di Sandro Vero
Populista è chi populista lo fa, avrebbe detto Forrest Gump, in uno dei suoi memorabili bocconi di saggezza sub-normale. Perché realmente capita di essere populisti molto oltre il proprio dirlo degli altri.
In Italia ci si fa un punto di merito nell’indicare il populismo altrui, avendo poi gioco nel far risaltare la mancanza di quel tratto nel carattere politico della propria proposta. Ed ecco qui la posta terminologica: il populismo è il contrario della politica! Questa facendosi nel suo essere rappresentativa, mediante; l’altro riferendosi ad una presunta relazione diretta con una presunta volontà popolare.
I concetti, come si vede, sono oscuri, almeno quanto i termini impiegati. E ciò permette – non è sorprendente – un loro uso ed anche un abuso assolutamente oltre ogni possibilità di controllo.
Circola di questi tempi un post sui social network che descrive abbastanza bene la consuetudine della sinistra – vorremmo dire di una certa sinistra – di tacciare di populismo tutto ciò che prende il suo posto, che la rimpiazza, che occupa gli spazi lasciati vuoti (o riempiti male, secondo i gusti). In questa accezione il termine suona come inevitabilmente peggiorativo, svalutativo. Ma l’operazione è quanto meno sospetta: se il posto rimane vuoto è perché io l’ho lasciato vuoto, e chi poi va ad occuparlo lo farà con le modalità sue, non riducibili alle mie!
Il dibattito è interessante: prendiamo i cinque stelle, classicamente tacciati di populismo. Nessuno mette in discussione il fatto che oggi occupino spazi di dissenso, di malcontento, di sofferenza sociale che dovrebbero essere scannerizzati e rappresentati da una qualche sinistra. Qual è dunque la loro colpa, il motivo che fonda la critica svalutante implicita nel termine che li inchioda? Semplicemente: il loro modo di stare in quegli spazi, la loro narrazione, il loro progetto si propone come post-ideologico o – se vogliamo – a-ideologico. La loro interpretazione del rapporto che l’ideologia (marxista, socialista, comunista, ecc.) ha intrattenuto con quei bisogni di quegli spazi è che quel rapporto si è esaurito, si è svuotato di senso, è arrivato al capolinea.
Hanno ragione? Si. E no.
Hanno ragione perché il soggetto (o i soggetti) che quella ideologia praticava – la fantomatica, ineffabile sinistra – a partire da un certo momento e inesorabilmente quella ideologia l’ha scaricata, giungendo perfino a vergognarsene, e con essa i bisogni che l’ideologia rendeva leggibili, organizzabili, politici.
Ma chi ancora si paluda con le antiche vestigia di un tempo che fu – frullate tranquillamente dentro al mixer ex democristiani ed ex comunisti – non tollera che altri possano aver trovato la sedia vuota e essersi seduti.
Hanno torto, perché non è vero che le ideologie siano finite e rimangano solo come testimonianze storiche di un secolo invecchiato. Questa è la favola che l’unica ideologia rimasta in pista – quella del turbo-capitalismo iperliberista – ci propina. Questa è la favola che la sinistra – ignobile progenie di ciò che è stato nel ‘900 il movimento operaio e i partiti che lo hanno simbolicamente e organizzativamente rappresentato – ha fatto propria, pretendendo di sguarnire le sue postazioni ma di conservarle intatte in attesa che quelle postazioni svanissero! Il sogno lisergico di un mondo arricchito globalmente dalla libertà di mercato…
La faccenda diventa poi risibile quando l’epiteto di “populista” viene rivolto a qualcuno da una direzione che conduce alla galassia del berlusconismo. Il popolo azzurro, divenuto tale per effetto di una mirabolante trovata: calcio più politica, la politica con le sembianze del calcio, il calcio con le sembianze della politica.
Accade così che la lega non sia populista, i cinque stelle si. E questo per la gente di Forza Italia, un partito costruito interamente sui meccanismi di un feroce populismo mercantile totalmente privo di una qualsivoglia ideologia che non fosse originariamente la caccia ai comunisti (fra i quali per il grande capo si trovavano ciellini, socialdemocratici, kennediani, e chi più ne ha più ne metta).