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Chi controlla i controllori?

Norbert Wiener, fondatore della nuova scienza cibernetica, passò la vita ad ammonire che per usare e non esser usati dalla scienza del controllo, occorreva averne il controllo.

Chi  controlla i controllori?
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22 Marzo 2017 - 15.32


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di Pierluigi Fagan

La nuova rivoluzione industriale è quindi
una spada a doppio taglio. Essa può essere usata per il benessere
dell’umanità […]. Ma se noi continueremo a muoverci sui binari liberi ed
ovvi del nostro comportamento tradizionale, e a seguire il nostro
tradizionale culto del progresso e della quinta libertà – la libertà di
sfruttare – è certo che dovremmo  aspettarci un decennio ed anche più di
rovina e disperazione.

N. Wiener, 1950[1]

Tema caldo, di recente lanciato e
rilanciato, è la prossima catastrofe nell’ambito del lavoro determinata
dall’erosione della funzione umana da parte delle macchine. La retorica
tecno-futurista induce a pensare che l’intelligenza artificiale stia per
replicare l’umano ma piuttosto che replicare le funzioni superiori 
sono invece quelle inferiori, il calcolo, la elaborazione dei dati, la
sequenza lineare di if…than ad essere replicate e visto che le
macchine non hanno disturbi emotivi o limiti biologici, le svolgeranno
senz’altro meglio degli umani stessi. Potremmo allora dire che più che
scoprire quanto intelligenti stanno diventando le macchine, stiamo
verificando quanto ancora è stupida ed alienante la routine di molti
lavori umani.  Senz’altro però, questa componente routinaria ed
esecutiva che compone ancora la totalità o grande parte o piccola parte
di molti lavori, vedrà l’implacabile sostituzione dell’umano con
l’informatico-meccanico. Sebbene inizialmente molti lavori non saranno
cancellati ma progressivamente mixati tra umano e info-maccanico, alla
fine il saldo netto sarà in termini di posti di lavoro. Quello che
giustamente preoccupa è la stretta relazione  tra l’enorme quantità di
ore lavoro umane sostituibili, l’incentivo del profitto che deriva dalla
comparazione tra costo del lavoro umano e costo del lavoro
info-meccanico e il tempo estremamente breve in cui tutto ciò sta
accadendo. Ulteriore preoccupazione, sembra che gli esperti del problema
prevedano a breve una sorta di salto quantico delle performance dei
robot e dei software[2], una di quelle rivoluzioni stile “periodo Cambriano”[3] per le quali, ricombinandosi i fattori, il risultato è di molti gradi superiore alla somma delle parti[4].
Lo stato interconnesso delle nostre economie intorno la principio di
concorrenza, imporrà il cambiamento come nuovo standard planetario, lo
si desideri o meno.

Il libro inchiesta di Riccardo Staglianò, Al posto tuo. Così web e robot ci stanno rubando il lavoro,
Einaudi, Torino, 2016, è un competente ed onesto lavoro sul tema, una
aggiornata overview sul fenomeno su cui l’autore, già centrato da anni
sui temi delle nuove tecnologie, ha raccolto informazioni negli ultimi
cinque anni. La posizione di Staglianò è critica verso il
tecno-entusiasmo[5] e cerca di indagare fattivamente quanto il fenomeno sia in effetti preoccupante[6], soprattutto in via previsionale.

Ma al di là delle ancora non stabilizzate
previsioni c’è anche un segnale indiretto che avverte con chiarezza di
dove la bilancia stia pendendo. Ci riferiamo alla mobilitazione dei
grandi del settore (Google, Facebook, Amazon, Apple etc.), in favore di
un set di idee che vanno dal reddito  di base, alla partecipazione
azionaria diffusa al capitale delle imprese che sfornano innovazioni di
modo che quegli stessi che perdono il lavoro o parte del reddito ne
recupererebbero almeno un po’ in quanto azionisti[7],
alle spinte a rivedere a fondo la formazione scolastica in direzione
meno specializzata e più complessa, alla commissione di studi (Deloitte,
Forrester research, PWC ed altri) che cerchino di ribilanciare le
previsioni più allarmate ed allarmanti. Stante che -comunque- nessuno di
loro ha la minima intenzione di mettere in discussione quei 100-130
miliardi di dollari di sottrazione fiscale dovuta alla ricca offerta di
tassazioni di favore di cui approfittano con implacabile sistematicità.
Così, le previsioni sul futuro espanso dell’economia digitale, oltre a
prevedere consistente crescita della disoccupazione tecnologica,
indicano anche l’ennesima creazione di valore ristretta a sempre meno
persone[8]
con conseguente ulteriore radicalizzazione di quella diseguaglianze che
ci sembravano già insopportabili ma il cui fondo insondabile siamo
-pare- ancora ben lungi dal toccare. 

Se a tutto ciò, uniamo i quarti di luna su i “web nazionali” che secessionano dall’impero delle signorie della Valle del Silicio[9],
i propositi di web tax che aleggiano in molte parti d’Europa (con il
significativo distinguo del nostro ex Presidente del Consiglio ormai
colonna portante dell’internazionale libertarian-liberista-liberale, di
recente proprio a prendere il brief in Silicon Valley), il sempre più
vasto movimento di conflitto contro le ricadute perverse di Uber,
Airbnb, Foodora e company e da ultimo, la certificazione pubblica data
da Wikileaks (Vault 7) sull’utilizzo dei device personali e casalinghi
(Internet of Things, IoT) da parte della Cia e dei suoi 15 tra fratelli e
sorelle (più amici privati che ne hanno
comprato le tecnologie sottobanco tanto tutto ha un prezzo), allora
vediamo che il problema c’è, ci sarà sempre di più e le reazioni che
s’annunciano preoccupano quelli stessi che prosperano sul fenomeno che
crea e sempre più creerà tali problemi.

Loro sanno, prevedono e si preoccupano,
quindi vanno presi sul serio e non come taluni hanno fatto, pensando che
Bill Gates che si danna per propagare la “sua” idea di tassare i robot
(guadagnare meno, guadagnare a lungo), ha i neuroni deteriorati dall’età
e si è trasformato in un tecno-luddista. Questa gente si vede, si
parla, fa piani e strategie comuni salvo poi azzannarsi nell’agone
competitivo e pare evidente che questa cupola di tecnologi è preoccupata
degli effetti del proprio stesso agire, stante che su questi effetti
ne sanno senz’altro più di noi, avendo sdoganato fondi massicci su
ricerche che hanno previsto gli effetti finali di ciò che si
ripromettevano di produrre. Non certo preoccupati al punto da fermarsi,
ma al punto da spingere gli stati a fornire le migliori condizioni di
possibilità sociali affinché loro possano continuare a sfornare salti
quantistici di performance tecnica. Addirittura disponibili a far
tassare i loro clienti, cioè le aziende che comprano robot e software
per sostituire lavoro umano, stante che i margini sono così abbondanti
(il caso medio sembra essere un vantaggio di costo di 1.10 se non di
più) che un po’ di redistribuzione non fa male a nessuno[10].
Si preoccupano loro e con loro, l’industria finanziaria che li
sorregge, i servizi d’informazione dello stato da cui provengono (sono
tutti americani), il complesso militar-industriale che sulle loro
invenzioni prospera, il complesso educativo-intellettuale che fornisce
loro il personale e la giustificazione culturale nonché l’attraente
immagine di mondo, l’area politica lib-dem che scambiando il concetto di
progresso come incremento dell’emancipazione umana con la Legge di
Moore, li coccola e li protegge. Ecco quindi la mobilitazione in
direzione dell’ampio ventaglio di soluzioni-vasellina, sempre che
Zukerberg, Bezos, Page e company non meditino di scendere direttamente
in campo se le cose dovessero mettersi davvero male. Le operazioni di basic lobbyng ovvero usare gli utenti per premere sulle istituzioni locali in favore di questo o quel servizio-azienda della sharing economy, prefigurano, nei fatti, un potenziale elettorato[11].
Potenziale elettorato affascinato dalla disintermediazione, la
partecipazione diretta e dal basso che si veste di idealismo democratico
quando, in assenza di concrete condizioni per una reale democrazia, si
rivela  solo come demagogia sfocata preda della sindrome da petizione
stile Change.org et affini.
 Petizioni che fanno bene all’animo del “democratico indignato” che
lascia poi la sua mail che verrà venduta al mercato dello spam.

Se quindi i nostri dioscuri si agitano
tanto, vuol dire che i rischi sono all’orizzonte degli eventi. Staglianò
apre ogni capitolo evidenziando la categoria che rischia l’impatto
distruttivo delle innovazioni di cui poi ci fornisce il racconto
aggiornato delle possibili minacce. Commercianti e vari addetti,
distribuzione, logistica, trasporti, call center, traduttori,
giornalisti, insegnanti e professori, industria già pesantemente
aggredita ed anche
la più esposta allo standard di concorrenza internazionale,
giornalisti, fotografi, bancari, assicurativi, finanziari, medici,
infermieri, farmacisti, tassisti, addetti alle attività turistiche,
moltissimi lavoratori autonomi, sono solo le principali categorie che
vanno variamente incontro al big bang info-tecnico. Per l’Italia, sono
poco meno di 20 milioni di occupati a fonte ISTAT che vanno a rischio.
Il rischio è rappresentato da una sempre più vasta rete di innovazioni
che allargano il dilemma tra il vantaggio del consumatore e lo
svantaggio del lavoratore stante che i due aspetti si riuniscono nello
stesso individuo. La rete di innovazioni è fatta di laser, scanner
ottici, braccia e mani servo-meccanici, robot antropomorfi e non,
nano-tecnologie, reti di sensori auto-diagnostici, stampanti 3D che
ormai stampano case, algoritmi imputati ma anche quelli che
auto-apprendono, quel deep learning o learning machine che con il
rientro dell’informazione che corregge o incrementa se stessa porta
l’info-elettro-meccanico ad una soglia prima della soggettività. Tutto
ciò messo in rete, una rete che convoglia tutte le informazioni
uso-performance-utente in enormi stoccaggi di dati (Big Data) che fanno
la memoria delle menti-corporation della Valley a cui l’intelligenza
strategica del governo americano ha normalmente pieno accesso sebbene si
premurino di farci sapere il contrario (tanto siamo in regime di post
verità).

Un Internet che ci sta penetrando
psico-biologicamente, costituendo un nuovo sistema accanto a quello
respiratorio, circolatorio, nervoso, immunitario con la differenza che
diversamente da questi, non fa capo a noi ma noi a lui. Un progetto che a
sua volta aspetta di potersi congiungere alla biologia tecno-sintetica
per aumentare la sua potenza strutturale. Lo sgretolamento progressivo
del sociale e soprattutto dei suoi aspetti lavoro-reddito,
inclusione-esclusione, identità-nullità, autonomia-eteronomia porterà i
più ad un pulviscolo di lavoretti a cottimo, di collaborazioni gratuite
che dovremo fornire per sperare di aumentare la nostra awareness
dato che a quel punto ognuno di noi diventerà una marca (brand) col suo
patrimonio di like e stelline e dovrà curare la sua reputazione, una
marca che compete in un mercato globale di concorrenze al ribasso. Se di
questo mercato globale sino ad oggi abbiamo temuto i concorrenti cinesi
e vietnamiti de-sindacalizzati e sotto-pagati, in quello che viene
dovremo temere le macchine che costano meno dei vietnamiti e fanno
comunque di più e meglio di noi e di loro messi assieme. Macchine nate
sofisticate ma che apprendono da noi e dai loro stessi sempre più
residui sbagli fino all’errore zero, guasti zero, manutenzione zero,
costo quasi zero quando ripartito su indici di produttività da distopia
fantascientifica.  Una realtà che non si chiama più “virtuale” ma
“aumentata” e che punirà critici eccessivi ed eventuali ribelli con la
più antica delle pene sociali: l’ostracismo (la de-connessione).

A questo punto, facendo perno sulla
fallacia della linearità che postula che questa distruzione sarà pur
sempre e come sempre è stato (dove “sempre” vale centosettanta anni o
poco più[12]),
sì una distruzione ma anche creatrice di nuove opportunità, ci si
spiega con paterna accondiscendenza che l’umano evolverà sviluppando di
più se stesso e che tutti dovremo acquisire capacità creative e di
cognizione complessa, di modo da far del problema una opportunità[13]
Ci sono tre errori in questa linea di ragionamento. Il primo è proprio
la linearità, cigni neri, salti non lineari che portano emergenze, tempi
compressi, reti di feedback dicono che la previsione del “come è stato
sempre sarà” è puro wishful thinking proiettato sull’indomabile
disordine del mondo. Anche la globalizzazione doveva garantirci il
migliore dei mondi possibili, anche la finanziarizzazione di massa,
anche l’-Europa della conoscenza- promessa a Lisbona nel 2000.  La
seconda è che la prima distruzione di lavoro già avvenuta, ha devastato
proprio l’ambito creativo e culturale (giornali, edicole, librerie, case
editrici, case discografiche, musicisti, fotografi, riproduzioni
gratuite e senza diritti) e proprio Staglianò indagando sulle promesse
di farci diventare tutti youtuber o self-published-star, mostra le
ridicole proporzioni tra le migliaia che ci provano per l’uno che ci
riesce, forse. La piramide dell’auto-successo, al di là della critica
che se può fare sul piano socio-culturale, ha invero una forma ben poco
attraente anche rispetto alle sue stesse promesse. Il terzo è che la
cultura dell’info-digitale va di sua natura dalla parte opposta a quella
della creazione di un vasta e diffusa cultura complessa che si reclama
come necessaria visto che ormai la cultura semplice verrà portata avanti
dalle macchine[14].
Il diluvio della quantità informativa non si traduce in qualità
conoscitiva. Insomma promesse infondate, esagerate, sbagliate. Infine,
che sia la distribuzione di ricchezza individuale, che sia la
distribuzione della ricchezza imprenditoriale e finanziaria, che sia la
distribuzione della  share of market[15],
la geometria della piramide di questo macro-fenomeno è invece una
certezza: base larghissima, sezione media in contrazione, punta sottile e
sempre più affilata. Sempre più Pochi su sempre più Molti[16], la statica della società-Eiffel su cui si basa la geometria gerarchica contemporanea.

Ma vediamo meglio il punto tre di questa
impalcatura di promesse traballanti. Oggi siamo letteralmente annegati
nell’informazione ma stiamo scoprendo che questa inflazione di
informazione, disorienta e non fertilizza la conoscenza. La prima
ragione di questa paradossale ricchezza sterile è che, con l’accesso
individuale alle fonti del nuovo e potente informadotto che è Internet,
ognuno di noi si trova in una bolla solipsistica. Il nostro “daily me”
sarà anche tagliato a pennello sui nostri gusti e tendenze ma -nel
tempo- tende a scavare un solco di reciproca incomunicabilità. Sia
perché la fruizione dell’informazione è viepiù solitaria, sia perché
temi e linguaggi specialistici formano il nostro vocabolario e la nostra
mentalità senza alcun filtro, determinando menti “isola” che hanno
forma, linguaggi ed aspettative sempre meno comuni, sia perché tendiamo a
confermare i nostri interessi tanto da farli diventare “manie” e
tendiamo a diventare del tutto alieni a quelli degli altri.
Semplicemente, la modalità Internet + social network, tende a
costituirci come mondi separati, il che, nell’epoca della comunicazione,
è davvero un paradosso. Anche la complessità del mondo che in sé è un
unico sistema, è rifratta in un caleidoscopio di frammenti di cui ognuno
di noi conosce sempre più la parte ma ignora sempre di più il tutto.
Emittenti e distributori generalisti dell’informazione, vanno perdendo
ruolo e con essi, la nostra possibilità di capitare -per caso- nei
pressi di una conoscenza inaspettata. Di contro, emittenti e
distributori di informazione on line sono per molti versi, pre-decisi
dall’architettura dei link quando non dall’offerta dei semimonopolisti
della rete . Questi architetti invisibili decidono ex ante che in base
al nostro profilo, ci potrebbe interessare questo o quello ma così
facendo la vantata libera individualizzazione diventa invece
massificazione poiché i profili
previsti sono sempre di meno dell’effettiva varietà sociale, sono
“medie” di comportamento, definizioni statistiche, incasellamento in un
numero prefissato di cluster idealtipici. Cluster definiti poi in base a
specifici interessi commerciali.  Questa continua riconferma
narcisistica  ci sta modellando nel profondo e da qui discende sia la
violenza verbale di alcune discussioni su i social che presto deragliano
in due paralleli ””tu non hai capito che …”, sia la base cognitiva
sempre meno in comune sulla quale prospera l’egotismo narcisistico. Così
come la scrittura modificò sensibilmente i modi di trasmettere
l’informazione rispetto all’oralità e modificò la forma ed anche il
contenuto del messaggio, la sua fruizione, la struttura stessa
dell’apparato cognitivo che come tutte le componenti biologiche rinforza
i sottosistemi più usati e fa decadere e disconnette parzialmente
quelli meno usati (o usati molto saltuariamente), c’è da aspettarsi che i
formati espressivi molto brevi, il primato dell’immagine, la sintesi
grafica, la seduzione musicale, daranno il format prevalente di ogni
possibile messaggio. Spesso, chi scrive sul computer, non calcola che il
suo messaggio sarà letto su uno smartphone, magari camminando o in
attesa di qualcos’altro.  Con ciò, un nuovo primato dell’emozione, dell’attention getting ed una progressiva decadenza della riflessione e con essa della razionalità[17].
Inoltre, si sta presentando anche lo spettro della perdita storica di
informazione affidata a supporti che poi diventano obsoleti, a siti che
poi verranno cancellati, a bisogni di “memoria” semplicemente
impossibili da fornire stante una produzione ormai quantitativamente
fuori controllo. Nel decidere cosa trattenere e cosa lasciar evaporare
nell’entropia, si fisserà una certa memoria del tempo ma a chi
deleghiamo questo compito storico?

Infine, il pur limitatamente positivo
proliferare delle fonti informative sta portando le élite a introdurre
la pericolosa nozione di “falsa verità” che se non prendesse le forme di
un ostracismo repressivo della spontaneità informativa, sarebbe
semplicemente da sbeffeggiare ricordando che i più ampi cultori del
pensiero umano -i filosofi- si interrogano senza soluzione di continuità
da più di due millenni sul sfuggente concetto di “verità”, del “fatto” e
della sua “interpretazione”. Che ora sia la banda Zuckerberg a dirci
quale sia la verità, ci pare segno dei tempi, brutti tempi, tempi in cui
sbeffeggiare non basta più[18].

Tutto lo sviluppo info-digitale è figlio
di una intuizione originaria di Norbert Wiener, il fondatore della nuova
scienza cibernetica, da lui stesso definita:  scienza del controllo. Ma
lo stesso Weiner, passò il resto della sua vita ad ammonire che per
usare e non esser usati dalla scienza del controllo, occorreva averne il
controllo[19]. Questo controllo, che siano
capitali, tasse, flussi di merci o di persone, distribuzione dei
redditi, monopoli commerciali, programmi di ricerca, conseguenze
ambientali del nostro agire, decisioni da prendere su i conflitti e la
pace, rilievi etico – sociali – culturali e politici dell’innovazione
tecno-scientifica, censure, non è nelle mani di nessuno che faccia
l’interesse generale. Tutto ciò è sempre e solo nella mano invisibile
del mercato ed in quelle visibilissime della Prima potenza geopolitica
planetaria.

Per controllare questo che non è che
l’ennesimo fenomeno di cambiamento profondo delle forme della nostra
vita associata (oltre quello geopolitico, quello demografico, quello
ambientale, quello distributivo), mancano due cose: la sufficiente
conoscenza e l’istituzione della volontà generale che lo governi secondo
il più ampio e responsabile interesse.

Il deficit di conoscenza che si rivela
qui come altrove è proprio relativo alla complessità intrinseca di
questo come di altri fenomeni. Ho letto analisi di economisti,
tecnologi, sociologi, filosofi prima di scrivere questo articolo, ma
rimane sempre insoddisfatto il senso di completezza, di completa
definizione della cosa. Come lavorano tutti questi fatti messi assieme
nel reale? L’informazione non produce conoscenza se non fertilizzando un
intelletto già ben formato. Ed è proprio la coincidenza tra massima
produzione e diffusione dell’informazione e minima strutturazione e
capacità dell’intelletto contemporaneo di processarla, il dato di prima
preoccupazione. Da cui consegue che un vero soggetto generale in grado
di valutare il suo interesse non c’è. La formazione è sempre più
spezzettata in sottodiscpline e specialismi, il dibattito pubblico è
sempre ostaggio di opinionisti al servizio dello status quo, le forme
stesse dell’interrelazione sociale date dalle nuove tecnologie portano a
stereotipie, semplificazioni, riduzionismi, esaltazioni a priori e
sfoghi di rabbia impotente, la politica oscilla tra ignoranza, visione
tattica a breve termine e sudditanza nei confronti dell’ordinatore
economico che è il primo agente di disordine. La domanda di benessere
economico, in tempi difficili, si fa sempre più isterica e quelle
sull’adeguatezza del nostro modo di pensare e delle strutture sociali
che dovrebbero riflettere le nostre consapevoli intenzioni è accolta col
sorriso e l’indulgenza che si riserva all’ingenuità dei fanciulli.

Controllare la scienza del controllo è l’ennesimo punto in agenda per la democrazia che non c’è.

[1] N. Wiener, Introduzione alla cibernetica, Bollati Boringhieri, Torino, 1966-2001, pp. 203.204

[2] BANG = Bit, Atomi, Neuroni, Geni, messi in interrelazione, genereranno il nuovo macro-sistema.

[3] S. Jay Gould, La vita meravigliosa, Feltrinelli, Milano, 2008

[4]
Personaggio inquietante. Ray Kurzweil, autore di La singolarità è
vicina (Maggioli PDE, 2013), ha profetato che la “legge dei ritorni
esponenziali” (qui)
 ci porterebbe alla nascita di macchine autocoscienti entro il 2050.
Kurzweil che di primo acchito può sembrare un tipo eccentrico, ha
lanciato la Singularity University in California con la partnership di
Google, NASA, Nokia, LinkedIn ed altri ed è membro influente dell’Army
Science Board  (qui) snodo
di incontro tra gli alti vertici dell’esercito americano e la più
avanzata parte della comunità scientifica. L’impasto di genetica,
nanotecnologie e robot lo fa l’esponente di punta del trans-umanesimo.

[5]
L’atteggiamento verso la rivoluzione info-tecnica, è stato definito non
senza malizia epistemica come tecno-entusiasta o tecno-scettico. Non si
vede la necessità di apporre categorie dell’emotività al giudizio su i
fatti. I fatti sono l’insieme degli aspetti coinvolti e componenti la
rivoluzione info-tecnica, semmai le analisi si dividono tra ingenui e
critici, tra coloro che accettano la narrazione del migliore dei mondi
possibili e coloro che assumo un atteggiamento più critico, leggendo non
solo gli aspetti migliori ma anche quelli peggiori e derivandone
indicazioni per altri mondi possibili oltre a quello sfornato dalle
dinamiche del mercato. Qui Staglianò intervista Eughenji Morozov (secondo filmato della pagina) sull’argomento:

[6]
Due professori del MIT, A.McAfee e E.Brynjolfsson, in Race Against
Machine (2011), dimostrano che dal 2000 le curve dell’incremento della
produttività e dell’occupazione, cominciano a divergere. Classica ormai,
la citazione del The Future of Employment: How Susceptible Are Jobs to
Computerisation 2013, C.B. Frey e M. A. Osborne della Oxford University
che dimostrerebbero fondate preoccupazioni per poco meno del 50% dei
mestieri, da qui a venti anni. Nel 2013 l’Economist, in Rise of the
Software Machines  (qui)
decreta la prossima fine di tutte le imprese  prosperate sulla tendenza
all’outsourcing. Federal Reserve Economic Data, certifica che negli
USA, dal 1987, si producono l’85% dei beni in più con due terzi della
forza lavoro di allora.  UNCTAD-ONU, prevede impatti molto negativi
sulla forza lavoro dei paesi emergenti (qui).
Anche se con stime meno tragiche, il tema di come “gestire” la quarta
rivoluzione industriale di cui si ammette sia l’impatto occupazione, sia
l’aggravio delle diseguaglianze, è stato al centro dell’annuale Forum
di Davos 2017.  Link commentati attraverso cui approdare ai rapporti
Bank of America e Merrill Lynch (qui) e McKinsey (qui)
. Economisti quali Jeffrey Sachs e L. Kotikoff, T. Cowen e Larry
Summers (ex rettore di Harvard, tra le altre cose) ma anche P. Krugman,
R. Reich e N. Roubini, oltre a R. Prodi, hanno sviluppato punti
interrogativi sull’argomento.

[7] Idea promossa da R. B. Freeman economista di Harvard.

[8]
I rapporti tra impiegati e capitalizzazione di borsa di queste imprese è
ridicolo, specie se raffrontato con quello delle industrie o dei
servizi “tradizionali”.

[9]
Cina, Corea del Sud, Russia, Iran, Bielorussia, Arabia Saudita hanno
già un loro Internet nazionale o pesanti firewall che ne limitano il
libero accesso. L’India ha mostrato crescente nervosismo per certe
invadenze esterne, l’hackeraggio e la pirateria internazionale ma anche
lo spionaggio dati, privato o industriale, preoccupano più o meno tutti.
La Germania, è capofila dell’idea di creare in Internet europeo. Poiché
l’infosfera tende a coincidere con l’anglosfera è ovvio che in un
processo di riconfigurazione multipolare del mondo, anche Internet “rete
delle reti” diventerà un po’ meno la prima cosa ed un po’ più la
seconda. Il BRICS Cable, 34.000 km di cavo sottomarino con portanza di
12,8 Tbit/s, prefigura la volontà di creare proprie reti da parte del
mondo emergente.

[10]
E’ il classico aggiustamento della mano invisibile che riguarda sempre
gli altri. Gli stati spendano un po’ di più in welfare, le aziende
acquirenti di robot vengano un po’ tassate, i lavoratori accettino un
po’ meno ed un po’ di precarietà creativa in più, così noi possiamo
continuare a prosperare.

[12]
La datazione del cuore esplosivo della Rivoluzione industriale, ha
subito varie oscillazioni. Oggi si ritiene che il più decisivo impatto
(ciò che segna il tempo in cui accade effettivamente una “rivoluzione”)
sia da collocare tra il 1850 ed il 1870 e non prima.

[13]
C’è anche chi vede solo opportunità come Michael Nielsen, (Le nuove vie
della scoperta scientifica, Einaudi, Torino, 2012) per il quale “La
conoscenza scientifica non è piú il frutto dell’avventura, eroica e
solitaria, del grande uomo e dell’intelligenza singolare, o delle
diverse convergenze fra industria, apparati militari, capitale
finanziario e istituti di ricerca. La cultura scientifica contemporanea
ha incorporato ormai come parte integrante degli stessi oggetti,
obiettivi e protocolli della ricerca, fin dall’atto della loro primitiva
elaborazione, il criterio della necessaria, e il piú possibile ampia, condivisione di teorie, scoperte, modelli e paradigmi”. 
Ma se la fase di ricerca è sharing, lo è anche quella dell’applicazione brevettata?

[14]
Ne accenna J.C. De Martin nell’introduzione a L. Floridi, La
rivoluzione dell’informazione, Codice edizioni, Torino, 2015 e credo lo
riaffermi nel suo Università futura, Codice edizioni, Torino, 2017.
“Credo” perché non l’ho ancora letto ma ne ho desunto tesi da vari
articoli.

[16] “Come ripete Jeremy Rifkin, la sharing economy è speculativa almeno quanto l’economia classica” riporta in una intervista a Wired, Andrew Keen autore di “Internet non è la risposta” Egea, 2015 (qui). In verità ha una struttura più simile a quella dell’economia finanziaria.

[18]
Clamoroso il caso di censura operato dagli algoritmi di Facebook della
famosa foto di Nick Ut/1972 (premio Pulitzer) dei bambini vietnamiti
piangenti in fuga da un bombardamento al napalm perché compare una
bambini nuda. (Qui)

[19]
L’anello controllato – controllore prefigura una tipica situazione
quale descritta nella cibernetica di second’ordine, si veda H. von
Foerster, Sistemi che osservano, Astrolabio, Firenze, 1987

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