Anche quest’anno durante il mese del Ramadan, e in crescita rispetto allo stesso mese del 2012, le autorità israeliane hanno rilasciato centinaia di migliaia di permessi ai palestinesi dei territori occupati (in particolare della Cisgiordania).
Le stesse autorità israeliane hanno stimato che circa un milione di palestinesi (con o senza permessi) avrebbe oltrepassato la “Linea Verde†durante il mese sacro per i musulmani, portando nelle casse dei commercianti israeliani circa cento milioni di shekel (oltre 21 milioni di euro) e provocando l’ira di molti negozianti palestinesi dei territori occupati che hanno visto crollare le loro entrate.
Ovvio che a fronte di una interminabile politica israeliana di ghettizzazione ed enclavizzazione la concessione di permessi solleva dei sospetti tra i palestinesi. Sospetti di ordine economico-politico, visto che i palestinesi che ottengono i permessi spostano denaro da un’economia già tartassata e instabile come quella dei territori occupati all’economia occupante. Ci si chiede: che sia anche questo il significato della “pace economica†di cui tanto si parla da almeno vent’anni da queste parti? Ma, come alcuni hanno sottolineato, il beneficio economico del sistema dei permessi per Israele non è comparabile alla portata di questo stesso sistema per la battaglia per i cuori e le menti, “ora che per i palestinesi non resta che pochissima terra, ora che l’establishment di sicurezza ha neutralizzato la maggior parte delle forme di resistenzaâ€.
Dunque, il sistema dei permessi non ha una rilevanza solo economico-monetaria, poiché esso scopre un nervo ancora più profondo della relazione coloniale tra israeliani e palestinesi. Infatti, nel sistema dei permessi risiede un meccanismo complesso che rivela come gli accessi frugali che i permessi consentono, e i loro risvolti (in alcuni casi tragici, di morte), siano intrisi della storia sociale e politica di violenza che si inscrive negli spazi coloniali compartimentalizzati che i permessi regolano e che Israele amministra. I permessi inscrivono questa violenza negli spazi, e nei corpi che li attraversano. Il meccanismo non è solo di ordine simbolico.
L’interiorizzazione del sistema dei permessi – il rischio di familiarizzare con la logica del “non avete diritto a tornare negli spazi da cui vi abbiamo espulsi se non come turisti†– è una delle caratteristiche fondamentali del sistema stesso. Il sistema dei permessi è fatto e disegnato (anche) per fare interiorizzare (a chi li riceve) un’amputazione, per rescindere un legame. Questa interiorizzazione è in fondo uno spazio – un nodo centrale – di tensione della relazione coloniale. Accettare una visita molto fugace a ciò (il ritorno) di cui il regime israeliano vuole privare (indistintamente) chi ottiene o non ottiene un permesso, e quindi rendersi strumento e corpo di questo regime? Oppure rifiutarlo radicalmente, dunque non fare domanda per i permessi alle autorità israeliane e in questo modo, attraverso il rifiuto, farsi messaggio e corpo politico di rottura? Esistono compromessi accettabili? E quali sono? Oppure nessun compromesso, e al rogo i permessi?
Sullo sfondo di questa tensione sono trascorsi i mesi di Ramadan degli ultimi due anni. Molte donne e soprattutto giovani, spesso al di sotto dei 18 anni, hanno fatto domanda e ottenuto dalle autorità di occupazione centinaia di migliaia di fogli di entrata temporanea, con cui hanno potuto accedere, “quasi†da turisti, a Gerusalemme, alle spiagge di Yafa, Haifa, Akka e alle altre città della Palestina storica. In fondo non è stato proprio lo stesso presidente palestinese Abu Mazen a dichiarare, in un’intervista del 2012 a una televisione israeliana: “Fino a che sarò in carica non ci sarà una Terza Intifada… Voglio vedere Safad [la sua città di origine], vederla è un mio diritto, ma non ho un diritto a viverci  turista senza ritorno.
Tuttavia chi ottiene i permessi visita ciò che gli è normalmente proibito “quasi†(ma non proprio) da turista. “Quasi†perché in fondo lo status particolare che i permessi attribuiscono ai palestinesi dei territori occupati non riesce ad addomesticare fino in fondo la forza dell’immaginazione politica di un ritorno nelle aree da cui parenti, amici e connazionali sono stati espulsi a forza negli ultimi oltre sessant’anni di politiche israeliane di diniego del ritorno.
Dentro questa utopia (o ritorno-topia) immanente che i permessi (solo per qualche ora) sembrano far materializzare, i significati di un ritorno irriducibile alla sola applicazione delle risoluzioni delle Nazioni Unite non rispettate da Israele e la volontà di abbandonare la condizione diasporica si sovrappongono ad altro. In particolare, ai significati dell’impensabile; del pensarsi materialmente in spazi mai visti, in villaggi e città che hanno cambiato volto, in paesaggi inaccessibili di cui si è sentito nei racconti di chi da questi spazi è stato cacciato via, o di chi in passato ha ottenuto permessi o ha potuto visitarli nella stessa condizione furtiva, o per qualche ora di lavoro nero.
Per l’appunto, in queste visite c’è il doppio senso di un furto: l’idea di toccare con mano ciò da cui si è privati con la forza, ma anche l’idea di utilizzare voracemente – quasi di rubare – quelle poche ore d’aria fuori dai bantustan che le autorità di occupazione hanno concesso. L’idea di (ri)fare proprio tutto ciò che capita sotto il tiro dei sensi: monti, colline, pianure, città , piante, odori, rumori, voci… il mare.
Dunque non si tratta solo di una questione di shopping… Allora capita che nella spiaggia di Yafa, vicino all’attuale Tel Aviv, gruppi composti soprattutto da donne, giovani e bambini entrino in acqua e spendano le loro ore d’aria giocando; cantando in gruppo; collezionando conchiglie; fumando un narghilè in riva al mare; chiamando i familiari che sono rimasti nei bantustan senza permesso e descrivendo loro quello che si vede attraverso l’impensabile; sprigionando l’amara gioia di una gita in spazi che a solo poche ore di distanza torneranno a essere un’assenza, un progressivo riassentarsi.
Ma alcuni palestinesi non sanno nuotare, non conoscono il mare, spesso vedono le spiagge per la prima volta nella loro vita, e dopo essersi tuffati finiscono il loro viaggio annegati nell’acqua che vorrebbero divorare e fare propria. In molti tra i palestinesi dei territori occupati hanno perso la vita in questo modo nel mese del Ramadan… come tutti quei naufraghi che sono morti e continuano ad annegare nello stesso mare, tra il Nord Africa e il sud dell’Europa.
I palestinesi muoiono con un permesso temporaneo di uscita dalle proprie enclave in tasca; i secondi muoiono alla ricerca di un permesso di soggiorno e di una “regolarizzazione†là dove scelgono di fuggire, nell’enclave Europa. Qualcuno potrebbe dire: ma come? Cosa c’entrano queste morti con il regime dei permessi? Questa è dietrologia! Ovvio, sui permessi dei palestinesi dei ghetti dei territori occupati non c’è scritto libero di morire in mare durante le ore d’aria. Ma misconoscere il rapporto tra gli apparati amministrativi e di polizia coloniali (Israele) e postcoloniali (gli altri paesi che si affacciano sulla sponda nord e sud del Mediterraneo), e la violenza immanente e tangibile che esse producono sarebbe come negare che la storia e la sua violenza abbiano una sua manifestazione materiale, oltre che economica e simbolica. Ignorare la relazione tra queste morti e ciò che le circonda, il quadro in cui esse si generano, sarebbe come negare la verità storica che queste esperienze di morte incarnano: in mare, senza ritorno.