di Carlo Formenti
La trepidazione con cui i media seguono le vicende della
direttiva europea sul copyright è ricca di risvolti ironici per chi, come il sottoscritto, in passato ha partecipato a molte battaglie contro le multinazionali dell’industria culturale, le quali pretendono di estendere al mondo della Rete le assurde regole che governano la proprietà intellettuale nei campi letterario, musicale, televisivo e cinematografico. Tanto assurde (con diritti che possono essere fatti valere fino a un secolo dalla pubblicazione di un prodotto e/o dalla morte del suo autore) che perfino intellettuali di provata fede liberista – non sospetti di ostilità nei confronti della proprietà privata – ne reclamano a gran voce l’abolizione.
Un ampio fronte di giuristi, sviluppatori di software libero, artisti, scrittori e consumatori di prodotti culturali ha dimostrato come il vero obiettivo dell’industria culturale (come quella del software proprietario) non sia garantire il giusto compenso ai lavoratori creativi (ai quali spettano sì e no le briciole del malloppo che le leggi sul copyright garantiscono alle imprese), bensì tutelare le proprie rendite monopolistiche, bloccando la libera circolazione di idee, parole e invenzioni con “enclosure” dei beni immateriali simili a quelle che permisero ai landlord inglesi dei secoli XVII e XVIII di privatizzare terre, acque, foreste e pascoli, sottraendole alle comunità locali.
A difendere i sostenitori della libera circolazione dei contenuti in Rete contro i moloch dell’industria culturale sono scesi in campo altri moloch, cioè le grandi piattaforme come Google e Facebook, i cui modelli di business si fondano sulla condivisione e circolazione sia dei contenuti creati dagli utenti sia dei prodotti culturali di cui costoro si appropriano per riciclarli sulle proprie pagine. È solo grazie alla discesa in campo di questi potentati che le ragioni dei “libertari” sono – almeno finora – riuscite a ritardare la vittoria dell’industria culturale.
Ovviamente i media, detentori di un monopolio dell’informazione minacciato dalla Rete, non potevano che schierarsi a fianco di quest’ultima. Finora, tuttavia, lo avevano fatto con una certa moderazione, per non incorrere in una stridente contraddizione, visto che svolgono anche il ruolo di megafono degli interessi dei settori capitalistici più innovativi e avanzati, per cui non possono schierarsi troppo sfacciatamente con provvedimenti che tentano di bloccare l’innovazione per tutelare gli interessi della “vecchia economia”.
Perché allora ora si agitano tanto per sostenere una norma europea che protegge gli interessi dei monopoli più retrivi? Perché la posta in palio non è solo economica: si è arricchita di pesanti risvolti politici. Scrive Massimo Gaggi sul “Corriere” del 6 luglio (dopo che la direttiva ha subito uno stop a Strasburgo): “gioiscono i leader populisti che devono alla capacità del web di amplificare l’eco dei loro slogan buona parte del successo politico raccolto”; poi ricorda ai giganti tecnologici che negli ultimi anni sono stati costretti a fare mea culpa: “per interferenze e stravolgimenti della vita politica e sociale dei quali si sono resi involontariamente responsabili” e per “aver usato con leggerezza il loro enorme potere per promuovere soluzioni sbagliate”.
Dopo il fallimento delle campagne “antipopuliste” che i media “ufficiali” – ormai ridotti a passivi portavoce del pensiero unico neoliberista – hanno condotto in occasione dell’ultima campagna presidenziale americana, del voto inglese sulla Brexit, del referendum sulla costituzione italiana del dicembre del 2016 e delle elezioni politiche vinte da Lega e M5S, e in ossequio alla tesi delirante secondo cui queste batoste non sono il prodotto della rabbia popolare contro decenni di macelleria sociale, ma di manipolazioni maturate nell’oscuro mondo di Internet (e poi prendono per il culo i teorici del complotto!), i nostri eroi corrono ai ripari per mettere il bavaglio alle “fake news” che circolano su Facebook e Twitter (questo il senso di quella parte della direttiva europea che vuole rendere le piattaforme responsabili dei contenuti pubblicati, cioè che chiede loro di farsi carico della censura di regime). Il guaio è che, quand’anche ci riuscissero, la gente non tornerà per questo a credere alle fake news dei media di regime.
(9 luglio 2018)
Link articolo: Media, copyright e censura di regime