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Il crowdsourcing e l’uomo digitale: siamo esseri umani, non algoritmi. [Domenico Tambasco]

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17 Agosto 2015 - 18.52


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di Domenico Tambasco*

La “fine del lavoro” profetizzata alcuni anni orsono in un celebre libro di Jeremy Rifkin[1] non sembra così lontana, se solo si pensa alla “tenaglia tecnologica” che stringe sempre più da vicino il lavoro umano individuale. Una stretta operata da un lato dai progressi esponenziali dell’intelligenza artificiale, che va freneticamente sostituendo i lavori manuali ed intellettuali di natura ripetitiva (si pensi, ad esempio, alle operazioni di cassa delle banche o dei supermercati, ormai gestite da apparecchi completamente automatizzati) e dall’altro dall’emersione – attraverso le tecniche di connessione via web – dell’intelligenza umana collettiva, con funzione sostitutiva delle professioni e dei lavori intellettuali di natura non routinaria[2].

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Ed è proprio dalla creazione tecnica di una sconfinata rete globale in cui si alimenta e si produce l’intelligenza umana collettiva che sono nate, per gemmazione naturale, la società del “Commons collaborativo”[3] e la “Crowdeconomy”, rispettivamente società ed economia della condivisione, nuovo modello socio-economico di cui il “Crowdsourcing” sembra essere, nell’ambito delle attività produttive, la più piena ed espressiva applicazione.

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Allo scopo di comprendere il significato di questo inedito e rivoluzionario fenomeno sarà utile porre mente sia all’etimologia (composto da crowd – folla – e outsourcing – esternalizzazione) sia alla definizione data dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali in un interpello del 2013, secondo cui “con tale locuzione si intende individuare un nuovo modello di business aziendale in forza del quale un’impresa affida la progettazione, ovvero la realizzazione di un determinato bene immateriale ad un insieme indefinito di persone, tra le quali possono essere annoverati volontari, intenditori del settore e freelance, interessati ad offrire i propri servizi sul mercato globale (cd. Community di utenti iscritti ai siti a titolo gratuito)”[4]. A differenza del tradizionale outsourcing, infatti, la realizzazione del progetto o la soluzione del problema viene esternalizzata ad un gruppo indeterminato di persone e non, invece, ad uno specifico soggetto (come avviene appunto nell’outsourcing).

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Riguardata in controluce, la struttura del crowdsourcing si articola in quattro fasi scandite cronologicamente:

– quella della proposta o brief coincidente con la pubblicazione, su un portale on line, della richiesta svolta dal committente – aziende private o enti pubblici – avente ad oggetto la risoluzione di problemi sia elementari che complessi, proposta avente una data di scadenza e di norma rivolta all’intera comunità del web;

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– quella della gara o “contest”, in cui tutti i partecipanti alla richiesta del proponente (cosiddetti freelancers o workers) si confrontano al fine di realizzare un lavoro che più si avvicini al gradimento del committente;

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– quella della scelta tra un solo “vincitore” e il resto dei “perdenti” effettuata discrezionalmente dal committente dopo aver valutato tutti i lavori presentati dai freelancers partecipanti al contest;

– quella dell’assegnazione del “premio” al vincitore, ovvero di una somma di denaro unilateralmente definita dal committente prima del contest, che rappresenta il “compenso” per l’attività svolta dal “vincitore”;

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Si tratta di una nuova forma di lavoro? Non secondo il giudizio del Ministero del Lavoro, che nello stesso interpello lo ha collocato alternativamente nell’alveo sia del contratto di compravendita sia del contratto di appalto.

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Di “lavoro precario”, invece, si parla in recenti contributi in cui il “crowdsourcing”, significativamente ribattezzato “crowdwork” o “crowdlabour”, è equiparato ad una sorta di “cottimo digitale”, “forma definitiva di precariato nella quale i lavoratori sono puri postulanti, privi di diritti o sicurezza”[5].

Molteplici sono le forme in cui si concretizza il crowdsourcing, dissolto nella liquida modernità della rete: così, in relazione alla fase del “contest”, possiamo avere una forma “pura” allorché la scelta dell’azienda committente sia operata tra una pluralità di progetti già realizzati dai “workers” (è il caso del portale Zooppa); al contrario, laddove la scelta sia rivolta alla persona del proponente (che solo successivamente alla scelta realizzerà il lavoro richiesto dal committente), possiamo parlare di forma “spuria” (è l’esempio dei portali Freelancer.com e Twago).

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Se si considera, invece, il profilo dei workers, possiamo distinguere forme in cui chi vince prende tutto (secondo il classico schema del winner takes all) o modelli in cui è stanziato un “montepremi” suddiviso a seconda dell’ordine di premiazione. Nella prospettiva, invece, dell’attività oggetto del crowdsourcing possiamo distinguere tipologie in cui è richiesta la realizzazione di un’attività con competenze elementari (ad esempio lavori quali la “sbobinatura” di un file video o audio, oppure la ricerca delle mail di una lista di aziende, richieste spesso presenti sul sito di Amazon Mechanical Turk) e altre in cui, di contro, le competenze richieste sono particolarmente qualificate (progetti di ingegneria o di architettura, campagne pubblicitarie, realizzazione di video o di brand, pareri legali, traduzioni).

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In questo mare magnum, infine, non potevano mancare modalità di realizzazione aperte a tutti e altre, al contrario, aperte solo a specifiche professionalità o competenze: distinzione, quest’ultima, che spesso rispecchia e segue la faglia delle tipologie di attività svolte (attività elementari aperte a tutti e attività complesse aperte a specifiche professionalità).

L’aspetto sorprendente del crowdsourcing è tuttavia il suo rapido ed incessante sviluppo a “macchia d’olio”: nato nei Paesi delle economie emergenti (in particolare India, Filippine e Bangladesh dove l’azienda leader di mercato, ODesk, ha contrattualizzato milioni di ore di lavoro), notevolmente sviluppatosi anche negli Usa, è recentemente sbarcato –seppure in ritardo – anche in Europa. In Italia, in particolare, sia i grandi marchi dell’imprenditoria italiana sia gli Enti pubblici (tra cui i Comuni di Como, di Firenze ed il Ministero del Lavoro) hanno recentemente appaltato alla “comunità liquida” la definizione delle proprie campagne pubblicitarie o l’individuazione di uno specifico brand o logo pubblicitario.

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Si tratta dunque di un fenomeno profondamente innovativo, che ha operato un vero e proprio ribaltamento dei classici paradigmi negoziali, soprattutto sotto due differenti profili.

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In primo luogo, si altera il tradizionale rapporto committente/professionista, dal classico schema fiduciario in cui il professionista viene scelto ex ante per le proprie qualità soggettive ed in particolare per la propria capacità di scegliere, “ritagliare” e realizzare ex post la soluzione più adeguata alle esigenze del cliente sulla base delle proprie competenze tecniche, allo schema in cui è il committente a scegliere ex post il professionista tra una pluralità di opere già realizzate ex ante da diversi freelancers in competizione tra loro, scelta operata dal committente sulla base di una presunta ed asserita competenza che, tuttavia, di tecnico ha ben poco[6].

In secondo luogo – ed è questo l’aspetto davvero rivoluzionario del crowdsourcing – si compie il salto dallo schema giuridico del rapporto contrattuale di lavoro caratterizzato dalla trattativa tra una pluralità di proposte (in cui committente e possibili prestatori negoziano la modalità di realizzazione della prestazione e la sua remunerazione), dall’ accordo tra la volontà del committente e quella del professionista prescelto e dal successivo scambio prestazione versus remunerazione ad un modello che ben può definirsi “ludico”[7] (simbolo della “Jakpot Economy”).

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Tale nuovo punto di approdo, connotato dall’elemento della gara o dell’“agone”, si differenzia – come abbiamo visto – per la presenza di una pluralità di “partecipanti” che gareggiano e si confrontano nell’esercizio delle proprie energie lavorative affinché, al termine dell’agone, venga nominato uno ed un solo vincitore che acquisirà, a scapito di tutti gli altri, un premio (ben diverso dal prezzo del contratto di scambio) determinato unilateralmente ed arbitrariamente nel suo importo dal committente. Da un lato stanno la “trattativa”, il “contratto”, l’“accordo”, il “lavoro”, la “retribuzione”, lo “scambio”, parole chiave dell’uomo moderno; dall’altro dominano la “competizione”, il “rischio”, l’“agone”, l’“impegno”, la “vittoria”, il “premio”, parole d’ordine dell’homo novus postmoderno, che ormai naviga negli sconfinati oceani della rete digitale.

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Eppure, se si raschia la patina di modernità linguistica che ogni nuova esperienza porta con sé, l’esame in controluce dei profili giuridici del fenomeno evidenzia qualcosa di ben più antico e conosciuto.

In fondo, anche la natura “ludica” del crowdsourcing cela il sostrato giuridico degli “scambi senza accordo” individuati da un’acuta dottrina nella definizione degli schemi negoziali moderni[8] (che seguono la linea che va dal logos – espresso accordo fondato sulle parole – al poiein – tacita adesione fattuale – all’agon – tacita adesione attraverso la competizione).

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Ma vi è di più. L’oggetto di tale tipo negoziale, l’energia lavorativa, è inquadrabile più nell’ambito del Job (lavoro spezzettato, segmentato, privo di continuità e di prospettive di carriera) che in quello del work (lavoro continuativo, sinonimo di carriera) rendendo tale fenomeno definibile, seguendo una nota distinzione sociologica[9], più con il pregnante termine di crowdjob che con quello di crowdsourcing o crowdwork.

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Rilievo, questo, che ci riporta nei territori delle forme estreme di precarietà lavorativa, caratterizzati dall’iniezione del job nel “genoma ludico” del crowdsourcing; manipolazione genetica da cui si innesca il “cortocircuito” costituito dalla sostituzione della classica equazione lavoro/salario con l’inedito e sconvolgente nesso lavoro/premio: la remunerazione si trasforma, nelle postmoderna civiltà del lavoro digitale, in un premio che bisogna meritarsi.

Ecco spiegati i motivi del profondo disorientamento che affligge gli osservatori tradizionali alle prese con questo inedito fenomeno: sul campo residuano molteplici frammenti di job privi di salario o con “premi” inadeguati ad attuare il diritto costituzionalmente protetto ad una “retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa” (art. 36 Cost.).

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La grande frontiera che si staglia all’orizzonte, dunque, ci sprona ad impedire che una grande conquista nella storia dell’umanità (la creazione e la diffusione condivisa del sapere in un’unica rete globale di intelligenza collettiva a costo marginale zero) si trasformi, nella sua declinazione economica, in un grande incubo collettivo che ignora l’allarmata invocazione di innumerevoli workers, i quali ricordano alla comunità che “Siamo esseri umani, non algoritmi”[10].

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(29 luglio 2015)

* da Extra Moenia, quaderno n. 7/2015 “Nel territorio del digitale”, pubblicato con licenza Creative Commons.

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NOTE

[1] J. Rifkin, La fine del lavoro, Milano, Mondadori, ed. 2002.

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[2] Si veda E. Brynjolfsson – A. Mc Afee, La nuova rivoluzione delle macchine, Milano, Feltrinelli, 2015, pp. 99-106.

[3] J. Rifkin, La società a costo marginale zero, Milano, Mondadori, 2014.

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[4] Ministero del Lavoro, interpello n. 12 del 27 marzo 2013.

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[5] G. Standing, Diventare cittadini-Un manifesto del precariato, Milano, Feltrinelli, 2015, p. 69. Di “utili idioti convocati per ammorbidire la durezza del capitalismo globale” parla Carlo Formenti nel suo saggio “Felici e sfruttati – Capitalismo digitale ed eclissi del lavoro”, Milano, Egea, 2011, p. 59.

[6] Dario Banfi, The crowd is the King (or his fool)?, pubblicato in Humanitech.it il 21 novembre 2011.

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[7] Sul nesso tra gioco e gara, si rimanda all’ormai classico saggio di Johan Huizinga, Homo ludens, Torino, Einaudi, ed. 1973, pp. 55 e ss.

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[8] N. Irti, Norma e luoghi – problemi di geo-diritto, Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. 165-188.

[9] R. Sennet, L’uomo flessibile, Milano, Feltrinelli, ed. 2010, p. 9.

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[10] The Guardian, “Amazon’s Mechanical Turk workers protest: ‘I am a human being, not an algorithm”, articolo del 3 dicembre 2014.

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