Il secolo del lavoro inutile

«Se qualcuno avesse progettato un sistema del lavoro fatto su misura per salvaguardare il potere del capitale, non avrebbe potuto riuscirci meglio». [David Graeber]

Il secolo del lavoro inutile
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12 Luglio 2014 - 19.20


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di David Graeber

Se qualcuno avesse progettato un sistema del lavoro fatto su misura per salvaguardare il potere del capitale, non avrebbe potuto riuscirci meglio. I lavoratori veri, quelli produttivi, vengono spremuti e sfruttati implacabilmente. Gli altri si dividono tra un atterrito strato di disoccupati, disprezzato da tutti, e un più ampio strato di persone che in pratica vengono pagate per non fare nulla, e che ricoprono incarichi progettati per farle identificare con i punti di vista e le sensibilità della classe dirigente (manager, amministratori eccetera) – in particolare con le loro personificazioni economiche – ma che al tempo stesso covano un segreto rancore nei confronti di chiunque faccia un lavoro provvisto di un chiaro e innegabile valore sociale. (dg)

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Nel 1930, John Maynard Keynes prevedeva che entro la fine del secolo la tecnologia sarebbe progredita abbastanza da permettere a paesi come il Regno Unito o gli Stati Uniti di approdare alla settimana lavorativa di quindici ore. Aveva ragione: in termini di tecnologia, saremmo perfettamente in grado di riuscirci. Eppure non è ancora successo. Anzi, semmai la tecnologia è stata arruolata per inventare nuovi modi di farci lavorare tutti di più. A tale scopo sono stati creati lavori che sono di fatto inutili. Enormi schiere di persone, soprattutto in Europa e Nordamerica, trascorrono tutta la loro vita professionale eseguendo compiti che segretamente ritengono inutili.

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I danni morali e spirituali che derivano da questa situazione sono profondi. È una cicatrice sulla nostra coscienza collettiva. Eppure non ne parla praticamente nessuno. Perché l’utopia promessa da Keynes non si è mai materializzata? La spiegazione standard è che Keynes non aveva preventivato la mole dell’incremento del consumismo. Messi davanti alla scelta tra meno ore di lavoro e più giocattoli e piaceri, abbiamo collettivamente scelto i secondi. Il che porterebbe con sé anche una morale simpatica, non fosse che basta riflettere un attimo per capire che non può essere così.

È vero, dagli anni venti in poi abbiamo assistito alla creazione di un’infinità di nuovi lavori e industrie, ma sono pochissimi quelli che hanno a che vedere con la produzione e la distribuzione di sushi, iPhone o scarpe da ginnastica costose. Allora cosa sono esattamente questi nuovi lavori? Un recente studio che confronta l’occupazione negli Stati Uniti tra il 1910 e il 2000 ci fornisce un’immagine chiara.

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Durante il secolo scorso, il numero di lavoratori impiegati come domestici, nel settore industriale e in quello agricolo è crollato. Parallelamente, “le libere professioni, i lavori dirigenziali, d’ufficio, di vendita e di servizio” sono triplicati, passando da un quarto degli impieghi complessivi a tre quarti. In altre parole, i lavori produttivi, esattamente come previsto, sono stati in gran parte sostituiti dall’automazione (anche calcolando il numero di lavoratori industriali a livello mondiale, comprese le masse che sgobbano in India e in Cina, questi lavoratori non rappresentano neppure alla lontana la stessa percentuale di popolazione mondiale di una volta).

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Ma anziché consentire una significativa riduzione delle ore di lavoro per rendere la popolazione mondiale libera di dedicarsi ai propri progetti, piaceri e idee, abbiamo assistito all’esplosione non tanto del settore dei “servizi”, quanto di quello amministrativo, arrivando a comprendere la creazione di intere nuove industrie come quella dei servizi finanziari o del telemarketing, o l’espansione senza precedenti di settori come quello giuridico-aziendale, accademico, della amministrazione sanitaria, delle risorse umane e delle pubbliche relazioni.

E questi numeri non comprendono tutte quelle persone che per lavoro forniscono a queste industrie assistenza amministrativa, tecnica o relativa alla sicurezza, né – se è per questo – l’esercito di attività secondarie (come i toelettatori di cani o i fattorini che consegnano pizze tutta la notte) che esistono soltanto perché le altre persone passano tanto tempo a lavorare in tutte le altre. Sono mestieri che propongo di definire “lavori stupidi”.

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È come se esistesse qualcuno che inventa lavori inutili solo per farci continuare a lavorare. E proprio qui sta il mistero: nel capitalismo, questo è esattamente quel che non dovrebbe succedere. Certo, nei vecchi stati socialisti inefficienti come l’Unione Sovietica, dove il lavoro era considerato insieme un diritto e un sacro dovere, il sistema si occupava di inventare tutti i lavori necessari (ecco perché nei grandi magazzini sovietici ci volevano tre commessi per vendere un pezzo di carne). Ma questo, naturalmente, è proprio il genere di problema che la concorrenza di mercato dovrebbe correggere. Secondo le teorie economiche, perlomeno, l’ultima cosa che deve fare un’azienda desiderosa di profitti è sborsare soldi a lavoratori di cui non ha davvero bisogno. Eppure, non si sa perché, succede lo stesso.

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È vero, le grandi aziende operano spesso tagli spietati, ma licenziamenti e prepensionamenti colpiscono immancabilmente la classe delle persone che fabbricano, spostano, riparano e mantengono in funzione le cose. Per una strana alchimia che nessuno sa davvero spiegare, ultimamente il numero di passacarte salariati sembra aumentare, e sempre più lavoratori dipendenti si ritrovano, un po’ come i sovietici di una volta, a lavorare in teoria quaranta se non cinquanta ore alla settimana, ma lavorandone di fatto quindici proprio come previsto da Keynes, perché il resto del loro tempo serve per organizzare o partecipare a seminari motivazionali, aggiornare i profili facebook o scaricare roba.

Chiaramente la spiegazione non è economica: è morale e politica. La classe dirigente si è resa conto che una popolazione felice, produttiva e con del tempo libero a disposizione è un pericolo mortale (pensate a quel che è cominciato a succedere quando negli anni sessanta ci si è avvicinati a una vaga approssimazione di questa cosa). E d’altra parte, l’idea che il lavoro sia un valore morale in sé, e che chiunque non desideri sottomettersi a un’intensa disciplina lavorativa per la maggior parte delle sue ore di veglia non meriti niente, torna straordinariamente comoda a molti.

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Una volta, riflettendo sulla crescita apparentemente infinita degli incarichi amministrativi nei dipartimenti accademici britannici, mi è venuta in mente una possibile visione dell’inferno. L’inferno è un insieme di individui che passano il loro tempo a svolgere un compito che non amano e nel quale non sono particolarmente bravi. Per esempio, sono stati assunti perché bravissimi a fabbricare mobili, dopodiché scoprono di dover passare un sacco di tempo a friggere pesce. E nemmeno quello è un compito necessario: c’è solo un certo numero molto limitato di pesci che vanno fritti. Eppure tutti questi individui sono così ossessionati dall’idea che qualche collega possa passare più tempo di loro a fabbricare mobili, senza sobbarcarsi la sua quota di dovere nella frittura del pesce, che presto nel laboratorio si accumulano innumerevoli montagne di pesce inutile e mal cotto, e nessuno fa nient’altro.

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A dire il vero, questa mi sembra una descrizione piuttosto precisa delle dinamiche morali che governano la nostra economia.

Mi rendo conto che simili argomenti possono suscitare alcune obiezioni, tipo: “Chi sei tu per stabilire quali lavori siano necessari? Ma poi cosa vuol dire necessario? Tu che insegni antropologia, che necessità soddisfi?” (in effetti un sacco di persone considererebbero l’esistenza del mio lavoro come la definizione stessa di “spesa sociale inutile”). Da un certo punto di vista, questo è ovviamente vero. Non esiste un modo per misurare oggettivamente il valore sociale.

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Non avrei mai la presunzione di dire a una persona convinta di dare un contributo importante al mondo che, sotto sotto, non lo dà. Ma come la mettiamo con le persone convinte di fare un lavoro stupido?

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Qualche tempo fa ho riallacciato i contatti con un compagno di scuola che non vedevo da quando avevamo dodici anni. Mi ha sbalordito scoprire che nel frattempo lui era diventato prima un poeta, poi il cantante di un gruppo rock alternativo. Avevo sentito alcune sue canzoni, senza avere la minima idea di conoscere il cantante. È chiaramente una persona brillante, innovativa, il cui lavoro ha indiscutibilmente ravvivato e migliorato la vita di tante persone in tutto il mondo. Ciò nonostante, dopo un paio di album andati male, ha perso il suo contratto discografico e, sommerso dai debiti e con una figlia appena nata, ha finito, sono parole sue, per “imboccare la strada che sceglie in automatico tanta gente che non sa dove andare: la facoltà di giurisprudenza”. Oggi lavora come avvocato aziendale per un importante studio di New York. Lui per primo ammette di fare un lavoro del tutto privo di senso, che non fornisce nessun contributo al mondo e che, secondo lui, in realtà non dovrebbe esistere.

A questo punto ci si potrebbero fare tante domande, cominciando da: che cosa dice della nostra società il fatto che riesca a generare una domanda estremamente limitata di poeti-musicisti talentuosi, a fronte di una domanda apparentemente infinita di specialisti in diritto aziendale? (Risposta: se la maggior parte della ricchezza disponibile la controlla l’1 per cento della popolazione, allora quello che definiamo “mercato” riletterà ciò che loro, e nessun altro, considerano utile o importante). Ma ancor di più dimostra che di solito chi fa questi lavori alla in fine si rende conto che sono stupidi. Anzi, credo di non aver mai conosciuto un avvocato aziendale che non pensasse di fare un lavoro stupido. Lo stesso vale per quasi tutte le nuove industrie descritte poco sopra.

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Esiste un’intera classe di lavoratori salariati che, se li incontri a una festa e ammetti di fare un mestiere considerato interessante (l’antropologo, per esempio), si rifiuta anche soltanto di dirti che lavoro fa. Fategli bere due o tre drink, e si lanceranno in vere e proprie tirate su quanto inutile e stupido sia in realtà il loro lavoro.

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Stiamo parlando di una violenza psicologica profonda. Come si può anche solo cominciare a parlare di dignità del lavoro, quando in cuor suo una persona ritiene che il proprio lavoro non debba esistere? Come può un fatto del genere non creare una rabbia e un risentimento profondi?

Tuttavia, il talento tutto particolare della nostra società sta nel fatto che i suoi governanti hanno escogitato un modo, come nel caso dei friggitori di pesce, per garantire che questa rabbia venga indirizzata contro chi invece fa un lavoro sensato. Per esempio: nella nostra società sembra vigere una regola generale per cui più il lavoro di un individuo giova palesemente ad altre persone, minori sono le probabilità che questo lavoro venga pagato.

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Ripeto, è difficile individuare un parametro di misurazione oggettivo, ma per farsi un’idea basta semplicemente chiedersi: che succederebbe se quest’intera classe di persone scomparisse? Dite quel che volete di infermieri, spazzini e meccanici: è palese che, se dovessero sparire in una nuvola di fumo, gli effetti sarebbero immediati e catastrofici. Un mondo senza insegnanti e scaricatori di porto finirebbe presto nei guai, e anche un mondo senza scrittori di fantascienza o musicisti ska sarebbe evidentemente peggiore.

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Non è però del tutto chiaro in che modo l’umanità soffrirebbe se dovessero svanire allo stesso modo tutti gli amministratori delegati di società d’investimenti, i lobbisti, gli addetti alle pubbliche relazioni, gli analisti assicurativi, i lavoratori del telemarketing, gli ufficiali giudiziari o i consulenti legali (molti sospettano che potrebbe significativamente migliorare). Eppure, fatta salva una manciata di stimatissime eccezioni (i medici), la regola resiste sorprendentemente bene.

Cosa ancor più perversa, sembra circolare la diffusa convinzione che sia giusto così. Ecco qual è uno dei punti di forza segreti dei populisti di destra. Lo si vede quando fomentano il rancore contro i dipendenti della metropolitana che paralizzano Londra per il rinnovo del contratto: il fatto stesso che i dipendenti della metropolitana siano in grado di paralizzare Londra è la riprova che il loro lavoro è necessario, ma a infastidire la gente sembra sia proprio questo.

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È ancora più evidente negli Stati Uniti, dove i repubblicani stanno riuscendo con molto successo a mobilitare il risentimento contro gli insegnanti o contro gli operai dell’industria dell’automobile (e non, dettaglio significativo, contro chi amministra le scuole o contro i dirigenti che creano i problemi) a causa di stipendi e benefit che sembrano eccessivi. È come se gli stessero dicendo: “Ma voi insegnate ai bambini! O costruite le macchine! Fate dei lavori veri! E avete anche la faccia tosta di aspettarvi delle pensioni e un’assistenza sanitaria da classe media?”.

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Se qualcuno avesse progettato un sistema del lavoro fatto su misura per salvaguardare il potere del capitale, non avrebbe potuto riuscirci meglio. I lavoratori veri, quelli produttivi, vengono spremuti e sfruttati implacabilmente. Gli altri si dividono tra un atterrito strato di disoccupati, disprezzato da tutti, e un più ampio strato di persone che in pratica vengono pagate per non fare nulla, e che ricoprono incarichi progettati per farle identificare con i punti di vista e le sensibilità della classe dirigente (manager, amministratori eccetera) – in particolare con le loro personificazioni economiche – ma che al tempo stesso covano un segreto rancore nei confronti di chiunque faccia un lavoro provvisto di un chiaro e innegabile valore sociale.

Non è un sistema progettato in modo conscio: è emerso da quasi un secolo di tentativi empirici. Ma è anche l’unica spiegazione del perché, nonostante le nostre capacità tecnologiche, non lavoriamo tutti quanti solo tre o quattro ore al giorno.

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(11 luglio 2014)

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Pubblicato originariamente su [url”Internazionale”]http://www.internazionale.it/[/url], n. 1023, 25-31 ottobre 2013.

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