di Paolo Bartolini
Sorprende, anche in ottimi articoli come quello di Alessandro Somma, come la questione europea venga puntualmente interpretata senza tener conto delle dinamiche poste all’interfaccia tra geopolitica e psicologia. Sì, è mia opinione che la psicopolitica sia il campo privilegiato per comprendere come il potere tecno-capitalista si riproduca.
Il dibattito Euro sì/Euro no monopolizza da alcuni anni il confronto tra coloro che, critici verso l’orizzonte neoliberale, vorrebbero immaginare i popoli europei fuori del recinto dell’austerity. Ecco, dunque, che torna in auge lo spazio nazionale come luogo principe per promuovere conflittualità sociale. Localismi e comunitarismi aggressivi riescono, da destra, a sedurre ampi strati di popolazione mediante un’operazione concertata che vede agire insieme: una retorica anticasta a forti tinte populiste (il vate Casaleggio Jr annunciava ieri la fine imminente del Parlamento come istituzione intermedia e, con essa, quella della democrazia rappresentativa tutta), una retorica antimigranti (capri espiatori buoni per tutte le occasioni), una retorica identitaria che, rifiutando gli esiti astratti della globalizzazione economica, si ripiega sul polo opposto del medesimo campo.
A sinistra è facile, come ricorda Somma, evidenziare l’ambiguità di un cosmopolitismo che, spacciandosi per nobile internazionalismo, è sfociato nell’adorazione delle spinte capitalistiche a uniformare il pianeta seguendo i principi della narrazione liberal”democratica” (si pensi all’ammirazione di sedicenti progressisti per personaggi come Clinton, Obama, Blair, ecc.). Il problema, reso ancora più chiaro dalle ultime mosse di Trump – incluso il recente attacco all’UE – è che il mondo, rimanendo comunque intatte le logiche di accumulazione economiche che lo governano, sta cambiando equilibri. Inutile che le sinistre radicali si lamentino di un ritardo di teorizzazione. Se il terreno “nazionale” viene conquistato da forze fascistoidi, xenofobe e aggressive, è perché in condizioni di chiusura, paura e spaesamento identitario, è sempre la destra a vincere. Le emozioni collettive, se non mitigate da una capacità riflessiva democratica, dallo studio e dalla messa in discussione dell’individualismo, precipitano automaticamente tra le braccia dei furbi capipopolo, dei semplificatori di massa. Quelli che, dio li scampi!, non mettono mai in discussione il tecnocapitalismo stesso, ma sempre le vittime del sistema: i poveri, gli esclusi, i marginali, i non integrati. Potremmo dire che la destra, rispetto a qualsiasi problema complesso, offre sempre una soluzione elementare e appagante, simile ai piaceri tossici che sollecitano i circuiti dopaminici nel nostro cervello. Non c’è lavoro? Colpa dei negri. Sei depresso e non trovi senso alla tua vita? Con un bel mucchio di soldi vedrai che ti passa. Non sai chi sei? Trovati un nemico. La logica brutale “stimolo-risposta” esime dal dover riflettere e riduce la complessità del reale. Consolazione da poco, ma molto gradita a chi non ama pensare.
Ecco, allora, che l’invito a disintegrare l’Unione Europea e tornare alle sovranità nazionali risulta quantomeno miope: tale movimento farebbe il gioco dell’imperialismo americano e nutrirebbe le forze reazionarie che già ingombrano il palcoscenico della politica odierna. In momenti storici di frammentazione, panico e scarsa educazione alla solidarietà, le svolte a destra sono fisiologiche. Sta già accadendo, in Europa, con il sostegno di “fini” strateghi americani (leggi: Bannon). È la situazione antropologica a consigliare di non prendere decisioni avventate. Questo, sia chiaro, non significa affatto rivendicare un riformismo debole dell’attuale architettura europea. Esso non avrebbe alcuna possibilità di sortire effetti, nel breve, medio e lungo periodo. La lotta al tecnocapitalismo (quello che, per intenderci, distrugge le condizioni di vita di italiani, europei, africani ecc.) va condotta contemporaneamente su tutti i livelli: personale, intersoggettivo, locale, regionale, nazionale, europeo, internazionale. Una sinistra capace di abbracciare opinioni e prospettive diverse, invece di lanciare anatemi, potrebbe e dovrebbe promuovere ovunque modi di vivere, accogliere e difendere il bene pubblico che siano alternativi alla falsa dicotomia Globale Vs Nazionale.
La sovranità, ai tempi dell’Antropocene (in realtà Capitalocene), non può più essere pensata senza tener conto delle interconnessioni profonde che legano l’intera umanità in un destino comune. La questione europea va letta dentro queste coordinate. Serve indubbiamente un Piano B, nell’impossibilità di trasformare l’Unione Europea dall’interno, ma un piano che maturi nella matrice transnazionale di un’alleanza mediterranea, da pensarsi non banalmente in opposizione all’Europa, ma come massima realizzazione dei valori di pace, solidarietà e dialogo che sogniamo per il continente.
Dobbiamo rivendicare identità culturali aperte, capaci di riconoscersi nel confronto con altre culture, istituendo il “comune” al posto dell’universalismo astratto. Da questa Unione Europea, insomma, non bisogna uscire a pezzetti, alimentando la regressione psicosociale su cui puntano i populismi contemporanei (e su cui punta il tecnocapitalismo come forma di governance dell’esistente). Piuttosto bisogna raccogliere forze e pensieri divergenti, riconoscendo che gli umani sono creature fragili e bisognose di connessione alla vita. Come ricorda il filosofo e psicoanalista Miguel Benasayag, è tempo di riscoprire il senso del tragico, di una continuità senza contiguità, del nostro essere umani fuori dalla gabbia dei ripiegamenti identitari e del processo di deterritorializzazione permanente messo in moto dal motore dell’economia di mercato.
Senza una svolta profonda, che sia soprattutto culturale e spirituale, finiremo dove già siamo: in due vicoli ciechi.
(24 luglio 2018)