di Alessandro
Cisilin
Fuori, i rulli di tamburi, le
minacce, le sanzioni. Dentro, la pacifica festa popolare, ben più
estesa e compatta rispetto ai pronostici occidentali calibrati tra
retaggi da Guerra Fredda, vuoti di memoria e sociologie inchiodate ai
censimenti.
I conti non tornano. La portata
plebiscitaria del referendum che ha restituito la Crimea alla Madre
Russia, a sessant’anni dal ‘dono’ di Krusciov a Kiev, è tale
da trascendere l’immaginario ‘etnico’ di una spaccatura
nazionalistica locale. Non hanno vinto i russi
contro gli ucraini.
Tutti hanno votato sostanzialmente la stessa cosa. E perfino i
cosiddetti tatari,
che includono gruppi, perlopiù sunniti, di origine mongola o
caucasica, si sono recati alle urne per circa il 50%, optando
largamente per Mosca, nonostante il pregresso di numerose guerre e
deportazioni, nonché il perdurante timore – ufficialmente ribadito
dalla loro assemblea (Qurultay)
– di un rinnovamento di antiche persecuzioni.
L’Occidente si rispolvera tale,
muovendo compatte, tra le cancellerie euro-americane e il quartier
generale della Nato, parole di sdegno, esercitazioni militari,
rivendicazioni di un ‘diritto internazionale’ che sarebbe stato
violato dall’ ‘invasione’ russa della penisola.
A parte la volontà quasi unanime
espressa dalla popolazione locale, non c’è giurista o diplomatico
che sia ignaro dell’inconsistenza del ‘diritto’ declamato. Le
norme internazionali sono esiti negoziali e vincolano in maniera
inequivocabile poco o nulla.
In altre parole, quel diritto è
sostanzialmente un’istantanea, suscettibile di continui ritocchi,
che fotografa i precedenti storici e gli accordi, scritti e non, che
li seguono.
Il Cremlino ha più volte tirato
in ballo, nelle schermaglie diplomatiche dei mesi scorsi, il caso del
Kosovo, dichiaratosi unilateralmente indipendente dalla Serbia solo
sei anni fa, con l’immediato riconoscimento formale dalle
cancellerie occidentali e il successivo via libera da parte della
Corte di Giustizia dell’Onu, sebbene in tal caso lo strappo non
passò attraverso un via libera popolare pressoché unanime, bensì
da un voto parlamentare boicottato dalla rilevante minoranza serba.
Le suggestioni balcaniche, e le
prese di posizione di segno opposto da parte dei paesi della Nato
rispetto alla crisi ucraina, vanno anche più addietro, coinvolgendo
ad esempio la Croazia. La notte tra il 14 e il 15 gennaio del 1992 è
rimasta uno dei più enigmatici misteri della recente storia
diplomatica continentale. I dodici leader dell’allora ComunitÃ
Europea giunsero al vertice con un solo sì al riconoscimento della
Repubblica secessionista. Era quello della Germania di Kohl,
sostenuta per altro dal Vaticano. Gli altri undici titubavano,
trainati dal secco no di Parigi e Londra, convinti che un via libera
avrebbe trasformato gli scontri in corso nella carneficina di una
guerra aperta. Quel che appunto è stato.
Sulle sponde del mar Nero invece
le violenze non ci sono state. Erano esplose a Kiev e nell’ovest
del paese. Nel contesto di una legittima protesta popolare contro un
potere corrotto e in favore di un avvicinamento all’Europa si sono
scatenati cecchini di oscura identità e le milizie dell’estrema
destra del Pravij Sektor.
«Sì, sparavano anche ai poliziotti» ammette perfino Ruslana, la
pop-star di ‘Euro Maidan’. Allora l’Occidente non batté ciglio
dinanzi a mesi di occupazione armata di palazzi governativi centrali
e periferici e all’uccisione di decine di poliziotti, e non esitò
a congratularsi con l’allontanamento del presidente Yanukovic e a
riconoscere il nuovo governo così edificato. Né aveva esitato a
trattare un accordo di associazione – pomo della discordia che
innescò la rivolta – col precedente esecutivo, ritenendolo a suo
tempo parzialmente adeguato ai necessari ‘fondamentali
democratici’, salvo poi includerlo tra i regimi più repressivi.
Naturalmente nessuna democrazia
europea avrebbe rinunciato all’uso massiccio della forza dinanzi a
tali violenze né all’adozione di leggi speciali per fermarle.
E naturalmente qua il tema è un
altro. Non il diritto internazionale ma i copiosi interessi
geopolitici e il gioco pericoloso della loro difesa.