere proprio – in sala, in cucina, ovunque – un pandemonio autodistruttivo fatto di odi reciproci, antiche incomprensioni, radicate rivalità, ambizioni represse, scontri generazionali, talvolta rapporti familiari degradati sul lavoro nel detestarsi l’un l’altro.

La situazione di partenza insomma è una Bosnia di rabbie e di bande armate dove letteralmente volano, oltre agli stracci, anche le padelle con quanto vi è bruciato dentro.

Attenzione: nessuno dei protagonisti, in questa bellica entropia iniziale, è felice. Nessuno. Nemmeno quello che comanda di più, che urla di più. Ciascuno è triste da solo e contro gli altri.

Poi arriva Cannavacciuolo.

La cui funzione di chef stellato – in termini psicologici – è quasi pleonastica. Sì, di solito assaggia qualche portata, dice che fa schifo e poi insegna come farla più buona, ma non è questo il punto.

Il punto è che, forte del suo carisma, della sua assertività, del suo vocione, della sua statura e del suo peso – entra come un carrarmato nelle dinamiche intime, personali e interpersonali, di ciascun membro dello staff. Diventa un badante delle nevrosi, un coach delle paure, un guru che indica la strada giusta verso l’illuminazione e l’armonia. Che, prima ancora di essere armonia gastronomica, è armonia psichica.

Il percorso è più o meno lungo, nei limiti di tempo della puntata. Ma “Cucine da incubo” non parla di cibo, se non come scusa. Parla di cura del caos. Del caos interiore, delle paure interiori, degli squilibri interiori. Di una microsocietà (lo staff del ristorante) che è lontanissima da ogni coesione, anzi che tendenzialmente si macera al suo interno. E dove la stima di se stessi è bassa e quindi alto è il conflitto con gli altri.

Poi parla di una semidivinità alta e barbuta che arriva da non si sa dove ma che rimette tutto a posto.

Tutto: dissidi, litigi, incapacità ed errori che si erano incrostati da decenni.

Demiurgo di consonanze, proporzioni ed eufonie, Cannavacciuolo trasforma il caos esistenziale in armonia compiuta e la sfiducia in ottimismo.

Così le piaghe dell’Apocalisse si trasfigurano in una Gerusalemme celeste.

Alla fine della puntata tutti lo abbracciano, qualcuno piange.

No, non parla di cibo, “Cucine da incubo”.

Parla di ciascuno di noi, dei nostri disordini interiori, delle nostre paure sociali, delle nostre aspettative disattese, dei nostri scompigli familiari, dei nostri sconforti lavorativi, insomma della merda contro cui ogni giorno lottiamo e – maledizione – dobbiamo lottare da soli, da soli, da soli: senza alcun guru piovuto dal cielo a spiegarci cos’è giusto e sbagliato, senza alcun maestro o santone a cui basta una vigorosa pacca sulle spalle per farci espettorare tutto ciò che di sbagliato abbiamo dentro, paure, depressioni, insicurezze, ansie, rabbie irrisolte.

“Cucine da incubo” ha successo perché ci illude, per un’oretta, che forse anche noi un giorno avremo un Cannavacciuolo che ci trasformerà magicamente la vita.

Invece no, non ce l’abbiamo: la trasmissione finisce, la tivù si spegne, e dal giorno dopo dobbiamo ricominciare a cavarcela da soli. E, se possibile, a migliorare da soli.

(15 settembre 2017)

 

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