Electrolux, il racconto di una fabbrica sotto ricatto

«La sostanza è che l’onda lunga del metodo Marchionne è arrivata, come un fulmine a ciel sereno.» [Matteo Pucciarelli]

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30 Gennaio 2014 - 19.13


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di Matteo Pucciarelli

Benvenuti alla Electrolux di Solaro, provincia di Milano, Lombardia, Polonia. Dove l’unica prospettiva, per le tute blu, è bere o affogare. Tradotto: accettare il piano dell’azienda che prevede salario più basso e ritmi più alti in catena di montaggio. Oppure rifiutare, orgogliosi, mettendo in conto che quello stipendio non lo avrai più perché la multinazionale smonta baracca e burattini e se ne va altrove, dove gli operai costano di meno.

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In questo caso, appunto, la Polonia. Un ricatto? «Tecnicamente sì, non vedo altre definizioni », dice il segretario della Fiom milanese Alberto Larghi, che a dispetto della sigla sembra il più moderato di tutti: «La vertenza sarà lunga, durerà mesi, dobbiamo essere intelligenti».

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«Blocchiamo tutto, oggi le macchine non devono uscire», provano a organizzarsi una decina di lavoratori. «Sciopero selvaggio, come ai vecchi tempi, che se continuavi a lavorare ti tiravano i bulloni in testa», avverte uno di loro. E così mentre le idee dell’azienda sono chiarissime e corrono veloci come un treno, quelle dei 950 dipendenti di questa fabbrica che produce lavastoviglie di alta gamma si perdono tra ribellismo e scoramento, tra oltranzismo e paura, tra frustrazione e speranza.

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I turni sono due, mattina e pomeriggio. Due assemblee, in entrambi i casi un’ora sola di sciopero. In mezzo alla strada di fronte ai cancelli, a discutere, a farsi spiegare cosa sta succedendo e soprattutto cosa bisogna fare.

Il piano degli svedesi coinvolge tutte e quattro le fabbriche italiane, una volta in mano a Rex, Zoppas e Zanussi: congelamento degli scatti di anzianità, sospensione del pagamento delle festività, passaggio da 74 a 90 pezzi prodotti in un’ora, da 30 minuti di pausa nell’arco delle otto ore di un turno a 20; e se non fosse abbastanza, gli altri 30 minuti della pausa mensa non più calcolati come lavoro.

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In sindacalese la chiamano “saturazione totale dei tempi”. Non che finora ci fossero tempi morti: ti scappa la pipì? Fischi al “jolly” (si chiama proprio così) e ti tappa il buco in catena, ma mica te la puoi prendere comoda. «Diventai comunista anni fa quando mi scappò per la seconda volta nel giro di pochi minuti e il mio superiore non mi diede il permesso», racconta amaro eperò divertito uno di loro. La sostanza è che l’onda lunga del metodo Marchionne è arrivata, come un fulmine a ciel sereno. E pazienza se alla fine Solaro non è in perdita, se grazie agli accordi con Ikea per le lavastoviglie da incasso il mercato tira ancora: altrove braccia e gambe li paghi quasi la metà, è sempre quello il punto. E pazienza se i padroni sono scandinavi, «quelli sono socialdemocratici ma solo a casa loro», è la sintesi di Claudio, 47 anni, assunto oltre venti anni fa.

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«Prendere o lasciare? Ma che se ne vadano pure, non ci piegheremo mai», promette Leonardo, 35 anni e un mutuo da 700 euro sulle spalle. «Per 20 euro al mese in più non ricordo neanche io quante ore di sciopero abbiamo fatto, e dall’oggi al domani arrivano e ce ne levano dieci volte tanto?», urla un altro operaio contro i sindacalisti, poi prende e si allontana inveendo.

Raffaella La Penna, delegata Fiom, legge l’ordine del giorno: prevede un pacchetto di 20 ore complessive di sciopero, da distribuire, «a macchia di leopardo fanno più male». Tutti votano sì per alzata di mano; «la presidenza del Consiglio deve garantire un impegno in prima persona…», continua la lettura del documento, e partono i fischi. Quasi che il nemico non sia la multinazionale, ma i politici tutti, da destra e da sinistra, perché «qui la crisi la paghiamo solo noi, mentre loro mangiano alle nostre spalle», si lamentano un gruppo di operaie.

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Altri propongono di scioperare tutto il giorno, e anche domani, e anche dopodomani. «Andiamo a prendere quelli che sono dentro», si offre qualcuno. «Guardate che non lo reggiamo uno sciopero a oltranza, duriamo due giorni e fine delle cartucce», prova a calmarmi Larghi. E così scattano le liti tra compagni («Zitto tu che l’altra volta sei andato a lavorare come tutti»; «e allora ditelo che non volete andare contro l’azienda »; «però gli straordinari vi piace farli, eh», e via così, film visti mille volte in mille luoghi di lavoro diversi). Arrivano due sindaci, di Solaro e di Limbiate, «vi siamo vicini ma non dovete dividervi».

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Circolano due numeri da queste parti e suonano come una condanna: il 40 per cento del lavoratori ha fatto la cessione del quinto dello stipendio; mentre la metà ha già avuto un anticipo del Tfr. O bere o affogare, ancora. Come se la storia fosse già scritta: sarà battaglia sì, però di retroguardia. L’ora di assemblea finisce e tutti rientrano, le velleità barricadere sembrano svanite.

«Lavorate ma con ritmi minori, mica ve lo devo spiegare io», suggerisce un sindacalista. «Sì e poi mi arrivano le lettere perché non produco abbastanza…», risponde uno dei più esagitati. «Ma come, volevi fare la rivoluzione e poi hai paura di una lettera?». E invece alla fine vincono i duri: corteo interno, caos, produzione bloccata e direzione che alle 19 mette in libertà i lavoratori. «Possiamo anche perdere — si felicitano dal Cub, il sindacato di base — ma la dignità ce la teniamo stretta».

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L’articolo è stato pubblicato sull’edizione di “Repubblica” del 29 gennaio 2014 (edizione di Milano).

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(29 gennaio 2014)

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