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La prigione palestinese

«Oggi nelle nostre strutture ci sono 3.5 milioni di persone. Un’intera nazione, tutti condannati all’ergastolo». [Noam Sheizaf]

La prigione palestinese
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19 Luglio 2014 - 05.23


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di Noam Sheizaf

Persino oggi, mentre guardo i missili esplodere nel cielo della città che amo di più al mondo, Tel Aviv, mentre ci affanniamo correndo giù per le scale delle nostre case per raggiungere la stanza delle biciclette che utilizziamo come rifugio per le bombe, mi sento contrario a questa operazione militare israeliana con tutto il cuore.

La vista dei nostri elicotteri d’attacco che solcano il cielo, scendendo verso sud in direzione della striscia, non mi riempie di orgoglio e gratitudine. Al contrario, mi deprime profondamente. Anche dopo operazioni come “Scudo di difesa”, “Pioggia d’estate”, “Piombo fuso”, “Colonna di difesa” e la seconda guerra del Libano, ancora non riesco a capacitarmi del consenso trasversale che si impossessa del pubblico israeliano in occasioni di questo genere.

Mi piace pensare che sia tutto un malinteso e che se la mia gente prestasse un po’ più di attenzione a quello che avviene nei territori, allora cambierebbero tutti idea immediatamente. Mi piace pensare che non comprendano a fondo la natura dell’occupazione e che proprio per questo si arrabbiano così tanto per qualsiasi cosa facciano i palestinesi. La loro attitudine mentale porta all’ennesima risposta violenta, all’ennesima escalation.

Non so se questo punto di vista sia naif, oppure solo frutto della mia arroganza, ma quali altre spiegazioni vi vengono in mente? Continuo a incontrare israeliani che non sanno, per esempio, che controlliamo ancora il ponte di Allenby (che collega la West Bank alla Giordania), così di fatto gestendo il traffico in entrata e uscita dei palestinesi dalla Cisgiordania.

Oppure non sanno che in realtà l’esercito continua a operare nell’area A, in teoria soggetta alla sovranità dell’Anp (Autorità nazionale palestinese). Oppure che in West Bank non c’è una rete 3G perché Israele non permette ai fornitori palestinesi di utilizzare le frequenze. O che imprigioniamo palestinesi a centinaia senza processo per mesi e anni. Oppure altri aspetti incontestabili dell’occupazione.

Ebbene, se non sono a conoscenza di tutto questo, allora forse è tutto un grande malinteso. Il più delle volte cerco di informarli e litigo sui dettagli, ma se dovessi spiegare la questione brevemente utilizzerei la seguente metafora: abbiamo costruito due enormi prigioni. Chiamiamole “prigione West Bank” e “prigione Gaza”.

La prima è una struttura a bassa sicurezza, dove i prigionieri sono autogestiti, almeno fin quando si comportano bene. Ogni tanto hanno permessi d’uscita per delle vacanze e una volta all’anno vengono persino portati in spiaggia. Alcuni fortunati hanno lavori nelle industrie vicine e ricevono stipendi al di sotto del salario minimo. Considerando anche i prezzi bassi nelle mense del carcere, in fin dei conti i detenuti fanno un buon affare.

Gaza invece è una struttura a massima sicurezza. È difficile da visitare e per chi ci vive è impossibile uscirne. Lasciamo entrare solo cibo (l’essenziale), acqua ed elettricità in modo che i prigionieri non muoiano.

A parte questo, di loro ci frega poco o nulla, a meno che si avvicinino allo sbarramento della prigione e allora gli spariamo come pesci in barile finchè non si calmano. E quando finalmente si calmano, smettiamo di sparare perché non siamo dei bastardi che sparano alla gente per divertimento.

Negli ultimi 5 anni, la struttura a sicurezza minima è stata abbastanza tranquilla, ma ci sono stati un po’ di disordini in quella a massima sicurezza. Li abbiamo controllati con la solita routine. In ogni modo, anche quando entrambe le prigioni erano calme, ci siamo ben guardati dall’aprire le porte. Anzi, abbiamo rafforzato e innalzato le mura diminuendo l’estensione del cortile della prigione; in fondo, ce ne serviva un po’ per noi.

Quando ci chiedono perché non liberiamo i prigionieri, spieghiamo che si rifiutano di firmare i documenti per la condizionale perché non gli vanno bene i termini. Per esempio, non gli va bene che la liberazione sia graduale, che duri dieci anni o più, e che ci dovranno lasciar tenere un sacco di cose di cui ci siamo impossessati quando li abbiamo rinchiusi.

In più, il capo dell’intelligence della prigione ha stilato un rapporto secondo il quale ogni singolo prigioniero odia a morte le sue guardie, in modo inequivocabile. E finchè non avviene una trasformazione significativa su questo piano, c’è davvero poco di cui discutere da parte nostra.

Oggi nelle nostre strutture ci sono 3.5 milioni di persone. Un’intera nazione, tutti condannati all’ergastolo. In queste condizioni, i prigionieri ricorrono a misure disperate, come missioni suicide, costruzione di tunnel lunghissimi, lunghe nuotate o attacchi ai nostri carri armati con fucili arrugginiti.

Spesso tutto finisce con un ammazzamento che sembra preso da un vecchio videogioco. Le rare volte che riescono ad ammazzare una delle guardie, allora fanno feste nella prigione e a noi fanno ancora più schifo. Queste scene, ovviamente, ci fanno morire di paura quando pensiamo al giorno in cui riusciranno a distruggere le mura e usciranno.

Penso che i prigionieri non ameranno mai quelli che li hanno rinchiusi, ma c’è la possibilità che i loro figli possano perdonare per quieto vivere. Ovviamente, c’è soltanto un modo per cominciare questo virtuoso processo e non ha nulla a che vedere con il metodo pesce in barile descritto sopra. Cessa il fuoco. Abbatti le mura delle prigioni. Liberali.

(16 luglio 2014)

Traduzione di Davide Lerner per The Post Internazionale.

Photo © Reuters/Mohammed Salem.

* Noam Sheizaf è un giornalista israeliano indipendente. Ha scritto per Haaretz, Yedioth Ahronoth e The Nation. Nato a Ramat-Gan, oggi vive a Tel Aviv. Prima di diventare giornalista, è stato in servizio nell”esercito israeliano per quattro anni e mezzo.

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