di Domenico Tambasco
Il linguaggio non è mai né neutro né innocente. E men che meno lo è la sharing economy, patinata espressione che, nel suo significato letterale, significa “economia della condivisione”. Solenne e marchiana impostura linguistica dietro la quale si cela la cruda realtà della gig economy o, meglio, dei “Lavoretti”. È questo il titolo dell’inchiesta sul mondo del lavoro 4.0 svolta da Riccardo Staglianò, dal sottotitolo ancor più eloquente: “Così la sharing economy ci rende tutti più poveri”.
La struttura dei nuovi lavori della sharing economy, infatti, è “moderna” come il feudalesimo: “chi possiede una piattaforma digitale estrae, secondo una modalità neofeudale, una commissione da chi svolge la prestazione”[1].
Impietoso è il confronto[2] tra la foto dei 30.000 lavoratori italiani pressoché analfabeti che nel 1902 decisero di proclamare uno sciopero a New York contro i “padroni”, ovvero i caporali che facevano da intermediari della manodopera decurtandone in modo consistente il salario, e l’immagine odierna delle migliaia di laureati di Mechanical Turk, degli ultra qualificati moderatori di contenuti di Facebook, degli informatici di Upwork e delle matricole universitarie che corrono in bicicletta con la pettorina di Foodora o di Deliveroo.
I secondi infatti, nonostante gli studi accademici, sono nella stessa situazione dei primi, senza tuttavia aver compreso la cosa più importante: che il lavoro deve essere pagato il giusto, ovvero in modo proporzionato “alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa”, per riprendere l’illuminante definizione di retribuzione disegnata dai Costituenti nella stesura dell’art. 36.
Anni di studi e sacrifici liquefatti in una corsa incessante tra un lavoretto e l’altro nell’arco della stessa giornata, risolti in una “paga da fame”: siamo all’ossimoro del lavoro povero.
Eppure, nonostante le sempre più numerose e qualificate denunce dei fenomeni di incessante degrado lavorativo che evidenziano ormai chiaramente i caratteri dello sfruttamento[3], il pensiero unico della “società di Davos” difende la posizione dei suoi avamposti digitali, cioè delle piattaforme, facendo ricorso alla suadente invocazione di un “Jobs App”, di “un contratto di lavoro ibrido, in cui le tutele non sono garantite dal posto di lavoro ma nel mercato del lavoro”[4].
Tuttavia, un interrogativo sorge spontaneo: se la principale tutela nel mercato del lavoro è l’occupabilità del lavoratore, rappresentata dal patrimonio personale di competenze, quale tutela è mai possibile reperire in un mercato del lavoro fatto di migliaia di lavoretti inutili, dequalificanti e sottopagati, che sviliscono e depauperano la professionalità di qualunque lavoratore? Domanda retorica che, al contrario, evidenzia come gli affascinanti anglicismi della Sharing Economy siano tutt’altro che innocenti.
Quale può essere, dunque, l’alternativa ad un grigio futuro di lavoretti e, per riflesso, di profonda e drammatica insicurezza individuale e sociale?
Le possibili “vie d’uscita”[5] sono un combinato di misure che si integrano l’una con l’altra:
– l’introduzione di una forma di reddito minimo universale[6] (oggetto peraltro di recente sperimentazione anche in Finlandia), ovvero di un reddito minimo individuale, incondizionato e sostitutivo dei vecchi ammortizzatori sociali, al fine di fornire supporto almeno integrativo ai decrescenti introiti derivanti dal lavoro[7];
– la previsione (a livello sovranazionale) di una web tax sui profitti generati dalle piattaforme digitali -che potrebbe anche finanziare le instaurande forme di reddito minimo universale-, allo scopo di limitare la macroscopica elusione fiscale di cui sono oggi vittime la maggior parte degli Stati e di redistribuire finalmente alla collettività almeno parte dei plurimiliardari guadagni accumulati dagli oligarchi del web;
– l’introduzione, anche nei lavori della sharing economy, di forme di protezione analoghe al rapporto di lavoro subordinato: minimi retributivi orari, divieto della retribuzione a cottimo (ovvero a pezzo consegnato o prodotto), contrattazione collettiva per i lavoratori della gig economy, limiti orari massimi di lavoro, protezione e tutela previdenziale e assicurativa, tutela da arbitrarie ed illegittime “disconnessioni” unilaterali, limiti ai pervasivi ed opprimenti controlli a distanza dei lavoratori;
Non si tratta della bacchetta magica ma nemmeno di una app che, pur non sostituendo ancora il lavoro umano, lo paga un’inezia non riconoscendolo degno di diritti[8].
In fondo, come polemicamente rivendicato tempo fa in una delle rare proteste organizzate da alcuni workers, “siamo esseri umani, non algoritmi”[9].
NOTE
[1] Riccardo Staglianò, “Lavoretti. Così la Sharing Economy ci rende tutti più poveri”, Torino, Einaudi, 2018, p. 6.
[2] R. Staglianò, cit., p. 225-226.
[3] Si veda l’ultimo appassionato e documentato lavoro di Marta Fana, Non è lavoro, è sfruttamento, Roma-Bari, Laterza, 2017.
[4] Francesco Rotondi, parole tratte da un’intervista ad ADN Kronos.com del 15 febbraio 2018.
[5] R. Staglianò, cit. pp. 173-224.
[6] “Il reddito di base differisce dal reddito minimo condizionato non solo per il fatto di essere pagato su base individuale, ma anche per altri due aspetti che hanno un’importanza ancor più decisiva ai nostri fini… Il reddito di base è incondizionato perché è universale, cioè non soggetto ad un accertamento delle condizioni economiche. I ricchi ne hanno diritto tanto quanto i poveri. Ed è incondizionato perché non soggetto a obblighi lavorativi e a una verifica della disponibilità al lavoro. I disoccupati volontari ne hanno diritto tanto quanto i disoccupati involontari e coloro che un lavoro ce l’hanno… la combinazione di queste due condizioni è cruciale. La prima emancipa le persone dalla trappola della disoccupazione, la seconda dalla trappola dell’occupazione. La prima rende più facile accettare un’offerta di lavoro, la seconda rende più facile rifiutarla”, Philippe Van Parijs – Yannick Vanderboght, Il reddito di Base – una proposta radicale, Bologna, Il Mulino, 2017, p.31.
[7] Chi scrive ritiene adeguato un reddito minimo universale sui 500/600 euro, come sostenuto nell’articolo Reddito minimo universale, la via maestra per uscire dalla crisi, Micromega, 11 febbraio 2015.
[8] R. Staglianò, cit., p. 231.
[9] The Guardian, Amazon’s Mechanical Turk Workers protest: “I am a human being, not an algorithm”, 03.12.2014.
(19 febbraio 2018)
Link articolo: Altro che sharing Economy, chiamatelo caporalato digitale