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Questo pomodoro ti spiegherà come funziona il capitalismo

Ci voleva una strage, dodici braccianti africani morti in un incidente stradale in Puglia, per richiamare l’attenzione su condizioni di lavoro, e vita, che non sono tanto differenti dalla schiavitù. [D. De Marco]

Questo pomodoro ti spiegherà come funziona il capitalismo
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10 Agosto 2018 - 13.14


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di Dario De Marco 

 

Ci voleva una strage, dodici braccianti africani morti in un incidente stradale in Puglia, per richiamare l’attenzione su condizioni di lavoro, e vita, che non sono tanto differenti dalla schiavitù: mancano solo le catene di ferro in senso materiale (e non sempre).

Ci vuole sempre una strage, e uno è persino tentato di dire ben venga, il sacrificio di vite umane (basta che si tratti di vite che non sono la mia), se serve a far capire qualcosa, a cambiare qualcosa. Addirittura il ministro dell’ordine pubblico, che se i negretti non stanno dietro al grilletto di solito tacet, ha fatto la voce grossa, ha detto caporali ha detto sfruttamento ha detto mafia. Allora uno dice vedi, menomale, anche lui farà qualcosa di buono come quell’altro, sgomineremo il caporalato. Perché la colpa è dei caporali, no? No.

I caporali di fatto sono la penultima ruota del carro: sono quelli che provvedono alla logistica, diciamo così, in una situazione senza regole e organizzazione. Dal reclutamento per il lavoro a giornata, tutti in fila prima dell’alba tu vieni tu no (uh? Come nell’ottocento? Sì, proprio come nell’Ottocento), al trasporto per e dai campi, fino alla sistemazione per la notte, baracche a 5 stelle com’è noto. Perché non vanno ai centri per l’impiego? Magari al contrario di quello che si dice, qualche italiano che questi lavori li vuole ancora fare c’è, che ne sai, e sta iscritto al collocamento. Non ci vanno perché sanno che i proprietari delle terre offrono poco e niente, qualche euro a giornata, se non qualche centesimo a quintale, e quindi a fare la raccolta ci può andare solo chi è veramente disperato. Ah, ok. Allora la colpa è dei proprietari terrieri, no? No.

I proprietari delle terre – che sarebbe eccessivo chiamare agricoltori anche se spesso godono delle agevolazioni e delle sovvenzioni destinate ai coltivatori diretti, ma sarebbe forse ingeneroso definire latifondisti – sono costretti a cercare di pagare tutti il meno possibile, perché i loro margini di guadagno sono bassi, e si riducono sempre di più. Infatti nella maggior parte dei casi i venditori non possono stabilire i prezzi, ma li subiscono. Sembra strano ma è così, di solito chi vende una cosa la mette a un certo prezzo, ma qua è il contrario.

Dipende dalla particolare situazione: in ogni zona esistono poche, o addirittura una sola industria di trasformazione (quella che fa i pelati per capirci). Quella arriva da te e dice oggi per un quintale di pomodori non ti do più 2 euro, te ne do uno. Non ti sta bene? Non compro. E i pomodori ti marciscono in casa. In economia si chiama monopsonio, fa ridere ma è il contrario del monopolio, dove c’è un solo venditore, qua c’è un solo compratore, e può essere anche peggio. Allora, evviva, la colpa è dell’industria, no? No.

L’industria a sua volta è schiava della GDO. Se il nome non ti dice niente, sappi che è quella che ti mette in tavola il 90% delle cose che mangi. È la Grande Distribuzione Organizzata, quella che fa da intermediario tra l’industria e il venditore diretto, ovvero i supermercati e le catene. La GDO fa esattamente come fa l’industria con gli agricoltori, anzi peggio. Il meccanismo è quello delle aste, perché i venditori sono tanti e il compratore è uno: e sono aste al ribasso, o al doppio ribasso. Che senza entrare nei dettagli tecnici, già il nome fa paura. Quindi, eureka, la colpa è della GDO, no? No.

La GDO,  poverina… No aspetta, rifacciamola. La GDO sostiene che lei, poverina, non può farci niente. È il mercato che è cattivo, perché e questo che vuole la gente, dice, un po’ come dicono i direttori di palinsesto della tv spazzatura. Solo che mentre lì la qualità può essere un elemento opinabile, qui alla fine c’è una sola cosa che conta, ed è misurabile: il prezzo. Come faccio a metterti i pelati a 29 cent, quando quello è un altro poco il costo solo della lattina vuota? Come faccio a mettere il supermercato in condizione di farti l’offerta, la superofferta, il 3×2, il sottocosto? Allora, eccoci arrivati: la colpa è tua, no?

Eh no, dai. No. Non voglio mica scaricarti addosso il peso di tutto. Perché è vero, come dice Stefano Liberti su Internazionale, che “quando noi compriamo sottocosto, c’è sempre qualcun altro che quel costo lo sta pagando”. Però come faccio a darti la colpa, quando so che non arrivi a fine mese, tra il lavoretto in agenzia e la pensione d’invalidità della nonna, e l’offertona della pummarola in lattina ti risolve il problema della cena. Oppure, anche se a fine mese ci arrivi sereno, mica puoi sempre comprare dal biologico o dal contadino, è vero che la qualità si paga ma a te sinceramente quel sugo dell’ipercoop t’è sembrato buono uguale a quello del gruppo d’acquisto solidale, se non meglio. E poi uno si deve rilassare almeno quando va a fare la spesa, mica puoi sempre stare nel mood fa’ la cosa giusta.

E allora? Di chi è la colpa? Di tutti. E di nessuno. Perché è proprio così che funziona questo sistema economico. Il capitalismo non redistribuisce le ricchezze, redistribuisce le colpe. Frammenta le responsabilità, fino a ridurle in pezzettini così piccoli da essere invisibili, irrilevanti. E poi dà un pezzettino a ognuno, ognuno se lo guarda, il suo frammento, e dice, io? Ma figurati. E ha ragione. E ha torto. E ha ragione.

Di chi è la colpa? Del sistema, si sarebbe detto una volta. Ma il sistema è solo un concetto astratto, un modo di dire, una metafora, un’invenzione dei noglobal sessantottini, il Sistema non esiste, ahahaha, ciao, vado a farmi una pasta al pomodoro.

(9 agosto 2018)

 

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