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'Chi uccise JFK? Gli strani indizi su ''Poppy'' Bush'

'Giulietto Chiesa divulga i risultati clamorosi di alcune inchieste mai tradotte in Italia, che scoprono il ruolo della famiglia Bush in alcuni passaggi dell''attentato a Kennedy'

'Chi uccise JFK? Gli strani indizi su ''Poppy'' Bush'
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19 Agosto 2013 - 23.58


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di Giulietto Chiesa.

 

Giulietto Chiesa divulga i risultati clamorosi di alcune inchieste mai tradotte in Italia, che scoprono il ruolo della famiglia Bush in alcuni passaggi dell’attentato a Kennedy

Uscirà a ottobre, negli Stati Uniti (come annuncia The Daily Caller, che indica anche la casa editrice, Skyhorse Publishing), un libro con un titolo provvisorio che potremmo tradurre così: “L’uomo che uccise Kennedy: Lyndon Johnson”.
Di libri sull’argomento, dentro e fuori gli Stati Uniti, ne sono stati pubblicati centinaia. Non tutti, però, avevano in copertina il nome di un autore come questo. Roger Stone oggi non è più repubblicano come allora, quando, giovanissimo, fu aiutante di campo del presidente Richard Nixon nel corso della campagna elettorale vittoriosa del 1972, al termine della quale entrò nell’Amministrazione presidenziale.
Le sue memorie, firmate insieme a Mike Colapietro, riguardano informazioni che egli raccolse stando all’interno della squadra che portò al potere Nixon, nove anni dopo l’assassinio di Kennedy, che avvenne a Dallas, Texas, il 22 novembre 1963. Ma sono ricordi esplosivi, nei quali anche Nixon è coinvolto come uno dei partecipanti al complotto. Per lo meno alle prime fasi dell’operazione, e poi alla sua copertura. Risulterebbe infatti – stando alle dichiarazioni di Stone – che Jack Ruby (alias Jacob Leon Rubinstein), colui che assassinò Lee Harvey Oswald, poche ore dopo il suo rapidissimo arresto, aveva lavorato alle dipendenze di Nixon (allora deputato al Congresso) fin dal 1947.

La stranezza, una delle tante, è che Nixon assunse Jack Ruby su diretta raccomandazione di Lyndon Johnson. Dunque, prima circostanza: sia Johnson, sia Nixon, conoscevano colui che, molti anni dopo, avrebbe chiuso la bocca, tra mille e una stranezza, all’unico “colpevole” ufficiale.
Tutto qui? Roger Stone vorrebbe far credere che l’assassinio di Kennedy fu progettato con tanto anticipo? Per giunta da due uomini che, in quel momento, non potevano immaginare che le loro carriere li portassero ad essere entrambi, uno dietro l’altro, presidenti degli Stati Uniti d’America?
A quanto pare le cose che Stone ha scritto vanno oltre queste che, anche se provate, non possono dire nulla sui fatti del 1963. Leggeremo il libro alla ricerca delle fonti. Sarebbe stato – anticipa Stone – Lyndon Johnson in persona, a insistere perché il viaggio di Kennedy a Dallas non venisse rinviato, nonostante le preoccupazioni dell’entourage presidenziale circa un possibile attentato. Sarebbe stato Johnson, nella sua qualità di vice-presidente, per esempio, a prendere la definitiva decisione circa il percorso del corteo presidenziale nel centro di Dallas. E il democratico Lyndon Johnson avrebbe favorito la successiva vittoria del repubblicano Richard Nixon in cambio dell’impegno dello stesso Nixon di non rimettere in discussione, in nessun caso, il risultato della “Commissione Warren”, quella che concluse rapidamente e perentoriamene l’indagine affermando che l’assassino era stato “un uomo solo”, cioè che non era esistito nessun complotto.
Oswald, nel frattempo era già stato liquidato (via Jack Ruby) e non potè mai chiarire ai giudici il significato della frase – l’unica frase che fu raccolta dai cronisti mentre veniva arrestato – “io sono soltanto un capro espiatorio”.
Fin qui le indiscrezioni sul libro di Stone: davvero poca cosa e tutta da dimostrare. E inficiate (a mio avviso), a quanto pare, dalla tesi – che l’autore sembrerebbe condividere – secondo cui Lee Harvey Oswald fu proprio lo sparatore unico di quella giornata.
Tesi che fa tanta acqua da molti pertugi.
Tant’è che l’inchiesta successiva alla Commissione Warren, quella dello House Committee on Assassinations, giunse alla conclusione che i cecchini furono almeno due, distruggendo di fatto le risultanze precedenti. Moltissimi critici della versione ufficiale hanno avanzato fondate ipotesi che i cecchini fossero parecchi di più.
James Fetzer, autore di tre studi accuratissimi, parla di ben sei diverse canne da fuoco impegnate in quei secondi, fatali per Kennedy e per l’America. E anche Fetzer ritiene che Lyndon Johnson fu parte del complotto. Ma siamo nel campo di ricostruzioni complesse che qui è impossibile riferire nei dettagli.

Quindi tutto, come si dice, da prendere con le pinze. Ma qualche cosa, anzi molte, sul ruolo di Lyndon Johnson nella vicenda, era già emerso nel corso dell’inchiesta ed è stato, come vedremo tra poco, ribadito anni dopo. Va detto che le conclusioni della Commissione Warren furono sottoposte, fin da subito (e negli anni successivi demolite, anche ufficialmente), a pesanti critiche da decine di indagini private, da ricostruzioni giornalistiche, da testimonianze che emersero successivamente, da documenti di impressionante evidenza che non solo dimostrarono l’esistenza di un vasto complotto per uccidere entrambi i fratelli Kennedy, ma indicarono i mandanti e gli esecutori.
Basti qui ricordare il film di Oliver Stone, JFK (1991), che fu realizzato sulla base dell’inchiesta condotta dal giudice distrettuale di New Orleans, Jim Garrison, dalla quale emerse gran parte di una trama delittuosa che aveva avuto i suoi autori nei vertici supremi dello Stato americano e delle lobby petrolifere che volevano imprimere alla politica americana una drastica virata imperiale.

Tra queste prove se ne aggiungono altre, molto bene documentate, del modo in cui si giunse alla stessa nomina di Earl Warren alla testa della famosa Commissione.
Warren era allora a capo della Suprema Corte degli Stati Uniti ed era considerato un onesto e incorruttibile funzionario. Scelta apparentemente perfetta, dunque, data la gravità del momento. La formazione della Commissione spettava all’ex vice-presidente e in quel frangente presidente: appunto LBJ. Ma Earl Warren non voleva quell’incarico e rifiutò per ben due volte la proposta di Johnson. Perché poi accettò? Lo rivelò Johnson in persona, involontariamente, in una conversazione telefonica con Richard Russell, senatore, anche lui riluttante ad accettare l’incarico di fare parte della Commissione. La registrazione venne pubblicata però soltanto nel 1997 (Michael R. Beschloss, “Taking Charge: The Johnson White House Tapes , 1963-1964”, New York, Symon & Shuster, pag 72) e merita di essere riprodotta per esteso.
Parla Lyndon Johnson: “Warren mi disse che non avrebbe accettato in nessun caso. Egli venne qui e mi disse di no due volte. Allora io tirai fuori quello che Hoover (allora direttore dell’FBI, ndr) mi aveva detto a proposito di un piccolo incidente a Mexico City.. Allora lui cominciò a piangere e disse: ‘Non voglio crearle dei problemi. Farò esattamente ogni cosa lei mi dirà di fare'”.
A quale incidente si riferisse Johnson non è dato sapere. Ma sarà utile ricordare che John Edgar Hoover fu l’inventore, si può dire, dei fascicoli segreti con cui aveva spiato tutto e tutti, all’epoca, a cominciare prima dalla famiglia Roosevelt, poi dalla famiglia Kennedy. Quello che è certo è che Warren capì al volo l’allusione. Allusione che servì a prendere due piccioni con una fava, cioè a convincere anche Russell a non rifiutare la nomina. In altri termini Johnson mise a capo della Commissione un uomo che si trovava sotto ricatto. E il ricattatore era proprio il presidente Johnson! Il quale, guarda caso, inserì nella Commissione Warren anche uno dei più accaniti nemici di John Kennedy: quell’Allen Dulles, direttore della CIA fin dal 1953, che era stato l’organizzatore di due riusciti colpi di stato in Guatemala e in Iran, e che era caduto in disgrazia dopo la fallita operazione della Baia dei Porci che avrebbe dovuto liquidare la rivoluzione cubana di Fidel Castro. Ed è qui, ripescando negli archivi documenti su documenti (opera questa volta di Russ Baker, un giornalista con i fiocchi, autore di un libro uscito negli USA nel 2009 e mai pubblicato in italiano, “Family of Secrets”, Bloomsbury Press) che entra in scena un terzo presidente degli Stati Uniti. E vi entra come il principale sospetto dell’ organizzazione dell’assassinio di John Kennedy e di suo fratello Robert.
Anche nella ricostruzione di Russ Baker Lyndon Johnson c’entra, eccome! Ma è questo terzo presidente USA, anche lui repubblicano, ma giunto al vertice ben 15 anni dopo le dimissioni di Richard Nixon, nel 1989, il maggiore indiziato. Stiamo parlando di George Bush padre, che qui – seguendo Baker – chiameremo “Poppy” per distinguerlo da altri membri della “famiglia” Bush.

Tra queste prove se ne aggiungono altre, molto bene documentate, del modo in cui si giunse alla stessa nomina di Earl Warren alla testa della famosa Commissione.
Warren era allora a capo della Suprema Corte degli Stati Uniti ed era considerato un onesto e incorruttibile funzionario. Scelta apparentemente perfetta, dunque, data la gravità del momento. La formazione della Commissione spettava all’ex vice-presidente e in quel frangente presidente: appunto LBJ. Ma Earl Warren non voleva quell’incarico e rifiutò per ben due volte la proposta di Johnson. Perché poi accettò? Lo rivelò Johnson in persona, involontariamente, in una conversazione telefonica con Richard Russell, senatore, anche lui riluttante ad accettare l’incarico di fare parte della Commissione. La registrazione venne pubblicata però soltanto nel 1997 (Michael R. Beschloss, “Taking Charge: The Johnson White House Tapes , 1963-1964”, New York, Symon & Shuster, pag 72) e merita di essere riprodotta per esteso.
Parla Lyndon Johnson: “Warren mi disse che non avrebbe accettato in nessun caso. Egli venne qui e mi disse di no due volte. Allora io tirai fuori quello che Hoover (allora direttore dell’FBI, ndr) mi aveva detto a proposito di un piccolo incidente a Mexico City.. Allora lui cominciò a piangere e disse: ‘Non voglio crearle dei problemi. Farò esattamente ogni cosa lei mi dirà di fare'”.
A quale incidente si riferisse Johnson non è dato sapere. Ma sarà utile ricordare che John Edgar Hoover fu l’inventore, si può dire, dei fascicoli segreti con cui aveva spiato tutto e tutti, all’epoca, a cominciare prima dalla famiglia Roosevelt, poi dalla famiglia Kennedy. Quello che è certo è che Warren capì al volo l’allusione. Allusione che servì a prendere due piccioni con una fava, cioè a convincere anche Russell a non rifiutare la nomina. In altri termini Johnson mise a capo della Commissione un uomo che si trovava sotto ricatto. E il ricattatore era proprio il presidente Johnson! Il quale, guarda caso, inserì nella Commissione Warren anche uno dei più accaniti nemici di John Kennedy: quell’Allen Dulles, direttore della CIA fin dal 1953, che era stato l’organizzatore di due riusciti colpi di stato in Guatemala e in Iran, e che era caduto in disgrazia dopo la fallita operazione della Baia dei Porci che avrebbe dovuto liquidare la rivoluzione cubana di Fidel Castro. Ed è qui, ripescando negli archivi documenti su documenti (opera questa volta di Russ Baker, un giornalista con i fiocchi, autore di un libro uscito negli USA nel 2009 e mai pubblicato in italiano, “Family of Secrets”, Bloomsbury Press) che entra in scena un terzo presidente degli Stati Uniti. E vi entra come il principale sospetto dell’ organizzazione dell’assassinio di John Kennedy e di suo fratello Robert.
Anche nella ricostruzione di Russ Baker Lyndon Johnson c’entra, eccome! Ma è questo terzo presidente USA, anche lui repubblicano, ma giunto al vertice ben 15 anni dopo le dimissioni di Richard Nixon, nel 1989, il maggiore indiziato. Stiamo parlando di George Bush padre, che qui – seguendo Baker – chiameremo “Poppy” per distinguerlo da altri membri della “famiglia” Bush.

Ma questo è solo un piccolo dettaglio. Proprio in quella fase Poppy Bush entrava in politica. Kennedy aveva vinto il suo primo mandato con un piccolo scarto. Nel 1964 ci sarebbero state nuove elezioni. Babbo Prescott puntava a lanciare il figlio. Gli stati cruciali, si sapeva, sarebbero stati due, Florida e Texas. La famiglia Bush scelse di mandare Poppy in Texas. Pochi sanno che George Herbert Bush aveva aperto il suo quartiere generale a Houston pochi mesi prima dell’attentato a Kennedy.

Pochi sanno che, quando John Kennedy fu ucciso, il capo del partito repubblicano in Texas era Poppy Bush. Pochi hanno ricordato che una delle ragioni che spinsero Kennedy a andare a Dallas fu proprio determinata dalla necessità di fronteggiare la prevedibile controffensiva repubblicana in quello stato. La famiglia Bush era molto ben connessa sia con Wall Street, sia con i petrolieri texani. E John Kennedy arrivava in terra nemica con due intenzioni provocatorie: quella della cancellazione della “oil depletion allowance” – che significava un colpo molto serio ai profitti dei petrolieri texani – e con l’esplicito sostegno dei diritti civili, tema assai male accolto in tutto il Sud americano.
La faccenda della “allowance”, soprattutto, costituiva una minaccia grave. John Kennedy aveva detto esplicitamente che avrebbe cancellato la bonanza del 27,5% concessa ai petrolieri texani. I quali potevano detrarre dalle tasse quasi un terzo dei profitti per i pozzi petroliferi che venivano esaurendosi.

Sufficiente per ucciderlo? Nessuno può affermarlo, ma come movente non era niente male. E poi c’è la questione: dov’era George “Poppy” Bush mentre Kennedy cadeva sotto i colpi dei fucili? Nessuno andò a verificare, per anni, le stranezze davvero ciclopiche di questa circostanza. Fino al 25 agosto 1988. Quel giorno, una settimana dopo che George “Poppy” Bush aveva accettato la nomination a candidato presidenziale per il Partito Repubblicano, apparve sul San Francisco Examiner un breve articolo, a firma Miguel Acoca, che rivelava l’esistenza documentata di una telefonata che Bush aveva fatto in quelle ore. Vale anche qui la pena di citare le parole esatte:
«Un individuo che è stato identificato come George H. W. Bush ha chiamato l’ufficio dell’FBI in Houston alcune ore dopo l’assassinio a Dallas del Presidente John F. Kennedy, al fine di riferire che un giovane repubblicano di destra aveva parlato di ‘uccidere il presidente’».
In realtà la strana telefonata fu fatta esattamente sette minuti dopo che Walter Cronkite leggesse il dispaccio dell’Associated Press che annunciava la morte di JFK.

L’FBI, con molta diligenza, aveva registrato anche l’indirizzo dell’autore della telefonata: 5525 Briar, Houston, Texas. Era l’indirizzo di colui che, nel 1988 era il vice-presidente degli Stati Uniti d’America. Sempre l’FBI si era precipitata a interrogare il giovanotto oggetto della denuncia di Poppy. Lo trovò subito. Si chiamava James Milton Parrott. Ma tutte le verifiche successive non condussero a nulla. Salvo una: che Parrott era un militante del Partito Repubblicano, che aveva frequentato l’ufficio di Poppy a Houston. E salvo un’altra: che l’agente FBI che raccolse la telefonata – tale Graham Kitchel – era assai vicino al capo dell’FBI, J. Edgar Hoover e che suo fratello George Kitchel era un vecchio amico di George H. W. Bush. Tutte coincidenze che, però, spiegano bene perché quella telefonata fu così tempestivamente e precisamente documentata. Questo vale per l’«allora». Ma quando, quindici anni dopo, Miguel Acoca si rivolge ai suoi uffici per avere conferme, o smentite, ecco la sopresa: in un primo tempo il vice-presidente in carica e ora ufficialmente candidato alla presidenza, nega di aver fatto quella telefonata. E poi un suo aiutante afferma che il presidente “non ricorda” di avere fatto quella telefonata. Russ Baker, con ragione, si stupisce: come è possibile una tale dimenticanza? Se l’atto fu innocente – e anzi potrebbe essere ben difeso come segno di responsabilità civica, di un capo politico che, in nome della giustizia, che giunge ad accusare un membro del suo stesso partito – perché nasconderlo?
Dunque restano valide le ipotesi peggiori: la telefonata, riesaminata retrospettivamente, sembra dire che, in uno dei momenti più delicati della storia americana, Poppy stava cercando di dirottare l’attenzione dell’FBI verso un vicolo cieco per le indagini. Ma questo è il meno.

Il “più” è che la telefonata fu fatta, alle ore 1:45 pm del 22 novembre, dalla cittadina di Tyler, qualche centinaia di miglia da Dallas, dove George H. W. Bush avrebbe dovuto tenere una conferenza di fronte ai soci del Kiwani Club. In tal modo Poppy riesce a infilare negli atti ufficiali dell’indagine sull’assassinio il fatto che egli non si trovava a Dallas mentre esso avveniva. Lo fa tirando in causa, molto stranamente, un suo indiretto collaboratore, che risulterà del tutto estraneo all’assassinio: una successione di atti, apparentemente sconnessi tra loro, che sembrano costruiti apposta, però, per depistare eventuali curiosità. Più che legittime, del resto, poiché risulta che Poppy era invece a Dallas la sera prima dell’assassinio; che dormì all’Hotel Sheraton, e ripartì solo la mattina successiva a bordo di un aereo privato che gli era stato messo a disposizione da Joe Zeppa, presidente della American Association of Oil Drilling Contractors (AAODC). Insomma la telefonata da Tyler appare essere stata concepita per occultare la presenza di Poppy a Dallas mentre parlava – guarda caso – con i petrolieri texani.

E fossero solo queste le “stranezze” – si ricordi: tutte emerse parecchi anni dopo quegli eventi, a dimostrazione che i depistaggi furono molto efficaci – del comportamento di Poppy!

Il 5 settembre 1976 – 13 anni dopo – George Bush era a capo della CIA e ricevette una lettera, firmata George de Mohrenschildt, dal cui testo appare che il suo autore è dispiaciuto di avere parlato, o forse straparlato, di Lee Harvey Oswald. E chiede aiuto. Il testo merita di essere riportato per esteso, poiché è evidente che si tratta di un disperato tentativo di ricatto. Niente meno? Uno sconosciuto, che si firma, tenta di ricattare il direttore della CIA?
«Può essere – scriveva de Mohrenschildt – che lei possa trovare una soluzione alla situazione disperata in cui mi trovo. Mia moglie ed io siamo circondati da certi sorveglianti, i nostri telefoni sono sotto controllo; siamo seguiti dovunque andiamo. Non so se l’FBI sia coinvolto in ciò, oppure se non vogliono accettare le mie proteste. Questa situazione ci fa impazzire ..
Ho cercato di scrivere, stupidamente e senza successo, riguardo Lee H. Oswald e presumo di avere irritato molta gente. Non lo so. Ma punire un vecchio quale io sono ormai e mia moglie, in preda a una crisi di nervi, è veramente troppo. Lei non potrebbe fare qualche cosa per toglierci di dosso questa rete che ci circonda? Questa sarà la mia ultima richiesta di aiuto e poi non la disturberò più».

La lettera – che esordiva con un “Caro George” – fu filtrata dagli uffici della CIA che ovviamente pensarono fosse un falso. Ma, per prudenza, chiesero al destinatario se, per caso, conoscesse questo de Mohrenschildt. Negli archivi c’è la risposta di Poppy, che – dati gli errori di battitura – sembra essere stata dattiloscritta personalmente da lui:
«Conosco questa persona De Mohrenschildt. L’ho incontrato (scrive men invece di met, ndr) nei primi anni ’40 (scrive 40’3, ndr). Era lo zio di un mio compagno di corso a Andover… Successivamente riemerse quando Oswald sparò sul vertice. Conosceva Oswald prima dell’assassinio del Pres. Kennedy. Non ricordo il suo ruolo in tutta questa faccenda».
Altra dimenticanza quasi impossibile. Anzi, per essere più precisi: del tutto impossibile.
Perché George de Mohrenschildt era molto di più che lo zio di un vecchio compagno di studi: era stato un socio in affari di Poppy Bush. E il suo interrogatorio era stato, seppure per una breve parentesi, uno dei momenti più intriganti dell’inchiesta sull’assassinio di JFK. In quel frangente era in corso una serie di inchieste contro gli abusi della CIA, in specie negli assassini di capi di stato esteri. E, proprio in quei mesi, e in relazione a quelle inchieste, si stava ripresentando l’ipotesi di riaprire anche l’inchiesta sull’assassinio di Kennedy. Pensare che il capo della CIA fosse così distratto in materia è fuori di ogni credibilità. Qui è palese che George H. W. Bush sta mentendo.
Inoltre, quando Bush dice che colui che scopriremo essere stato un suo vecchio amico e sodale “conosceva Oswald”, mente per difetto. Poiché non poteva non sapere che George de Mohrenschildt, dal 1962 al 1963 (cioè nell’ultimo anno prima dell’assassinio di Kennedy), era stato aiuto, guida, maestro e confidente di Lee Harvey Oswald, lo aveva aiutato a trovare lavoro, a cercare casa; lo aveva introdotto in diversi ambienti sociali di Dallas; frequentava la sua casa, e le rispettive mogli si conoscevano molto bene.

Del resto, che si conoscessero bene lo dimostra la lettera di risposta che George H. W. Bush manda all’altro George. Nella quale, cortesemente tranquillizzandolo, gli comunica di “non potere risolvere completamente” il suo problema.
Russ Baker (autore di questa documentata ricostruzione) commenta: «Per una persona che conosceva ciò che de Mohrenschildt conosceva, una tale notazione dev’essere stata terrificante».

Meno di sei mesi dopo George De Mohrenschildt si uccideva con un colpo di fucile alla bocca. Conclusione del medico: suicidio. L’ex moglie di de Mohrenschildt, Jeanne (agente della CIA) in una intervista al Fort Worth Star-Telegram dell’11 maggio 1978, disse che non riteneva credibile la tesi del suicidio; aggiunse che Oswald era stato un agente della CIA; che secondo lei non era lui l’assassino di Kennedy. E, per quanto concerneva se stessa, aggiunse: «Può darsi che raggiungano anche me, ma non ho paura (.) E’ tempo che qualcuno dia un’occhiata a questa faccenda.»

Infatti il Senato americano, il 17 settembre 1976, dopo mesi di infuocate discussioni, aveva deciso di riaprire l’inchiesta, seppure in una forma soft, indiretta, costituendo l’House Select Committee on Assassination (HSCA). Basta confrontare le date e si vede che la lettera a Bush di George de Mohrenschildt anticipa di qualche giorno la decisione istitutiva dell’HSCA. Il rischio era altissimo che George venisse richiamato a testimoniare. E nella lettera egli fa un riferimento indiretto a questa eventualità laddove parla di cose che egli avrebbe “scritto”, o detto, a proposito di Oswald, che “possono avere irritato parecchie persone”. Ma George de Mohrenschildt non aveva pubblicato nulla. Dunque la frase va letta invertendo i termini: potrei dire cose che irriteranno parecchie persone.
Non aveva torto. Nelle settimane che precedettero la sua controversa morte, l’HSCA aveva nominato un investigatore speciale per il suo interrogatorio, Gaeton Fonzi. Che arrivò tardi all’appuntamento.
E non fu l’unica morte improvvisa, tra coloro che avrebbero potuto essere nuovamente interrogati, o interrogati per la prima volta. Ci fu un altro stretto amico di George de Mohrenschildt a lasciarci la pelle. Si chiamava Paul Raigorodsky, fuoruscito di Russia molti anni prima e divenuto facoltoso petroliere texano, anima della comunità texana dei fuorusciti russi, connesso con tutte le operazioni della CIA in America Latina, sostenitore del Partito Repubblicano, uno dei padroni di Dallas. Il 22 novembre 1976, accettò di farsi intervistare da Michael Canfield sul tema dell’assassinio di JFK. Anche lui rientrava nel novero dei possibili inquisiti, o testimoni informati degli eventi. Le sue risposte non furono interessanti: “Ho detto tutto ciò che sapevo alla Commissione Warren. Ma qual è la ragione del suo interesse per queste faccende?”. Canfield riferì di avergli risposto così: “Oh, sono semplicemente curioso, ecco tutto”. Raigorodsky replicò: «Ma lei non lo sa che fu la curiosità a uccidere il gatto?»
Raigorodsky fu trovato morto il 16 marzo 1977, prima di poter essere interrogato dalla HSCA. Referto medico: cause naturali. Non fu la curiosità a uccidere lui.

E ora, con l’aiuto di Russ Baker, tiriamo le conclusioni. Oswald dice di essere stato un “capro espiatorio” e viene ucciso subito dopo da Jack Ruby. «Come molti pedoni di ultimo rango nella guerra tra servizi segreti», nota Baker, egli avrebbe potuto non conoscere affatto per chi stava lavorando e perché. Sappiamo che fu condotto per mano in varie e contradditorie avventure. Avrebbe potuto pensare di far parte di una cospirazione, mentre in realtà era guidato a prendere parte a un’altra, in cui sarebbe morto. Uno di questi “guidatori” fu sicuramente George de Mohrenschildt, una specie di copia – ma molto più astuta e consapevole – di Oswald, anche lui agente della CIA, petroliere, ricco, ma anche personalità a molte facce, tutte utili allo sviluppo di diversi disegni.
Lo scrittore Norman Mailer – un altro che non ha mai creduto alla storia dell’assassino unico – nel suo “Oswald’s Tale”, gli dedicò un ritratto esaustivo, di persona «eclettica, che amava rappresentarsi, ad un tempo, come di destra, di sinistra, come un moralista e un immoralista, come un aristocratico e un nichilista, uno snob, un ateo, un repubblicano e un ammiratore di Kennedy, un desegregazionista, un intimo dei petrolieri, un bohemien, un socialistoide e, in più, una volta all’anno, un apologeta del nazismo». Nel suo libretto d’indirizzi trovarono il nome di George Bush, Poppy per gli amici, quando era a capo della “Zapata Oil”. Perfino i rapporti dei servizi segreti americani, negli anni delle sue intense relazioni con i petrolieri di Dallas, lo consideravano personaggio equivoco, possibile doppio e triplo agente. La guida ideale per preparare Lee Harvey Oswald a compiere qualche cosa che avrebbe dovuto apparire come inesplicabile, frutto di uno squilibrato, ma forse frutto di un attentato comunista, vuoi sovietico, vuoi cubano. Queste cose si decidono all’ultimo momento, secondo convenienza. E, se le cose vanno per il verso storto, si liquida il pedone. Ma per liquidare il pedone stupido ce ne vuole un altro, qualche volta meno stupido, ma che non può sottrarsi alla bisogna. Se parlerà si liquiderà anche il secondo pedone, al quale si lascia la speranza che possa sopravvivere.

Jack Ruby, sparò, e sperò. Solo dopo il suo processo si lasciò sfuggire qualche cosa. Leggete questo dialogo, con un giornalista, e traetene le conclusioni:
Ruby: «Nulla di ciò ch’è accaduto è emerso alla superficie. Il mondo non conoscerà mai i fatti veri che sono accaduti e i miei motivi. Le persone che avevano molto da guadagnare avevano anche molti motivi per mettermi nella posizione in cui mi trovo, e costoro non consentiranno mai a che il mondo conosca cosa accadde».
Giornalista: «Questa gente si trova in posizione di potere, Jack?»
Ruby: «Sì»

(Si può vedere qui la dichiarazione di Jack Ruby: www.youtube.com/watch?v=Yv3o9vx3VNM,  ndr).

Riassunto (con avvertenza, a chi volesse conoscere meglio le connessioni che qui sono solo accennate, di accedere al sito familyofsecrets.com, che contiene tutta l’informazione circa le fonti e anche gli updates emersi nel frattempo):

Poppy Bush era in stretti rapporti d’interessi con la lobby petrolifera texana, che voleva togliere di mezzo i Kennedy. Molti dei personaggi cruciali del network segreto in Texas, che era stato costituito da tempo e che entrò in azione il 22 novembre 1963, erano suoi compagni di partito o ex soci in affari, suoi personali o della famiglia Bush, a cominciare dal padre Prescott. Tra questi, tre personaggi-chiave furono Neil Mallon (Republic National Bank); Allen Dulles, ex capo della CIA; John Edgar Hoover (capo dell’FBI che lavorava in coppia con il vice-presidente Lyndon Johnson). Di quest’ultimo già s’è parlato. Immediatamente al di sotto, nel complotto, ci fu Jack Crichton, candidato anche lui del Partito Repubblicano, che si prevedeva avrebbe corso in coppia con Poppy, che dava ordini al Dipartimento di polizia di Dallas. L’autista che guidava il veicolo in testa al corteo presidenziale si chiamava George L. Lumpkin, era vice capo della polizia di Dallas e intimo amico di Crichton. Ma era anche membro della Army Intelligence Reserve Unit. Al suo fianco era seduto George Whitmeyer, ufficiale dell’esercito e comandante delle unità della Army intelligence Reserve di tutto l’est Texas, alle dirette dipendenze di Jack Crichton. Whitmeyer non era sulla lista approvata dal Servizio Segreto per guidare il corteo presidenziale. E si noti infine che George L. Lumpkin fece fare una sola sosta al corteo, fermandosi (“per chiedere un’informazione” (sic) a un agente della polizia stradale) proprio all’incrocio tra Houston and Elm Streets, di fronte al Depository Building dove stava Oswald). Jack Chricton era stato il fondatore, della “Dallas Civil Defense”, un’organizzazione ferocemente anticomunista, che il 1 aprile 1962 aveva installato un comando clandestino sotto il patio del Museo di Scienze e Salute di Dallas. Il luogo da dove, presumibilmente, fu guidata l’operazione 22 novembre 1963. Della “Dallas Civil Defense” erano parte numerosi agenti della CIA e dell’FBI, oltre che della polizia cittadina. Non risulta che la Commissione Warren o qualcuno degl’investigatori dell’epoca abbia mai visitato questo sito.
Poppy Bush era a Dallas la sera del 21 novembre, e molto probabilmente anche la mattina del 22. E cercò di occultare questa circostanza. Mentre appare evidente che, con la telefonata da Tyler, cercò di crearsi un alibi.
Poppy Bush era amico personale di George de Mohrenschildt, ma cercò di occultare anche questa circostanza.
Chrichton era anch’egli amico di George de Mohrenschildt, e entrambi erano amici di D. Harold Byrd, proprietario della Texas School Book Depository, l’edificio dal quale Oswald avrebbe sparato a Kennedy.
Harold Byrd propose al custode della Depository di assumere Oswald poche settimane prima dell’attentato.
Oswald fu presentato per l’assunzione da un amico di de Mohrenschildt, che aveva legami di parentela con Allen Dulles.

Di tutto ciò la Commissione Warren, in parte, sapeva, ma fece finta di non sapere e non indagò. Quel poco che se ne sa emerse anni, anzi decenni dopo, quando Poppy Bush ritentò la carta della presidenza e qualcuno, forse, cercò di fermarlo. In ogni caso Poppy Bush fu due volte presidente e suo figlio George ripetè l’exploit del padre. E nessuna verità è emersa fino ad ora, nemmeno con Barack Obama, democratico e nero.

Il che conferma molte delle mie conclusioni, che coincidono esattamente con quelle di Russ Baker. Tra queste una è evidente: il Presidente degli Stati Uniti, chiunque egli sia, ha meno potere personale di quanto si pensi. Il suo potere reale è un derivato delle lobby che lo hanno eletto. Nel caso dei Kennedy, essi furono eliminati perché la loro lobby fu soverchiata da interessi troppo potenti. E perché entrambi, specie Robert, erano prodotti anomali dell’establishment, non disinnescabili, pericolosi. Dunque non da sconfiggere (come nel caso di Nixon), ma da uccidere. Nel caso dei Bush, la loro ascesa al potere americano, fu (ed è, perché il loro potere non è affatto finito) nella potenza della “famiglia” e dei suoi legami.

Un’altra conclusione è evidente: il ricorso sistematico alla teoria del “lupo solitario” che uccide. Valse per Lee H. Oswald vs. Jack Kennedy, valse per Sirhan B. Sirhan vs. Robert Kennedy, valse per James E. Ray vs. Martin Luther King, valse per Osama bin Laden vs. le Torri Gemelle e il mondo intero. Non importa se le risultanze, in seguito, smentirono le versioni ufficiali, poiché ciò che conta, sempre, è la prima versione che viene offerta al grande pubblico. I media sono sempre stati, in tutti questi casi, complici della “distrazione delle masse”. E’ attraverso di loro che si è sempre cercato di seppellire nel ridicolo tutti coloro che dissentivano, bollandoli con la qualifica dispregiativa di “teorici della cospirazione”. Marshall McLuhan diceva che «solo i piccoli segreti vanno protetti. Per quelli grandi sarà sempre sufficiente l’incredulità della gente.» Su questo fanno leva i grandi media.
Il che ci porta a una conclusione semplice: bisogna cominciare a sottoporre i media a una lotta senza quartiere.

 

 
 
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