(a cura di) Vladimir Rudakov
Il giornalista e politico Giulietto Chiesa ha lavorato per venti anni a Mosca come corrispondente. Tra gli altri momenti di cui fu testimone ci sono quelli dell’autunno 1993. Giulietto Chiesa ha, nel merito, idee particolari.
Arrivò a Mosca nel 1980 come corrispondente del giornale L’Unità, allora organo ufficiale del Partito Comunista Italiano. Nel 1990 diresse l’ufficio moscovita del più moderato quotidiano La Stampa. A quei tempi Chiesa fu assai vicino agli alti uffici dei leader della perestrojka ed ebbe occasione di frequentare direttamente molte delle stelle politiche dell’allora firmamento. A quei tempi egli fu in buoni rapporti anche con il Presidente dell’URSS Mikhail Gorbaciov, verso il quale, come socialdemocratico italiano, egli mostrò evidente simpatia. È probabile che, proprio a causa di ciò, e alla reciproca simpatia tra Gorbaciov e Chiesa, Boris Eltsin non ebbe mai alcuna simpatia per l’italiano. Del resto lo stesso Chiesa fu molto critico nei confronti di Boris Eltsin.
Proprio dalle parole di Chiesa emerge la sua definitiva convinzione che il primo Presidente della Russia, contrariamente all’immagine che ne venne creata, in realtà fosse lontano da ogni ideale democratico. Anche il sistema economico che prese forma in quegli anni nel nostro paese, Chiesa lo considerò in modo negativo: la “terapia choc” messa in atto dal governo dei riformatori, agli occhi di Chiesa non aveva niente a che vedere con la creazione di un’economia più progressiva, ma era una copiatura insensata delle ricette degli economisti di Harvard. Giulietto Chiesa, partendo dalle sue posizioni antiglobaliste e di avversario della dominazione americana, interpreta ciò che accadde in Russia nell’autunno del 1993. A tratti egli si esprime in modo piuttosto categorico ed è possibile non essere d’accordo con tutte le sue valutazioni. Tuttavia ascoltare i suoi pareri, di persona che ha assistito con molta attenzione allo sviluppo degli eventi, che ha conosciuto di persona molti dei protagonisti di quell’epoca e, per giunta, che si è sempre mostrato ben disposto nei confronti della Russia, sembra utile, e merita porre attenzione a ciò che dice.
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Choc e delusione
— Quali furono le basi del conflitto che esplose alla luce nell’autunno del 1993? Si trattò di rapporti personali deteriorati tra Eltsin e Khasbulatov, di interessi economici contrastanti, di scontri tra diversi clan, di una crisi costituzionale? Quali, tra questi elementi, furono quelli principali, secondo il suo punto di vista?
Ciascuno di essi fu presente, ovviamente. Tuttavia io penso che quello principale fu un altro: quei tre anni, 1991, 1992, 1993, provocarono nella popolazione russa un vero e proprio choc. Un colpo derivante da una colossale delusione.
Ricordiamo il 1991: allora i sentimenti della maggioranza della gente erano non certo dalla parte della società sovietica. Moltissimi erano, se non apertamente contro la costruzione socialista, sicuramente dell’opinione che fosse ormai necessario un cambiamento. Credevano a Boris Nikolaevic Eltsin, pensavano che egli impersonasse un nuovo vettore dello sviluppo della Russia. Ma, già nel 1993, tutte quelle speranze erano praticamente evaporate. E la delusione s’impose assai presto. È cosa che ricordo perfettamente e questo fu uno dei fattori cruciali che mi servì per valutare la situazione.
In quell’autunno del 1993 io fui testimone della più immensa delle manifestazione popolari che io avessi mai visto in tutta la mia vita, fuori e dentro l’Unione Sovietica. Né avevo visto cose di analoga dimensione in Italia, dove pure di grandi manifestazioni di massa ce n’erano state non poche; né altrove ebbi mai occasione di vedere un tale mare di popolo. Fu una manifestazione gigantesca che spezzò letteralmente l’accerchiamento della Casa Bianca, deciso dal Presidente. Non esisteva in quel momento nessuna forza politica, nemmeno il Partito Comunista in grado di portare in piazza una tale quantità di persone. Da quello che vidi capii che il furore popolare era davvero grande. I moscoviti interpretarono in quel momento il sentimento generale dei russi. “Ci hanno ingannato!” Di fatto il paese si trovò sul limitare di una nuova rivoluzione. La rivolta del Soviet Supremo della Federazione Russa contro Eltsin non fu altro che il fiammifero che accese la miccia.
— Da dove venivano queste spinte alla protesta?
Prima di tutto dal fatto che le riforme di Gaidar, la privatizzazione, la svalutazione del rublo e tutte le altre misure economiche, colpirono direttamente il livello di vita dalla popolazione.
La gente si aspettava (e, certo, era un’attesa irrealistica) che il passaggio dal socialismo al capitalismo avrebbe richiesto un periodo di tempo molto breve. Così pensavano milioni di ex cittadini sovietici, i quali nulla sapevano della realtà del capitalismo e non avevano alcuna conoscenza dell’economia. Ma furono gli stessi riformatori che alimentarono l’inganno, ripetendo che si sarebbe potuto effettuare il passaggio al libero mercato e all’aumento del tenore di vita nello spazio di uno o due anni. Eltsin, per conto suo ripeteva queste sciocchezze dagli schermi televisivi. Fino a che, al terzo anno di riforme, a tutti fu chiaro che non ci sarebbe stato nessuno sviluppo verso il meglio. Peggio: in quel momento quasi metà della Russia e della sua economia erano già state completamente demolite.
La frattura all’interno del potere
— È evidente che ci fu un conflitto all’interno dell’élite al potere. Infatti nell’agosto 1991 coloro che, nel 1993 si scontrarono — intendo Eltsin e il Parlamento — erano un’alleanza di ferro, erano praticamente la stessa cosa. Quando si aprì la frattura?
Lei dice correttamente che i rapporti personali si deteriorarono. Ci furono scontri tra Eltsin, da un lato, e Rutzkoj e Khasbulatov dall’altro, e dalla parte di questi ultimi c’erano molti degli allora deputati. Molti di loro si resero conto di essere ormai fuori gioco, che la nuova élite — che emergeva in primo piano insieme al governo Gaidar, non li avrebbe ammessi nella fase delle decisioni cruciali. Si resero conto che questi uomini nuovi , completamente orientati in senso pro-americano, non sentivano alcun bisogno di cercare l’approvazione del parlamento e avrebbero imposto la loro linea senza guardare in faccia a nessuno. Accadde anche che non tutti coloro che prima erano pronti a rompere la schiena a Gorbaciov si scoprirono disposti a passare dalla parte del “quartiere generale delle riforme” che prendeva ordini da Washington. Ho l’impressione che una delle cause della frantumazione dell’élite fu di questo tipo. Furono in molti, tra coloro che volevano difendere la Russia, quelli che non erano d’accordo sul fatto che essa dovesse svilupparsi secondo gli ordini dell’America. Certo vi furono tante strategie quanti erano i protagonisti di quella fase, ma in sostanza io penso che molti compresero allora a cosa avrebbe condotto la linea di Eltsin e di Gaidar. E molti non volevano che il seguito del crollo dell’Unione Sovietica fosse il crollo della Russia.
—Secondo lei, dunque, la squadra dei riformatori incuteva allarmi così gravi?
—Ho le mie opinioni personali, formatesi dall’analisi dei fatti che si evolsero sotto i miei occhi. Ricordo per esempio una grande riunione, organizzata dal governo di Gaidar. Si tenne a Nizhnij Novgorod. Vi parteciparono, tra gli altri, Anatolij Ciubais, Piotr Aven, lo stesso Gaidar e parecchi altri membri della squadra dei riformatori. Fu l’incontro tra questi e i cosiddetti “direttori rossi”, cioè i dirigenti economici e industriali dell’era sovietica. In quella fase il governo voleva ancora trattare con loro, ascoltarli. Tuttavia non passò molto tempo che le loro opinioni, dei direttori sovietici delle grandi imprese, vennero accantonate come superflue. A quell’incontro parteciparono, credo tra 500 e 600 direttori. Che cercarono di spiegare ai giovani riformatori — che sedevano al presidium — come in realtà funzionava l’economia del paese. Essi si sforzarono di convincere gl’interlocutori governativi che la loro intenzione non era quella di opporsi al cambiamento del sistema, ma che esso non avrebbe dovuto comportare la chiusura generalizzata delle aziende. Avvertirono che altrimenti ci sarebbero stati milioni di lavoratori espulsi dalla produzione, che avrebbero perduto d’un tratto ogni mezzo di sostentamento. E che tutto ciò avrebbe avuto effetti devastanti sull’intera società. Insistettero che non si doveva identificare le riforme solo con la privatizzazione e che si sarebbe dovuto proteggere la produzione industriale, almeno entro certi limiti. Questa fu la linea adottata dalla platea dei “direttori rossi”.
– Quale fu la reazione del governo?
Ricordo perfettamente come tutti quei giovani dirigenti, che sedevano al presidio, senza eccezione, ascoltassero con ostilità e disprezzo. C’era, tra chi sedeva in platea e quelli che stavano sul palco, una differenza radicale di atteggiamenti. I primi erano di gran lunga più realisti dei membri del governo. Questi ultimi, forse addirittura credendoci, rispondevano invariabilmente che il passaggio al capitalismo doveva essere veloce e realizzato con decisione. Alcuni di loro, rispondendo alle obiezioni, spiegarono che non ci sarebbero state difficoltà; che sarebbero arrivati capitali stranieri, investimenti cospicui; che occorreva chiudere le fabbriche non redditizie, che bisognava abbandonare la zavorra ereditata dall’Unione Sovietica e che infine tutto sarebbe tornato alla normalità in breve tempo. Ma coloro che sedevano in platea — sicuramente più sperimentati — sapevano che tutto ciò non sarebbe stato possibile. La differenza era palpabile e io la percepii perfettamente. Se non ricordo male questo confronto avvenne alla metà del 1992. In ogni caso penso che la delusione nei confronti delle riforme e nei riformatori cominciò in quella fase a produrre resistenze tra la popolazione contro le trasformazioni in corso. Fu in quella fase che gli stessi riformatori compresero che milioni di persone avrebbero reagito con proteste alle loro decisioni. E cominciarono a studiare le modalità di neutralizzare la rivolta possibile.
«Vissero nell’illusione»
— Lei pensa che i protagonisti di quel conflitto incombente fossero disposti a un compromesso?
— No, assolutamente no! E lei sa perché la penso così? Perché io ero convinto che Eltsin e la sua squadra non erano indipendenti nelle loro azioni. Essi prendevano le loro decisioni in base ai consigli e agli ordini (e gli ordini erano più numerosi dei consigli) provenienti dagli Stati Uniti d’America. Le principali decisioni che venivano intraprese dal governo di Gaidar erano scritte ad Harvard e trasmesse via fax a Mosca. Mi riferisco all’Università di Harvard, a Jeffrey Sachs, a Anders Aslund: agli economisti americani che, con totale nonchalance, ritenevano che la transizione dal socialismo al capitalismo sarebbe stata semplice e naturale se fossero state applicate puntualmente le loro raccomandazioni. Era un’idea semplicistica, integralmente americana, secondo cui sarebbe stato sufficiente modificare le condizioni strutturali, le forme della proprietà, e il capitalismo sarebbe apparso in tutta la sua efficienza. Di questo erano certi. E, poiché praticamente tutti gli economisti liberali russi erano impregnati della cultura economica e dell’influenza degli Stati Uniti, la conseguenza era che tutti si ingegnavano di seguire pedissequamente le istruzioni che venivano da quella parte: “se gli americani, che sono i creatori del capitalismo moderno, questo dicono, allora è così che si deve fare”. Chi pensava in questo modo — è bene lo si tenga presente — non aveva per altro la più pallida idea di cosa in realtà fosse il capitalismo in Occidente.
– Spero che lei non voglia dire che erano tutti agenti al soldo dello straniero.
– Non è di questo che parlo. Però avevano in testa l’idea che l’Unione Sovietica fosse “l’Impero del Male”. Di conseguenza tutto ciò che ne rappresentava l’eredità era altrettanto male. Dunque bisognava prendere ad esempio tutto ciò che proveniva dall’”Impero del Bene” e realizzarlo senza alcuna esitazione. Cerchiamo di capirci. Essi pensavano che l’Occidente era bene. Non esistevano chiaroscuri, non c’erano altri elementi ideologici a offuscare questa convinzione. Essi pensavano che l’imperialismo fosse una invenzione sovietica e che in Occidente fosse già stato costruito il paradiso in terra, con la democrazia e la giustizia allegate. Essi non avevano la minima idea circa l’esistenza di interessi diversi, soprattutto interessi di stato, ciascuno di essi peculiare e spesso contrapposti tra di loro. Non pensavano che l’America non era la Russia e che non lo sarebbe stata né allora, né oggi, né domani. E nemmeno dopodomani. Non gli passava per la testa che l’America era l’America e la Russia sarebbe rimasta la Russia. Una tale visione storicistica era del tutto assente, mentre, al contrario, esisteva una genuflessione ideologica, a prescindere , verso l’Occidente . Era un inchino a priori di fronte agli “ideali dell’Occidente” che impediva di vedere che, già allora, essi erano quelli di una globalizzazione che stava avvenendo sotto l’egida degli Stati Uniti. Era pensiero comune che divenire uguale agli Stati Uniti era il destino dell’intera umanità mondiale, e che la Cina, come la Russia, l’Africa, e l’Asia. In primo luogo, ovviamente era questo il destino dell’Europa. Si viveva allora, in Russia, all’interno di questa illusione.
«Liquidazione finale del comunismo»
— Può ricordarci quale fu la reazione dell’opinione pubblica occidentale allo scenario di violenza allestito da Eltsin? Al fatto, cioè che la nuova democrazia russa agiva con durezza addirittura superiore a quella del regime comunista, bombardando un parlamento ribelle con i carri armati?
— L’opinione pubblica occidentale avrebbe reagito negativamente se solo avesse saputo ciò che in realtà stava accadendo a Mosca. In realtà io, che stavo a mosca ed ero testimone degli avvenimenti, potei misurare altrettanto bene il modo in cui i mass media occidentali li stavano raccontando. Secondo la loro narrazione Boris Eltsin era l’eroe, il primo presidente democraticamente eletto, che combatteva coraggiosamente contro i residuati del comunismo. Per milioni di europei e di americani gli avvenimenti dell’autunno del 1993 furono questi: “Il comunismo è morto, comincia l’era della democrazia”. Le opinioni pubbliche occidentali furono indotte a pensare che si trattasse di una seconda fase della rivoluzione democratica, dopo quella che era cominciata nell’agosto del 1991. E che Eltsin, come era accaduto allora, nella prima fase, di nuovo si fosse posto coraggiosamente alla difesa della giovane democrazia russa e avesse nuovamente vinto.
— Ma allora la CNN trasmise in diretta il bombardamento della Casa Bianca. Anche quello fu rappresentato come momento di affermazione della democrazia?
— Io in quei giorni collaboravo con il Quinto Canale della televisione italiana. Ricordo perfettamente che commentai in diretta, via telefono, la cronaca degli avvenimenti, del bombardamento della Casa Bianca, mentre il Quinto Canale stava mandando in onda proprio le immagini della CNN. Per una davvero singolare circostanza il mio ufficio, nei piani alti di un palazzo sul Kutuzovskij Prospekt, era collocato immediatamente al di sotto delle telecamere della CNN, che erano state piazzate sul tetto di quello stesso palazzo. Mi trovai dunque a commentare quelle immagini esattamente dallo stesso punto di osservazione con cui le videro centinaia di milioni di persone in Europa e America. Quel programma ebbe un rating altissimo: furono immagini viste da tutti. Ma il mio commento fu l’unico che diede il senso della tragicità di quello che stava avvenendo. Gli spettatori americani vedevano le stesse immagini, ma commentate in modo eroico ed entusiastico. Per i corrispondenti occidentali il presidente del Soviet Supremo, Rutskoj, il capo del Governo Khasbulatov, il Parlamento, erano le ultime propaggini del sistema sovietico. Tutti, dunque, facevano il tifo per Eltsin mentre procedeva alla loro eliminazione. Così il pubblico occidentale vide con i propri occhi la “liquidazione finale del comunismo”.
— Visto che si trattava di comunisti, allora si poteva fare tutto ciò che era utile allo scopo di cancellarli?
— Certamente” Tutti applaudirono contenti. Eltsin diventò l’eroe mondiale del momento. L’eroe dell’Occidente. Tutti erano contenti e soddisfatti come lo erano stati della fine dell’Unione Sovietica. “L’URSS è crollata, abbiamo vinto, ora è il momento di prendere il controllo pieno della situazione russa!”. Questo fu lo spirito con cui vennero visti gli avvenimenti dalle cancellerie occidentali.
Eltsin fu il garante più sicuro della trasformazione della Russia in strumento subalterno nelle loro mani. Ed essi furono pronti a chiudere gli occhi di fronte a tutte le possibili operazioni politiche interne che egli si apprestava a compiere. Così tutti i media occidentali, come tutte le cancellerie, mostrarono uguale soddisfazione per cose si erano messe le cose.
– E l’intelligencija “democratica” russa fece altrettanto. Perché?
— Perché ragionava con le stesse categorie. Tra i democratici russi e le élites occidentali non c’era nessuna differenza. Ecco perché quasi tutta l’intelligencija democratica applaudì Eltsin nell’ottobre 1993. Anzi, perfino prima dell’ottobre era stata l’intelligencija “democratica a spingerlo sistematicamente verso una soluzione di forza. Anche di questo fui testimone diretto. Ne conoscevo molti, di intellettuali russi di primo piano. Li frequentavo. Non pochi tra loro erano miei amici. Allora era comune idea quella di stabilire un tratto di uguaglianza tra gli aggettivi qualificativi “anti-comunista” e “democratico”. Uno equivaleva all’altro. Anche per questo Eltsin potè permettersi di adottare un metodo dittatoriale, militare, per risolvere il problema politico. Sapendo che avrebbe avuto il loro appoggio. Purché “stroncasse il comunismo”.
— Cioè, secondo lei, non prendevano in alcuna considerazione l’ipotesi che in realtà non era affatto il comunismo quello che si stava distruggendo? Oppure che quello che era in procinto di essere distrutto non aveva molto a che fare con il comunismo? In altri termini: che si stava mitragliando un parlamento che era stato eletto democraticamente
— Esatto. Non passò per la testa di nessuno una tale idea. Ai democratici del momento l’idea di democrazia mancava del tutto proprio in quanto tale. Lei forse sa che io sono fortemente critico nei confronti delle istituzioni democratiche dell’Occidente, e in particolare per le pratiche concrete che svolgono. E tuttavia riconosco che esse hanno ancora determinati contenuti che ne confermano la validità teorica. Ebbene io penso che non sia possibile definire come democratico il bombardamento di un parlamento. Eppure tutti i “democratici” russi applaudirono quell’atto.
«Sapeva quello che faceva»
— Quando, il 21 settembre 1993, Eltsin firmò il decreto N.1400 di scioglimento del Parlamento, in seguito al quale la Casa Bianca venne accerchiata, ma prima che cominciassero le sparatorie, sarebbe ancora stato possibile un compromesso per evitare il precipitare della crisi e uscirne evitando l’intervento dei carri armati?
— No, penso che era ormai tardi per una soluzione pacifica. Mettersi d’accordo a quel punto era ormai impossibile. Per altro fu l’Occidente, l’Amministrazione Clinton, che spinse Eltsin all’azione estrema. Essi temevano la possibilità di una nuova rivoluzione, questa volta contro Eltsin. Temevano che il potere di Eltsin venisse rovesciato e, con esso, svanisse per loro la possibilità di guidare i processi politici ed economici in corso in Russia. Non dobbiamo dimenticare che gli americani, allora come oggi, ragionano in termini molto lineari e pragmatici, guardando essenzialmente il bianco e il nero, senza badare alle sfumature. Queste non li interessano, non le vedono neppure. Per questo, dal loro punto di vista non c’era tempo da perdere: c’era lo spazio per decisioni radicali. Ed esse dovevano prevedere una vittoria senza compromessi per la “giovane democrazia russa”, sotto il comando di Eltsin e contro i “comunisti e i fascisti che occupavano il Parlamento”.
— Lei ha sottolineato ripetutamente che Eltsin agì con la benedizione, o addirittura con l’incoraggiamento diretto dei consiglieri americani. Non le sembra che, in questo modo, si riduce la sua personale responsabilità per ciò che avvenne?
— No, no! Niente affatto! Non penso che la sua responsabilità personale risulti diminuita. Al contrario un’immensa responsabilità politica e morale pesa sulle sue spalle. Lo conoscevo bene, di persona. L’avevo incontrato in numerose occasioni pubbliche, l’avevo osservato da vicino. E ogni volta ne avevo ricavato l’impressione di trovarmi di fronte a un uomo molto astuto. Niente affatto ingenuo. Calcolatore, Che trasudava letteralmente di desiderio di rivincita. Questi dati caratteriali ebbero un ruolo molto grande negli avvenimenti del 1990-1991, quando la sua personale avversione nei confronti di Gorbaciov diventò il fattore politico dominante. Penso che ciò ebbe lo stesso significato nei confronti dei capi della Casa Bianca, Khasdbulatov e Rutskoj. Eltsin era uno sperimentato uomo d’apparato, sapeva perfettamente dove andava e cosa stava facendo…
— E che dice di Rutskoj e di Khasbulatov?
— Erano uomini decisamente più semplici, perfino a tratti sorprendentemente ingenui e primitivi politicamente parlando. Nel pomeriggio del giorno prima del bombardamento, io ero dentro la Casa Bianca e potei seguire proprio da vicino, nella stessa stanza in cui si prendevano le decisioni, i modi con cui si improvvisavano le decisioni, con cui si cercava di imbastire la resistenza. Fu evidente che, quando la massa dei dimostranti a loro favore liberò la Casa Bianca dall’accerchiamento della polizia, loro non sapevano cosa fare. Si muovevano da una stanza all’altra, insieme, cercando di dare ordini e organizzare una qualche controffensiva. Alla fine decisero di mandare qualche camion carico di difensori della Casa Bianca, in grande parte del tutto disarmati, nella disgraziata spedizione verso Ostankino. Con l’idea di occupare la stazione della televisione e di iniziare le trasmissioni. Là, come lei ricorda, vennero accolti da una fittissima sparatoria in cui morirono decine di dimostranti. Quando li vidi partire dal piazzale posteriore della Casa Bianca pensai che quell’assalto sarebbe finito male. Chi li aveva inviati non si era reso conto di quali forze fossero già state messe in moto per distruggerli.