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I fantasmi di An Nasiriyah

Intervista a Riccardo Saccotelli: «Gratitudine e riconoscenza non ne voglio dagli ingrati.» [di Stefania Elena Carnemolla]

I fantasmi di An Nasiriyah
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30 Novembre 2013 - 19.12


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di Stefania Elena Carnemolla

Non c’è nulla di eroico nel morire per l’Italia. Non c’è nulla di eroico nel morire per l’Italia che conferisce medaglie e onorificenze ad alti ufficiali sotto processo e su cui si stenderà sempre l’ombra dei morti di An Nasiriyah e di coloro che a An Nasiriyah sono sopravvissuti. Non c’è nulla di eroico nel morire per l’Italia lasciando i propri lembi di carne fra la polvere irachena, mentre chi, politici e militari, aveva il dovere e il potere di proteggere la base Maestrale oggi vive sereno e indisturbato. Questi i fatti che al di là di ogni favola di Stato un certo giornalismo tenta di far dimenticare. Giornalismo servizievole, ubbidiente e noi che ubbidienti e servizievoli non siamo su An Nasiriyah abbiamo voluto ascoltare una voce, in nome dell’altra verità.

Lui, pugliese di Andria, classe 1975, si chiama Riccardo Saccotelli. Prima che nel 2005, dopo i fatti di An Nasiriyah, si congedasse dall’Arma dei Carabinieri, era il Maresciallo Saccotelli. Quel 12 novembre 2003, giorno dell’attentato, era di guardia all’ingresso della base a “pochi metri dalla bomba”.

Oggi in pensione d’invalidità come vittima del terrorismo, ciononostante ha deciso di tornare a vivere, non accettando ciò che nell’indifferenza generale viene considerata come normalità: far passare come eroi gli alti ufficiali di An Nasiriyah, tanto che è intenzionato a vederci chiaro sul loro avanzamento in grado, sulle onorificenze e i riconoscimenti loro concessi, sulla mancanza di procedimenti disciplinari nei loro confronti.

Si è costituito come parte lesa in tutti i procedimenti per l’accertamento delle responsabilità dei vertici militari: nel processo contro gli allora comandanti della Italian Joint Task Force Iraq i generali dell’Esercito Italiano Bruno Stano e Vincenzo Lops, l’alto ufficiale che il 4 novembre 2009, con processo ancora in corso, e quindi in violazione di ogni procedura, è stato insignito dal presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, dell’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine Militare d’Italia, la più alta onorificenza militare, quindi nel processo contro il colonnello Georg Di Pauli, all’epoca dei fatti comandante del Reggimento Msu dell’Arma dei Carabinieri.

“E ora siamo ai processi civili” ricorda Saccotelli “iniziati il 6 e il 12 novembre: alla faccia del rispetto, della patria e della memoria. Si sono dimenticati che forse quel giorno non era il più opportuno. O forse è un segno del destino!”.

Né è vero, contrariamente a quanto scritto da qualcuno, che si senta “abbandonato dallo Stato italiano”, anzi. “Non l’ho mai detto, nemmeno lo penso. Lo dicono di me i giornalisti. A me dello Stato italiano non me ne frega più niente. Se vedo un tricolore mi viene il voltastomaco e se qualcuno gorgheggia l’inno nazionale mi viene da ridere. Se sento parlare di patria penso alla mafia. Come ho detto più volte non ho più nulla da dare e da dire a questo Paese. Se un giorno qualcuno riterrà di dovermi dire o dare qualcosa la mia porta è aperta. Ma nessuno si aspetti “divin perdono”! A parte la retorica e la speculazione giornalistica non ho mai detto di sentirmi abbandonato. Posso dire che si sono dileguati. Dire che loro siano spariti non vuol dire che io mi senta abbandonato da loro. Sono due azioni diverse. Posso dire per certo che l’Arma dei Carabinieri non ha fatto nulla per me ma molto per sé. Posso garantirti che io ho sputato sangue e una flotta di gente ha fatto carriera”.

Né è stato invitato all’ultima cerimonia su An Nasiriyah, officiata dal ministro della Difesa Mario Mauro, presenti rappresentanti dell’Arma dei Carabinieri e dell’Esercito Italiano.

“È stata consegnata alle vedove, uniche legittimate sugli affari di An Nasiriyah, la medaglia della Riconoscenza. Non voglio sprecare altro tempo per spiegare l’inspiegabile perché non so cosa sia, a cosa serva e tantomeno m’interessa. Finora tutte le medagliette ricordo, commemorative, dolorose, partecipative, d’oro incenso e birra le ho lasciate lì dov’erano. Se lo Stato italiano oltre a dire belle parole e a speculare su An Nasiriyah riterrà di dover riconoscere il tributo di sangue versato in territorio iracheno dalla guardia che, processi alla mano, ha difeso il territorio italiano, impedendo l’avanzata del nemico terrorista e difendendo la vita di chi era lì, dentro Animal House, si faccia sentire. Gratitudine e riconoscenza non ne voglio dagli ingrati. Le onorificenze dalla notte dei tempi sono quelle che la Repubblica istituì nel suo nascere sessant’anni fa e surrogati amorfi di riconoscenze inutili non ne voglio, non mi servono e soprattutto mi offendono prima di tutto come essere umano”.

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Riccardo, quando sei arrivato in Iraq?

Il 19 Ottobre 2003 con il Primo Plotone della Compagnia Alpha.

Con quale Reggimento?

Con il 13° Reggimento dei Carabinieri Fvg, di stanza a Gorizia.

Prima dell’Iraq eri stato in altri scenari di crisi?

Come volontario civile, missionario salesiano in Albania nel 1994, un anno a Sarajevo nel 1996, otto mesi in Kosovo fra il 2002 e il 2003.

Cosa ricordi dell’Iraq di quei giorni?

Appena siamo arrivati la situazione era tranquilla, ma i colleghi che andavano via ci dicevano di fare attenzione. C’era troppo silenzio, troppa apparente tranquillità. Infatti bastava spostarsi nei paesini vicini e più a nord per scoprire che non eravamo così graditi. La popolazione lanciava pietre al nostro passaggio. Tuttavia qualche giorno prima dell’attentato, credo l’8 novembre, ci fu un’insurrezione alla fabbrica del ghiaccio e ci trovammo coinvolti in una folla inferocita che lanciava sanpietrini. All’inizio in sedici contro migliaia di iracheni. Fu necessario l’intervento di un Leopard di soccorso per aprire un varco tra la folla ed evacuare i soldati dell’esercito che erano di guardia alla fabbrica quella mattina.

La popolazione come vi ha accolti?

A An Nasiriyah la popolazione era tranquilla, la gente comune con piccoli gesti ci faceva capire che apprezzava la nostra presenza. La sensazione era diversa però negli adulti, poco fiduciosi, molto irrazionali spesso nelle loro risposte e nelle loro richieste. Soprattutto più promesse il nostro governo faceva più la popolazione non credeva in noi. Erano mesi, per esempio, che aspettavano una pompa per la depurazione dell’acqua. E questa pompa non arrivava. Ma l’acqua in Iraq è preziosa come il nostro caro petrolio. Solo che di acqua non se ne può fare a meno.

Che codice vi hanno fatto sottoscrivere?

Siamo stati obbligati a prendere visione degli atti di una conferenza in cui un procuratore militare spiegava l’applicazione del codice penale di guerra a maggiore tutela delle Forze Armate e della popolazione civile. Non bisogna dimenticare Abu Ghraib e tantomeno le donne violentate dai Caschi blu in Somalia e Eritrea. Quindi tutti sapevamo che se fosse successo qualcosa finivamo sotto corte marziale. Poi, come sempre accade, non è andata così. Comunque credo che fosse giusta l’applicazione del codice di guerra. E la storia credo ci abbia dato ragione. La storia, non di certo la farsa a cui ho assistito in questi dieci anni che hanno visto continuamente associare An Nasiriyah alla pace. Non ci fu solo il nostro attentato, ci furono vere e proprie battaglie e tanti successivi attentati. E ci sono state anche onorificenze per “eventi bellici” ai vertici militari. Il che spiega chiaramente la dicotomia: muori in pace, che noi sventoliamo il tricolore insanguinato in guerra e ci facciamo bei pezzi giornalistici.

I sacchetti a protezione della base dov’erano? Di cosa li hai visti riempiti?

C’erano file di Hescobastion alte sessanta centimetri e un metro poste a bordo della strada e riempite di breccia, quindi pietre, del diametro di due, tre centimetri. In genere gli americani usano riempirli con sabbia di due, tre millimetri catramata che si compatta se attinta da proiettili impedendone il passaggio e che invece si dissolve nell’aria in caso di esplosione. È di certo una soluzione costosa e sicuramente difficile da approvvigionare però essendo nel deserto non si può certo dire che la sabbia mancasse!

Dov’eri quel giorno e a che distanza dalle esplosioni?

Ero di guardia fuori dalla palazzina, all’ingresso sulla strada dov’era l’accesso pedonale. Non ricordo il nome della postazione. Credo fosse Facocero o Giraffa. Una delle due.

Puoi descrivermi la scena dell’attentato? Ricordi i corpi dei tuoi compagni?

Non ricordo molto bene le immagini immediatamente successive alla bomba. Perdevo sangue dagli occhi, ma sicuramente ho visto i miei amici. E talvolta nei sogni mi capita di vederne qualche brandello. La sensazione più brutta e incancellabile è quella di essere passato sopra il cadavere di qualche mio amico. Quando mi hanno portato via di lì, proprio perché non riuscivo a vedere le sensazioni più forti sono rimaste gli odori, i sapori, i rumori e il tatto. A tutti è capitato di calpestare un piede a qualcuno. Immagina la sensazione d’esser passato sopra un tuo amico che magari era in fin di vita e non ancora morto.

Chi ti ha condotto in ospedale?

Mi sono sentito sollevare da terra da due persone che mi prendevano da sotto le braccia, che erano tagliate e bruciate. Il dolore è stato fortissimo. Poi mi hanno portato fuori da Animal House e con un Pick up mi hanno trasportato all’ospedale civile di An Nasiriyah. Una pattuglia dell’esercito in transito mi ha poi riportato a Animal House e da lì alla base Libeccio. Era divertente guardare in faccia chi non aveva il coraggio di dirmi come stessi combinato. Da Libeccio poi a Tallil nell’ospedale da campo della Croce Rossa. L’ambulanza era senza ossigeno. Il letto non si fermava ed era più lungo della stessa ambulanza. Sbattevo da tutte le parti con le ferite aperte. L’infermiere rumeno visibilmente sotto choc tentava di mettermi un ago nel braccio e piangeva. Gli ho fatto capire di lasciar stare tutto, starsene fermo e tranquillo. A Tallil sono rimasto sino al 14, quando con un C130 ci hanno riportati in Italia e ricoverati al Celio. E lì sono rimasto sino al 23. Se ci penso non mi sembra vero che la notte volevo alzarmi per tornare di guardia con i miei amici. Ma questo Paese non vale nulla. Non vale proprio nulla. Ero quasi morto e volevo tornare al mio lavoro. Pensa. Poi mi sento dire dai bravi ministri e presidenti che loro non possono fare nulla per noi. E mi convinco sempre più che non ne vale la pena. Che ho sbagliato tutto.

Che ferite hai riportato?

Blast Syndrome, non voglio aggiungere altro. Sarebbe comunque inutile. Ho grossi problemi di udito. E lesioni in tutto il corpo. Ma se anche fossi senza le gambe la gente non capirebbe e soprattutto non cerco pietà né commiserazione. Sono riuscito a trasformare in ironia tutto e vado avanti.

Come queste ferite ancora condizionano la tua vita?

In modo totale. Pensa che non posso fare risonanze magnetiche e quindi se ho dolori non posso neanche capire da dove arrivano e cosa c’è di rotto. Devo continuamente chiedere di ripetere le cose dette alle persone che mi sono accanto. Devo capire se talvolta gli amici si stufano di ripetermi le cose. Non posso più nuotare tranquillo. Andare sott’acqua. Non sento le sveglie. Ascolto tv e musica con volumi assordanti per gli altri. Tutto è cambiato e mi sono abituato a conviverci. Questo però non vuol dire che permetto allo Stato e all’Arma di sentirsi con la coscienza a posto. Sono libero di pensare alla mia vita da solo come ho sempre fatto e visto che si sono dileguati tutti il giorno dopo il mio congedo. E pensa che chi mi ha aiutato sono stati medici e amici dell’Esercito con cui ho lavorato prima di arruolarmi nella Benemerita.

Che fine hanno fatto i tuoi effetti personali?

Dormivamo in otto in una stanza di quatto per quattro metri. Immagina. Chi è rimasto lì ha messo tutto in bustoni neri mischiando roba mia e dei miei amici. Questi bustoni neri poi sono arrivati in ospedale al Celio. Lì ho ripescato quel che potevo della mia roba. Il resto è andato tutto perso. Comunque tutta la mia roba militare è tornata in un baule dove gli stessi miei amici hanno messo tutto quello che era rimasto lì. Non è che avessero tempo per pensare a questo. Oltre ai continui turni di guardia gli è toccato pure lavorare duramente per mettere in sicurezza la base e renderla sicura.

Su ordine di chi è stata rimaneggiata la scena del crimine?

Questo non lo so. So di certo che Di Pauli ha fatto subito rimuovere con le ruspe la scena del crimine e quindi chiunque abbia relazionato su quella base, in seguito, lo ha fatto “per ipotesi” e non per una reale consapevolezza della situazione sul posto.

Cosa è stato portato via, se lo sai, e che poteva essere utile alle indagini?

Tutto ciò che so, lo so dai giornali e dalle tv. So che è stato portato via tutto ciò che potevano almeno finché non se ne sono accorti e hanno messo sotto controllo quel che restava di Animal House.

L’allora presidente della Camera Ferdinando Casini vi promise medaglie d’oro.

Sin dal 13 novembre 2003, il giorno dopo la strage, arrivarono in ospedale il ministro della Difesa e i suoi prodi. Ricordo per certo che il generale Liberati dell’Arma dei Carabinieri mi disse di stare tranquillo che stavano già attivandosi per la massima assistenza possibile. Accanto a lui c’era il ministro Martino che a dire il vero non aveva molte parole da dire quel giorno. C’era anche il capo di Stato Maggiore della Difesa Mosca Moschini. Uno di loro e non ricordo chi di preciso disse che si stavano adoperando per il riconoscimento delle massime onorificenze. Questo sai perché? Perché qualcuno della Croce Rossa aveva raccontato ai prodi che la notte mi ero alzato perché volevo andare dai miei amici di guardia. E alla guardia fu promessa la medaglia d’oro. Poi arrivammo al Celio. E lì ancora una volta, i presidenti di Camera e Senato (bloccarono la Tac in radiologia per farmi ritornare in camera e incontrare le varie autorità), Repubblica, ministri, onorevoli, comandanti di qui e di lì. Però il presidente della Camera entrò nella mia stanza e chiese di poter parlare in privato. Chiuse la porta. Ero nel letto, steso. Accanto i miei genitori. Si appoggiò al muro sulla mia sinistra accanto al letto. Guardava per terra. Chiese ai miei genitori come stessero e come andava. Poi silenzio. A me non sapeva che dire. Aspettava forse che dicessi qualcosa. E io parlai di Andrea, Ivan e Daniele. E lui mi disse che, questione di giorni, gli era stato riferito che il ministro si stava adoperando per le medaglie d’oro, perché pur non essendo sua competenza, per lui era un atto doveroso. L’unico che non è mai arrivato ad incontrarci fu il Presidente del Consiglio Berlusconi.

Perché nonostante quella promessa non vi furono mai conferite?

Potresti rivolgere questa domanda al presidente della Repubblica, per favore? Mi farebbe davvero piacere saperlo. Se poi vuoi una mia idea, ti dico che a me tutta questa storia puzza di cadavere. Non di certo quello dei miei amici. Quello del putrido dei piani alti. Credo che questo in cui viviamo sia un periodo di grande pericolo democratico e credo ci troviamo di fronte a uno Stato impotente e incapace. In coma vegetale aspettando che qualcuno stacchi la presa. E poi tu lo immagini uno Stato che decide davvero e finalmente di mettere a posto le cose e chiudere questa pagina di storia nera? Sarebbe, a loro modo di vedere le cose, un’implicita ammissione di colpevolezza. E nella storia italiana, a parte il Papa, hai mai sentito qualcuno chiedere scusa?

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