Le elezioni americane, il Covid e le rivolte razziali. | Megachip
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Le elezioni americane, il Covid e le rivolte razziali.

Di norma, in un’ elezione qualsiasi conta chi ha vinto e chi ha perso, ma in queste presidenziali USA la cosa meno importante è se vincerà un candidato o l’altro. Il covid prepara tanti cambiamenti

Le elezioni americane, il Covid e le rivolte razziali.
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6 Novembre 2020 - 23.04


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di Aldo Giannuli.

Normalmente, in un’ elezione qualsiasi quello che conta è chi ha vinto e chi ha perso, ma in queste elezioni presidenziali americane la cosa meno importante è se vincerà un candidato o l’altro. Certo Trump è un orrore, ma anche se dovesse vincere quel pesce lesso di Biden, non è che ci sarebbe da mettersi a ballare. Qui quello che conta è che America sta venendo fuori da queste elezioni e questo è già chiaro come il sole.

a. un paese spaccato esattamente a metà, su precise coordinate geografiche (coste contro l’interno) con due metà che si odiano come mai nella storia del paese
b. con una corrente politica come il trumpismo che non è cosa di breve durata e che ha sostituito il vecchio partito repubblicano
c. che si avvia ad una crisi istituzionale senza precedenti e si avvia ad una conflittualità interna senza precedenti, perché segnata dallo scontro fra due integralismi che hanno travolto il tradizionale pragmatismo americano.
d. nel quale sono totalmente saltate le regole del far play istituzionale mettendo a nudo un sistema elettorale demenziale
e. un paese nel quale il Covid, prima e le rivolte razziali dopo, hanno fatto da molla alla rivincita democratica e, più in generale, alla crisi del sistema.

Il primo dato è la divisione a metà su aree geografiche abbastanza omogenee: le coste ai democratici, il centro del paese ai repubblicani (salvo qualche sporadica eccezione da un lato e dall’altro). Ma questa sommaria descrizione non rende conto della drammaticità della situazione che vede i singoli stati spaccati a metà: salvo poche eccezioni (come il Texas con il 6% o l’Ohio con l’8%), il più delle volte il differenziale fra i due è contenuto fra l’1 ed il 2% (per precipitare a meno dell’1 in Georgia) e raramente arriva al 4% (almeno stando ai risultati provvisori).

I due blocchi non sono particolarmente omogenei: fra i repubblicani c’è molto voto ispano-americano mescolato con i più fanatici sostenitori del suprematismo Wasp che di muri al conine ne vogliono due e più alti, ci sono molti agricoltori o allevatori del Kansas o del Kentuky, ma anche molti operai (o ex operai) dell’auto della rust belt; fra i democratici, ovviamente, prevalgono i liberal (la “sinistra fighetta”) di New York o San Francisco o Los Angeles, ma anche i sobborghi popolari di Philadelphia, una metà degli operai dell’auto (e dei disoccupati) di Detroit e i no global di Occupy Wall street, ma anche il fior fiore di Wall street con tutto il codazzo dei mass media.

In altri tempi (dagli anni trenta ai settanta soprattutto) i due blocchi elettorali –mai perfettamente omogenei, va detto- erano meno contraddittori e compositi. I repubblicani erano il partito delle èlites delle due coste con diverse roccheforti storiche qua e là nel centro del paese. I democratici avevano un “pezzo” storicamente progressista nel nord delle due coste, ma anche una salda maggioranza conservatrice e reazionaria nel sud, in Texas o Georgia, che si collocava a destra dei repubblicani.
Quello che teneva uniti i due blocchi erano alcuni punti decisivi: in politica estera l’isolazionismo dei repubblicani contrapposto all’interventismo dei democratici; in politica interna il big governament dei democratici, alla base del consenso tanto del nord progressista quanto del sud reazionario, attraverso il welfare state e la moderata avversione repubblicana a tutto questo. Poi la crisi fiscale dello Stato – di cui disse James O’ Connor – rimescolò le carte. Con Reagan il partito repubblicano “sfondò” nel sud, conquistando il Texas e altri stati, annettendosi quello che era stato lo spazio della destra democratica. Reagan vinse con quella che fu una “emulsione di populismo e di liberismo” (rubo l’espressione a Giovanni Orsina che l’ha coniata per Berlusconi).

Da quel momento la cultura politica dei Think Thank repubblicani fu a lungo egemone ed i democratici dovettero ripiegare. D’altra parte, sia i democratici che i repubblicani furono sostenitori del progetto di globalizzazione neo liberista a trazione statunitense. Da Reagan a Clinton a Bush padre e figlio a Obama sono stati tutti portatori di questo progetto ma i repubblicani (che non a caso ebbero 3 dei 5 presidenti avvicendatisi dal 1980 al 2016) risultarono più credibili per il loro dichiarato nazionalismo e la loro maggiore contiguità con finanza e complesso militar industriale. Nel complesso le cose filarono lisce sino al 2008, quando il sopravvenire della crisi finanziaria iniziò a mettere in discussione la globalizzazione che, con le delocalizzazioni, comportò l’imprevista crescita cinese (in anticipo di un ventennio sulle previsioni) che aveva messo in crisi l’industria dell’auto della rust belt. Ma va detto che aquesta fu anche il prodotto della nascente industria automobilistica del sud degli Usa , che grazie all’immigrazione dal Messico che ha fornito lavoratori a basso costo.

Obana si avvantagiò della crisi del 2008 ma, nel complesso, non combinò granché per contrastare la crisi come, in verità, anche in politica estera e riforme.

Il trumpismo è nato da questo cocktaill esplosivo: da un lato è stato un figlio legittimo del reaganismo e della sua emulsione di populismo e liberismo, dall’altro una novità che ha operato una rottura radicale sul tema della globalizzazione, indicata come origine di tutti i mali degli Usa. America first è stato lo slogan con cui Trump ha chiamato a raccolta sotto la sua bandiera gli operai della Pennsylvania, dell’Ohio, della Virginia, del Michigan che vedevano il loro posto di lavoro a rischio, i produttori di soia della Corn belt che non si sono sentiti abbastanza tutelati dal governo centrale sui mercati internazionali, i suprematisti che temono per l’identità americana insidiata dall’ “invasione” dei chicanos, il ceto medio di molti centri preoccupato dalla pressione fiscale. Ma soprattutto, il blocco populista, che ha spazzato via il partito repubblicano svuotandolo e conquistandolo, ha avuto come collante l’odio dichiarato e furibondo per le èlites globaliste del sistema.

Il trumpismo, da questo punto di vista, è la variante nord americana del populismo europeo e di quello brasiliano. Le forze dell’establishment, non potendo ammettere le proprie responsabilità ed i propri fallimenti, hanno letto il trumpismo come una sbandata temporanea, esattamente come Croce lesse il fascismo come una “parentesi” nella storia nazionale.

Ma né il fascismo italiano né il trumpismo americano sono stati delle parentesi, pur nelle loro diversità. E questo ha portato i democratici all’errore nella scelta del candidato preferito da Obama. Non capendo che il trumpismo aveva messo radici ed era catafratto alla propaganda nemica, anche quando il Presidente prendeva “scivolate” catastrofiche (ricordate le “endovenose di candeggina” per combattere il covid?), i democratici hanno scelto un candidato che odorava di establishment e di naftalina, preferendolo a Sanders. Era questo il candidato che avrebbe potuto essere la voce più efficace per intaccare il blocco populista di Trump. Al Partito Democratico Sanders sembrava troppo estremista, socialista, e, pertanto, potenzialmente inviso a quell’elettorato centrista che ha sempre decretato la vittoria dell’uno o dell’altro contendente: è mancata la percezione della crisi di sistema che ha svotato il centro e reso vincenti le ali. La “sinistra per bene” liberal e pseudo progressista è svantaggiata in queste situazioni, perché, se la moderazione è una virtù, il moderatismo è una idiozia.

Ma l’odio del blocco populista, che ha il volto delle milizie suprematiste e della lobby delle armi, ha provocato di riflesso l’odio altrettanto istintivo ed irrazionale dell’altro blocco, quello delle città costiere che guarda ai”cafoni” degli stati interni come all’invasione dei barbari. I populisti sono contro la globalizzazione ed odiano l’establishment, i progressisti, divisi sul tema della globalizzazione, odiano la rozzezza degli altri, nessuno mette in discussione il predominio della finanza e si preclude così, la comprensione delle ragioni dell’altro.

Trenta anni di neoliberismo hanno prodotto una spoliticizzazione di massa che induce a ridurre il conflitto politico-sociale ad una serie di pulsioni elementari come l’abbattimento del nemico. Non è un caso che questa sia l’epoca dei fondamentalismi. E dunque, un suprematista dello Utah o un finanziere di Ws non è meno fondamentalista di uno jihadista, se uno taglia il collo al “nemico” e l’altro non lo ha ancora fatto è solo perché le condizioni ambientali rendono più o meno facile il ricorso a questa pratica o dirottano l’aggressività verso altre prassi. Ormai i partiti sono stati sostituiti da aggregati tribali di etnie artificiali e questi sono conflitti nonn mediabili.

Dunque un paese spaccato a metà in due blocchi pronti ad azzannarsi e, su tutto questo, sta per abbattersi una crisi istituzionale senza precedenti Infatti non è mai accaduto che un candidato impugnasse davanti alla corte suprema i risultati elettorali: nel 2000 il candidato democratico Al Gore avrebbe avuto ottime ragioni per impugnare il voto in Florida, ma non lo fece, cosciente del fatto che questo avrebbe avuto una serie di conseguenze disastrose per il paese (crollo di immagine, conflittualità interna, destabilizzazione del dollaro ecc.), quel che, invece, non sembra sfiorare il cranio color carota di Trump che marcia come un treno verso il ricorso ed aizza la folla con l’indicazione di interrompere il conteggio.

Sarà una grana irrimediabile per i giudici dell’alta corte che, comunque la sbaglieranno: se accetteranno il ricorso di Trump l’opinione pubblica progressista li subisserà di insulti delegittimandoli e faranno passare un precedente pericolosissimo, se respingeranno il ricorso saranno accusati di ogni nefandezza dal populisti che grideranno al complotto delle èlites. In ogni caso il prestigio della Corte suprema sarà a pezzi. Il dollaro ballerà sulle montagne russe, l’incertezza regnerà sovrana sui mercati, le rispettive tifoserie si affronteranno per le strade e non sorprenderebbe se iniziassero a spararsi addosso.

Il fair play istituzionale è un ricordo, la mediazione politica è impraticabile data anche l’irrazionalità di un sistema elettorale ricco di falle normative, il pragmatismo americano è solo un ricordo.

Su tutto questo è evidente che il Covid ha fatto da detonatore e le rivolte razziali da esplosivo di rincalzo. Sino a marzo i sondaggi non davano molte chance ai democratici ed i modestissimi successi economici conseguiti sembravano spianare la strada verso la riconferma a Trump. Poi è arrivata la pandemia e, soprattutto, il modo catastrofico con cui è stata gestita (ormai gli Usa marciano come un treno verso i 10 milioni di casi ed i 300.000 morti, record mondiale assoluto). Anche il caso Floyd ha fatto da pietra di inciampo occasionale, ma ha agito su uno stato di agitazione preesistente dovuto al covid che ha colpito con ben maggiore durezza la comunità di colore, più povera e quindi meno assicurata e concentrata nei quartieri più insalubri.

Chi pensava che “non sta succedendo niente” e che la pandemia sarebbe passata come un acquazzone d’estate, non intaccando gli equilibri mondiali, è servito: questa è solo una delle conseguenze indirette di essa e, ragionevolmente, i disordini di strada produrranno nuovi picchi nei contagi. Decisamente si sta avviando la “tempesta perfetta”.

Fonte: http://www.aldogiannuli.it/approfondimento-le-elezioni-americane-il-covid-e-le-rivolte-razziali/.

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