di Sandro Vero
1. E se la noia – quel senso crescente di saturazione, di perdita di interesse, di assoluta prevedibilità – che si sprigiona dal contatto ripetuto, rituale con le cose della politica, nella forma precipua del dibattito televisivo, non fosse – come si è futilmente portati a pensare – l’effetto imprevisto, tardo e indiretto di un processo il cui obiettivo finale è l’accumulo di informazioni, l’accumulo di informazioni contraddittorie, l’accumulo di informazioni contraddittorie che si elidono a vicenda? Se invece fosse un effetto previsto, accarezzato, abilmente coltivato, strategicamente perseguito? Se fosse questo e potessimo subito, con certezza, trovare il motivo, proprio nella forma di un fine ultimo, di tanto affaccendarsi dei politici a costruire questa enorme, intossicante nube di noia, non potremmo già subito dopo adoperarci per cercare il suo antidoto, una pratica semplice ma efficace per recuperare una dimensione sana, costruttiva della politica?
Ora, qualunque risposta si dia a tali questioni, sembra evidente una cosa: l’esperienza – tutta contemporanea e post-moderna – della noia politica è tutt’uno con la scomparsa della dialettica (lotta) di classe dal suo dibattito, dal suo linguaggio perfino.
Stiamo dicendo, in altre parole, che poiché la politica si è trasformata in mera amministrazione e ha da tempo abdicato alla trasformazione del mondo (d’altronde non c’è alcun mondo da trasformare, essendo il nostro, questo mondo, il migliore dei possibili!), il suo discorso non poteva che diventare un noioso, risaputo calcolo combinatorio delle poche possibili varianti amministrative ammesse.
2. Dunque, si dirà, nessuna regia sovrintende il processo. Nessuna mente dirige intenzionalmente quella trasformazione. Se la noia deriva da una mutazione che la precede, come potrà mai essere considerata uno scopo, sia pure intermedio, da realizzare?
Semplicemente: si trasforma la politica in amministrazione, al fine di generare noia. Ovvero, disaffezione, estraneità, senso pervasivo di inutilità.
Si sta cioè dicendo che la noia – e i suoi corollari – è proprio ciò che serve per alimentare costantemente, inesorabilmente lo screditamento della politica. Per rendere tale screditamento una condizione naturale e non transitoria, fisiologica e non patologica. Come a dire: per privare la politica di ogni capacità di disturbo, di perturbazione dell’ordine imperante, occorre che sia trasformata in una cosa noiosa. Che sia cioè assimilata al resto dell’ordine stesso, l’ordine del mondo quale lo viviamo continuamente, che non è mai stato tanto noioso (nel senso di prevedibile, di risaputo) come lo è nella contemporaneità.
Quella sorta di cancellazione delle fratture, delle faglie, delle frizioni che il marxismo aveva preconizzato per una società senza classi, si è magicamente realizzata contro il marxismo proprio a partire dalla cancellazione del discorso sulle classi. Del discorso, appunto, poiché le classi non sono state realmente cancellate. Modificate, questo si, ma non superate. Semmai, ne è stato cambiato l’universo di senso che accoglie il concetto: oggi può esistere una classe dei consumatori dentro la quale coesistono due o più classi, mai il rovescio: in ogni classe esistente (dei precari, dei lavoratori a tempo indeterminato, degli imprenditori, e così via) non è pensabile che ci siano consumatori e non-consumatori.
3. Se la noia è un (dis-)valore perseguito, promosso dal linguaggio dei media che si confrontano con la politica, e lo è in quanto garantisce il radicamento di un contegno di estraneità e di rifiuto della politica stessa, allora occorre rivedere la gerarchia delle cose: non si dà l’ordine apparente che vuole prima la fatuità e l’inconsistenza dei politici e poi, dunque, la noia; si dà invece l’ordine nascosto, sotteso, che vede prima la necessità della noia e poi, dunque, la creazione di strutture comunicative, di spazi simbolici, che accolgano e giustifichino l’inconsistenza dei politici. Spazi (televisivi) dentro i quali l’inconsistenza è richiesta. E dove dunque ritorna come un valore.
Potremmo perfino azzardare l’affermazione che il reclutamento della classe politica segue fondamentalmente il criterio della noia: il politico di oggi deve essere capace di annoiare, di indurre questa sorta di rêverie, in cui si allenta ogni esigenza di qualità e si impone una irresistibile richiesta di medietà, rispecchiamento naturale e senza sforzo alcuno della noia che ognuno cova dentro di sé, nel rapporto con la propria medi(ocr)ità. Dopo tutto, sia pure a distanza di più di 60 anni, la Fenomenologia di Mike Bongiorno di Eco detta ancora il paradigma di ciò che la TV è chiamata a soddisfare.
4. Appare piuttosto curioso, se non addirittura contraddittorio, che a dominare la scena, nel quadro vitale del cittadino occidentale contemporaneo, siano due cose come la noia e il consumo, quest’ultimo comunemente definito come un universo pervaso dal godimento privo di limiti.
Semmai restasse qualche dubbio sulla giustezza di una simile considerazione basterà far fuoco proprio su questa ultima faccenda dei limiti.
I limiti, il sentimento che ad essi si accompagna di essere circondati da un orizzonte limitativo, sono esattamente ciò che serve per garantire il godimento. Che è sempre dato dalla dialettica mobile, scivolosa ma implacabile, fra presenza e assenza dell’oggetto. Godo una cosa, godo di una cosa in quanto c’è penuria di essa, il suo valore derivando da un’attesa che non può essere soddisfatta totalmente e indefinitamente se non annullandola come tale.
Se compro 100 libri o 100 dischi o 100 film a settimana, cosa si può pensare che ne sia della possibilità di godere? Salterò casualmente, nervosamente, noiosamente, da uno all’altro, saturo di un’offerta di stimoli esorbitante rispetto alla mia possibilità di assimilazione. Rispetto alla mia capacità di godere.
La noia è un mirabile ponte fra la politica e il consumo. Non è un caso che oggi la politica tenda sempre più a identificarsi con la televendita.