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Intervista al blogger e giornalista Antonio Aly Silva,
a cura di Marcello Sacco – Megachip.
Sulla costa occidentale dell’Africa, schiacciata fra il Senegal e la Guinea, c’è un’ex colonia portoghese che ha per capitale Bissau: la Guinea Bissau, appunto. I nostalgici del terzomondismo militante la ricorderanno come patria di AmÃlcar Cabral, lo sfortunato leader della guerra d’indipendenza contro il Portogallo. Oggi i racconti di chi ci è stato oscillano fra la descrizione di un popolo mite e rassegnato e gli scenari da incubo che sono valsi all’italiano Marco Vernaschi un premio World Press Photo per questo reportage. Perché il pezzo d’Africa più vicino al continente americano, crocevia storico del traffico di schiavi, è diventato un narcostato, ponte per la cocaina americana in Europa. Quanto tutto ciò contribuisca alla sua forte instabilità politica è oggetto di dibattito, di certo c’è che a Bissau ormai si viaggia al ritmo di un golpe ogni sei mesi. Alcuni riescono, altri no.
Quando, ai primi di marzo del 2009, in 24 ore furono uccisi il Capo di Stato Maggiore dell’esercito, Tagme Na Waie, e lo storico presidente Nino Vieira, in un hotel di Bissau riposava lo scrittore Frederick Forsyth, che alla stampa inglese raccontò una di quelle scene che, in un romanzo, la critica bollerebbe come inverosimile pulp fiction: un presidente barricato assalito a colpi di granate, poi fucilato, eppure ancora vivo, quindi fatto a pezzi col machete. Il blog Ditadura do consenso pubblicò la raccapricciante scena del delitto.
a allora, un altro putsch, nel 2010, ha portato al vertice delle forze armate il generale Antonio Injai, che il 12 aprile scorso, tra il primo e il secondo turno delle presidenziali, architetta l’ennesimo rovesciamento e allontana il candidato in vantaggio, Carlos Gomes jr (già primo ministro), la cui maggioranza relativa non è riconosciuta dal rivale in corsa, Kumba Ialá.
L’ONU, che finora da queste parti non ha brillato (i golpisti del 2010 andarono a prendersi l’allora Capo di Stato Maggiore, Zamora Induta, proprio nel compound delle Nazioni Unite dove si era rifugiato), ha giocato la carta del Nobel, nominando suo rappresentante speciale José Ramos-Horta, eroe dell’indipendenza di Timor est.
Ad Antonio Aly Silva, il giornalista e blogger di http://ditaduradoconsenso.blogspot.pt/ che, anche nei momenti più bui dei vari black out democratici, è riuscito a proporsi come fonte informativa affidabile (pagando anche in termini di incolumità personale) domandiamo: qual è la situazione attuale e quali le prospettive a quasi un anno da quel golpe?
«La situazione politica è decrepita. La Guinea è bloccata sia politicamente che economicamente. Per fare un esempio: abbiamo le esportazioni di anacardi ferme nei porti da un anno. E poi ci sono violazioni dei diritti umani tutti i giorni. Da qualche giorno è sicuramente morto, in carcere, Júlio Mombali (ex braccio destro di Antonio Indjai, tra i capi delle operazioni del 12 aprile, recentemente caduto in disgrazia, ndr). Io lo so che è morto, ma nessuno lo dice. Forse per lo sciopero della fame che aveva iniziato, ma anche perché è stato picchiato. E questo è solo il caso più recente. Quanto alle elezioni, ci sono pressioni perché si facciano entro la fine del 2013, ma chissà se ci saranno le condizioni giuste. Il golpe ha interrotto un processo elettorale. Tra le forze politiche che hanno firmato il patto di transizione, nessuna siede in Parlamento. Il Parlamento ha esaurito il suo mandato, eppure gli è stato prorogato. Si vive nell’anarchia, con arresti, torture e un esercito in cui nemmeno i generali riescono più a controllare i propri soldati».
Un recente articolo del Telegraph parlava di carovane della cocaina che alimentano Al Qa’ida, mentre il suo blog ha ripreso un’intervista di Der Spiegel al direttore generale della Polizia Giudiziaria, che dice una cosa piuttosto desolante: se voglio perdere il lavoro, devo farlo bene. Il giorno che riesco a intercettare un carico di droga, mi licenziano. Quanto influisce il narcotraffico sull’instabilità istituzionale?
«È un problema serio. Fortaleza, in Brasile, è a quattro ore di volo da Bissau. In Guinea entrano in media, ogni notte, 900 chili di cocaina. Al momento, molta di questa droga è bloccata, a causa della guerra in Mali. Ho la sensazione che Capo Verde ritornerà a far parte della carovana della droga. L’arcipelago di Capo Verde è vicino alle nostre isole Bijagós; lì la droga viene stoccata e poi smistata. Le canoe che hanno licenza di pesca artigianale fanno da spola con le grosse imbarcazioni in alto mare. Ed è così che la droga va alle Canarie e finisce per ammazzare gli europei. Mi domando: perché l’Europa permette tutto ciò? La Guinea deve essere aiutata».
In realtà , solo tra i Paesi lusofoni esistono ben due organismi: quello dei Paesi di lingua portoghese (CPLP), che include il Brasile, e quello dei Paesi africani di lingua portoghese (PALOP). Ma il Brasile è troppo impegnato a crescere e il Portogallo a non decrescere troppo (già all’indomani dell’ultimo golpe, i giornali si facevano i conti di quanti milioni sarebbero costate le operazioni di riscatto dei portoghesi residenti laggiù).
Gli unici che sembrano avere idee chiare sul destino strategico di quella zona sarebbero gli angolani, che però non godono di molta simpatia a Bissau e forse neanche nel resto dell’Africa occidentale.
Una delle priorità del nuovo governo di transizione è stato l’allontanamento della MISSANG, missione militare angolana presente dal marzo 2011 e che ha definitivamente abbandonato il Paese il 9 giugno 2012, sotto la supervisione della Comunità degli Stati dell’Africa Occidentale.
I golpisti non vedono di buon occhio l’ingerenza dell’Angola negli affari della Guinea. Che ne dice?
«Sì, è vero. Eppure l’Angola stava investendo tantissimo. Spendeva 80 mila dollari al giorno solo per l’esercito della Guinea. Perché l’Angola ha un debito di riconoscenza nei confronti della Guinea, che l’ha aiutata nella lotta contro il Sudafrica. Il progetto del porto di Buba è un progetto grandioso, parliamo di miliardi di dollari, che se si dovesse realizzare supererebbe qualsiasi altro porto dell’Africa occidentale. Le navi dalla Cina verrebbero ad attraccare a Buba. E infatti il progetto non è mai piaciuto al Senegal».
La Guinea ha anche una grossa comunità musulmana. Vista la situazione nel resto dell’Africa occidentale, si segnala la presenza di Al Qa’ida? Che scenari possiamo prevedere?
«In Guinea, in questo momento, ci sono cellule addormentate (ma attente) di Al Qa’ida, c’è Hezbollah e c’è un chiaro legame dell’attuale presidente ad interim, Nhamadjo, che è musulmano, con l’Iran. Tutto questo ovviamente non piace agli USA. Ma dirò di più: in Guinea ci sono più di trenta etnie che potrebbero precipitare nella peggiore delle guerre, che in Africa conosciamo bene: la guerra etnica. L’80% delle forze armate appartiene a una sola etnia, i balanta. Quando, il 21 ottobre scorso, c’è stato quello che io considero un finto attacco a una caserma, le uniche vittime erano soldati flups, un’etnia minoritaria. I flups sono gente seria, dignitosa, ma che non dimentica».
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