La Nakba: significato e valore per il popolo palestinese | Megachip
Top

La Nakba: significato e valore per il popolo palestinese

A pochi giorni dal 67° anniversario della catastrofe palestinese soffermiamoci sul valore di questa giornata e sulla sua importanza [Annamaria Brancato]

La Nakba: significato e valore per il popolo palestinese
Preroll

Redazione Modifica articolo

14 Maggio 2015 - 13.40


ATF

di Annamaria Brancato.


IL CAIRO – A pochi giorni
dalla commemorazione del 67 anniversario della Nakba (catastrofe)
palestinese è doveroso soffermarsi sul valore di questa giornata e
sull’importanza che essa rappresenta per i palestinesi, in particolare
quelli della diaspora.


La Nakba è il momento cruciale dell’espulsione del popolo palestinese
dalla propria terra e dalle proprie case, che va a coincidere per
l’appunto con la nascita ufficiale dello Stato d’Israele nel 1948.

Per i palestinesi non ha rappresentato solo la perdita dei beni
materiali, quanto un’espropriazione della propria vita e della propria
identità, costretti a vivere da quel momento in bilico e in continuo
esilio da un paese all’altro, affrontando pesanti discriminazioni e
subendo gli umori politici dei vari stati ospitanti, fossero essi stati
arabi o europei.


Se da una parte se ne commemora la ricorrenza, dall’altra si può
sicuramente affermare che la Nakba e le sue conseguenze si sono
protratte fino ai giorni nostri, ripercuotendosi perfino sui palestinesi
rifugiati ormai di quarta o quinta generazione

Le motivazioni vanno sicuramente ricercate nella politica ambigua non
solo di Israele (che persegue il suo obiettivo di diventare uno stato
senza minoranze) e dei suoi alleati; quanto anche dei paesi arabi e dei
politici palestinesi stessi che, barattando potere e alleanze, hanno
totalmente dimenticato l’esistenza di un popolo e del suo diritto
fondamentale, ancora oggi negato, che è quello di poter far ritorno in
Palestina.


Un ruolo fondamentale nello stabilire le dinamiche delle vicende
palestinesi è stato sicuramente giocato dall’Egitto, la cui politica
interna degli ultimi quattro anni e le vicissitudini seguite alla caduta
di Mubarak nel 2011 e a quella di Morsi nel 2013 hanno avuto
un’influenza decisiva sulle relazioni internazionali del Paese e sulla
“stabilità” dell’intera regione.

Con Mubarak, il processo di pace con Israele iniziato nel ‘78 da Sadat
ha proseguito fino a consolidarsi con l’attuale presidente Abd al-Fattah
al-Sisi. Quest ultimo spesso si erge a mediatore tra le pretese
israeliane e la resistenza palestinese: basti pensare ai suoi tentativi,
poi falliti, di far cessare gli attacchi israeliani sulla Striscia di
Gaza durante la scorsa estate.

Non solo, ma al-Sisi è diventato un prezioso alleato dell’occidente
contro la minaccia islamista, rappresentata dall’ISIS e da gruppi affini
presenti nel Sinai, ai quali cerca di ricondurre l’attività politica di
Hamas nella Striscia di Gaza.



Ma che relazione esiste tra il cosiddetto processo di pace tutt’oggi in corso e la Nakba?


Per molti, e non a torto, è esattamente il proseguimento del processo
di pace, inteso nei termini cui fino ad ora siamo stati abituati a
definirlo, ad essere una delle cause principali del perpetuarsi della
catastrofe palestinese.

Quello che veniva stabilito negli accordi del’78 era sostanzialmente il
principio espresso dalla risoluzione ONU 242 “terra in cambio di pace” o
“ pace in cambio di terra”. Accordi che da parte palestinese non
vennero accettati proprio perché non prendevano in considerazione
l’autodeterminazione del popolo palestinese e lasciavano volutamente
fuori da ogni decisione lo status di Gerusalemme.

Uscì rafforzato da questi accordi solo il legame economico e strategico
militare tra Israele, Egitto e l’America, che ha aumentato da quel
momento il suo sostegno ai due paesi.

Ciò che invece nacque dagli Accordi di Oslo del ’93 un ulteriore
aggravamento della già complicata situazione palestinese la creazione di
un sistema amministrativo asservito al volere e al potere
dell’occupante, che vede ancora oggi nell’Autorità Palestinese l’unico
organo rappresentativo del popolo palestinese; un sistema di polizia che
rinnega e condanna la resistenza palestinese e una classe dirigente che
perfino nei discorsi ufficiali omette la presenza di una diaspora di
ormai più di 5 milioni di rifugiati, che ancora vivono nei campi
profughi in condizioni disumane.

Oslo ha consegnato definitivamente alle autorità militari israeliane il
controllo della Striscia di Gaza, che in un modo o nell’altro persiste
ancora oggi nonostante il cosiddetto disimpegno unilaterale israeliano
del 2005.

Per l’Egitto oggi la questione palestinese è una mera questione di
sicurezza. La classificazione di Hamas come gruppo terroristico e la
persistente chiusura del valico di Rafah, frontiera internazionale con
la Striscia di Gaza e unica possibilità di vita per i gazawi, accrescono
la tensione tra i due governi facendone pagare le conseguenze alla
popolazione palestinese che da novembre dello scorso anno ha visto la
creazione di una buffer zone tra l’Egitto e Gaza con lo sgombero e la
distruzione di centinaia di case.

Più recente è invece la notizia che le autorità egiziane abbiano
tagliato le forniture di energia elettrica nella parte meridionale della
Striscia a causa delle insolvenze della compagnia palestinese che
gestisce l’energia.



I palestinesi in Egitto oggi


Attualmente i palestinesi in Egitto sono circa 70.000. Le stime,
però, non sono precise in quanto, a differenza di altri paesi quali
Libano o Giordania, in Egitto non esiste una sede operativa dell’UNRWA
(l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dell’assistenza ai
rifugiati palestinesi) cosicché la tutela dei rifugiati spetta
all’UNHCR. Non tutti i palestinesi presenti in Egitto, però sono stati
registrati all’UNHCR e, in particolare negli ultimi anni la loro
presenza è stata associata a quella dei siriani in fuga dai disordini
del loro paese.

In Egitto non sono presenti campi profughi palestinesi come nel resto
dei paesi arabi e i palestinesi non formano una comunità omogenea, ma
vivono integrati nella società egiziana in diverse aree del Cairo, a
Rafah,ad Alessandria e in alcuni governatorati del nord come Sharqiye.

Fino agli anni ’70 erano trattati alla pari delle altre nazionalità e,
soprattutto, avevano modo di occupare posti di un certo rilievo grazie
ad alti livelli di educazione e alla loro preparazione professionale,
acquisita in gran parte durante la permanenza nei paesi del Golfo tra
gli anni ’60 e ’70.


La delusione palestinese per gli Accordi di Camp David e l’assassinio
del Ministro della Cultura egiziano Yusuf al-Sibai dovuto al supporto
che questi diede a Sadat durante il processo di pace, contribuirono a
creare in Egitto un’immagine negativa del palestinese “ingrato” e unico
responsabile della vendita della propria terra.

A livello internazionale, la situazione non giovava alla causa
palestinese: erano infatti gli anni del Settembre Nero in Giordania e
dell’inizio dello scoppio della guerra civile libanese. In tutti questi
casi, la propaganda razzista dei governi contro lo straniero palestinese
è stata molto forte e ha contribuito a dare al rifugiato quella
connotazione di illegalità.

A seguito di questa situazione, la stretta egiziana sui palestinesi è
diventata più pressante ed è andata a colpire in particolare il diritto a
un’educazione gratuita e a rilascio dei documenti di soggiorno.


Fonti più recenti dell’UNHCR hanno messo in luce le difficoltà che
oggigiorno, a seguito dei mutamenti politici interni, il palestinese si
trova ad affrontare in Egitto a cominciare dalla restrizione delle
libertà di movimento. Dopo gli eventi del 2011/2012, infatti, il
Ministro degli Esteri egiziano aveva chiesto alle autorità dell’UNHCR di
non registrare più come rifugiati i palestinesi “doppiamente esiliati”
provenienti dalla Siria e, secondo quanto riportato del sito dell’UNHCR,  i palestinesi non sono considerati tra i cosiddetti people of concern

Secondo un articolo apparso sul sito badil.org lo scorso autunno, i
palestinesi siriani si sono visti diverse volte umiliare dalle autorità
egiziane, le quali hanno posto loro di fronte alla scelta di tornare in
Siria o andare a Gaza.


Nonostante tutto e senza far troppo rumore, anche i palestinesi in
Egitto si apprestano a ricordare la Nakba che oggi significa proprio
questo: il dover continuare a confrontarsi con uno stato di apolidia che
non permette di avere certezze sui propri diritti e sulla propria vita e
il rapportarsi con una discriminazione crescente dovuta a politiche
internazionali, in realtà lontane dalle voci e dalle sofferenze del
popolo.

La Nakba oggi è la giornata della memoria del popolo palestinese, che
lotta contro il suo olocausto e che resiste alle pressioni di una
comunità internazionale che continua a far finta di non vedere.




[GotoHome_Torna alla Home Page]

Native

Articoli correlati