ISIS a Gaza: Il fondamentalismo come frutto dell'isolamento | Megachip
Top

ISIS a Gaza: Il fondamentalismo come frutto dell'isolamento

A lungo Hamas ha negato la presenza di ISIS (Da’esh) a Gaza. Ma la realtà è diversa. Cosa spinge certi individui a diventare fondamentalisti? [Abdalhadi Alijla]

ISIS a Gaza: Il fondamentalismo come frutto dell'isolamento
Preroll

Redazione Modifica articolo

5 Giugno 2015 - 21.58


ATF

Per lungo tempo le stesse autorità di Hamas hanno negato la presenza di Da’esh a Gaza. Ma la realtà è ben diversa. Cosa spinge questi individui a diventare fondamentalisti? Perché sono pronti a lasciare Gaza per combattere in un altro paese, pur con l’occupazione israeliana in casa? Nena News pubblica l’analisi fatta nelle scorse settimane dallo scrittore e blogger palestinese Abdalhadi Alijla.



di Abdalhadi Alijla.

Nena News â€“ Nel mese di gennaio, un gruppo di palestinesi è sceso per le strade di Gaza per protestare contro le vignette pubblicate da Charlie Hebdo. Il fatto singolare è che hanno sfilato esibendo foto degli autori dell’orrendo crimine di Parigi e slogan di Osama Bin Laden. Sostanzialmente, le loro argomentazioni erano fondate su questo principio: “Se la vostra libertà di stampa non ha limiti, anche il nostro gesto è giustificato.” La cosa più sorprendente, però, erano le bandiere e gli slogan di Da’esh (il cosiddetto Stato Islamico, ISIS).

Una settimana dopo la sfilata dei Jihadisti Salafiti, nel centro di Gaza è stata fatta esplodere la macchina di un Imam che aveva criticato con forza la protesta Salafita, chiedendo al governo di Hamas di prendere posizione e di intervenire per fermarli. A distanza di qualche giorno, gruppi riconducibili a quegli ambienti hanno sequestrato Mohammed Al Mugayer, giornalista che lavora per un’agenzia di stampa internazionale, e lo hanno sottoposto a torture e maltrattamenti per otto giorni. Un gruppo affiliato a Da’esh ha rivendicato il rapimento di Al Mugayer.

All’inizio di febbraio, è stata comunicata l’uccisione in Libia di Abdelelah Kishta, combattente di Da’esh proveniente da Rafah. Non era la prima notizia del genere e non sarà certo l’ultima; secondo un quotidiano palestinese, decine di combattenti dell’ISIS in Siria proverrebbero dalla Striscia di Gaza.

Non si tratta di eventi casuali o isolati. Negli ultimi sette anni, le condizioni imposte alla Striscia hanno creato un terreno fertile per la proliferazione del fondamentalismo e dell’estremismo. Nel 2006, Hamas e l’“Esercito dell’Islam” hanno catturato il militare israeliano Gilad Shalit. Le due organizzazioni hanno collaborato sino al 2008, anno in cui Hamas ha tagliato tutti i ponti con il movimento dopo essere salito al potere nel territorio della Striscia di Gaza.

Nel 2009, Hamas ha attaccato una moschea del movimento “Jund Ansar Allah”, nella città di Rafah: durante un venerdì di preghiera islamico, i suoi esponenti avevano dichiarato Rafah “emirato islamico di Palestina”. La polizia di Hamas ha ucciso otto militanti, il loro leader spirituale e un jihadista siriano.

Nel 2011, tre terroristi, tra cui un jihadista di nazionalità giordana, hanno rapito e poi ucciso l’attivista Vittorio Arrigoni. 

Molti negano la presenza di Da’esh nella Striscia di Gaza, ma la realtà è ben diversa. Esiste una mentalità riconducibile all’ISIS e individui pronti ad adottarla, che però non dispongono di forza militare sufficiente per condurre operazioni efficaci su vasta scala. Alcuni sono ex membri di Hamas, ma il nucleo principale proviene da gruppi antagonisti, come le brigate salafite jihadiste. Quando Hamas si è reso conto della loro esistenza, li ha privati delle posizioni acquisite all’interno dell’organizzazione e ne ha sequestrato le armi. Hamas consente a tutti i gruppi di operare nella Striscia di Gaza, ma alle sue condizioni e sotto il suo diretto controllo.

Dopo la sua vittoria a Gaza nel 2007, un ex comandante della sua ala armata, insieme a un cospicuo numero di militanti, ha dato vita al cosiddetto “Jaljalat,” letteralmente: “tuono dirompente”. Il loro leader ha manifestato le sue simpatie per Al-Qaeda e la volontà di farne parte. Alla base della costituzione del gruppo vi erano principalmente due ordini di ragioni: gli indugi ad applicare il diritto divino e l’impegno nella vita politica da parte di Hamas, che, in seguito, ha messo agli arresti il suo leader.

Oggi sappiamo che nella Striscia di Gaza il gruppo conta centinaia di membri e che molti altri stanno combattendo al fianco di Al-Nusra e di Da’esh in Siria e in Libia. A Gaza non esiste una cellula organizzata e ben addestrata dell’ISIS. Piuttosto, alcuni gruppi o singoli individui manifestano le proprie simpatie o un atteggiamento tollerante nei confronti delle abiette azioni perpetrate da Da’esh. Se Hamas e l’Autorità Nazionale Palestinese non fossero in grado di controllare la Striscia di Gaza, e i confini tra Gaza e l’Egitto fossero aperti per mezzo dei tunnel, la situazione sarebbe ben diversa e Da’esh conquisterebbe una fetta di potere nella Striscia.

Ma l’interrogativo di fondo è: cosa spinge questi individui a diventare fondamentalisti? Perché sono pronti a lasciare Gaza per combattere in un altro paese, pur con l’occupazione israeliana in casa? 

Esiste un legame fortissimo tra il fondamentalismo e il tessuto socio-economico. A una profonda recessione corrisponde una torsione estremista da parte di certi individui. Le insopportabili condizioni dell’assedio hanno reso l’economia palestinese così fragile che le famiglie non riescono più neanche a sostentare i loro figli. L’assedio ha creato le condizioni ideali per lo sviluppo dell’estremismo e delle ideologie radicali. In questo contesto, è facile che un individuo sia spinto verso il fondamentalismo. Gli abitanti della Striscia di Gaza non hanno alcuna prospettiva ottimistica riguardo al futuro.

Il fondamentalismo è il risultato di una combinazione di fattori, in primis della condizione di povertà, che ha determinato una perdita di fiducia e speranza nel futuro. Il tessuto sociale è stato duramente colpito: la percentuali di divorzi è aumentata notevolmente; il numero di iscrizioni all’università da parte di studentesse è sceso in modo sensibile; si sono delineate nuove classi sociali, con poche persone che vivono in una condizione privilegiata, soprattutto operatori di ONG e dipendenti dell’ANP rimasti leali ad Abbas, che percepiscono salari pur non lavorando. Molti ragazzi di Gaza avrebbero la possibilità di viaggiare e studiare all’estero, ma si vedono impossibilitati a farlo, per via dell’instabilità della situazione finanziaria e delle politiche di rigida chiusura a cui è sottoposta la Striscia.

L’avvento del fondamentalismo non è affatto sorprendente, se si considera che tutti questi fattori operano in un territorio con una superficie minore di 360 chilometri quadrati, con una popolazione di 1.800.000 persone, metà delle quali è sotto i 40 anni e non ha opportunità o prospettive economiche che possano garantire un futuro migliore.

Il fenomeno va seguito con la massima attenzione. Hamas è politicamente immaturo e il suo comportamento infantile potrebbe determinare situazioni catastrofiche: Gaza potrebbe diventare la base di una cellula di Da’esh o di altri gruppi estremisti. Forse non si installerebbe un nucleo militare, ma il territorio diventerebbe un’ottima base per il reclutamento. L’Europa, soprattutto la Svezia e la Norvegia, accoglie un numero sempre crescente di immigrati da Gaza, che instaurerebbero un filo diretto con la madrepatria, in virtù delle relazioni familiari e interpersonali. Per i giovani immigrati di seconda generazione, è più facile essere sottoposti a condizionamenti esterni, rispetto a quelli di prima generazione, che si sentono privilegiati per il solo fatto di vivere in una democrazia europea.

Gaza potrebbe essere un centro di stabilità nella regione e una base nella lotta contro il fondamentalismo in tutta l’area. Ovviamente, l’Europa e Israele dovrebbero sollevare l’assedio e provare a opporsi a Hamas pacificamente, offrendo maggiori opportunità ai palestinesi che vivono nella Striscia e ponendo così fine alla politica del “fondamentalismo frutto dell’isolamento”.

*Abdalhadi Alijla è uno scrittore, saggista e blogger palestinese, dottore di ricerca presso l’Università di Milano. Fa parte dell’organizzazione Soliya per la promozione del dialogo; già borsista DAAD di Public Policy and Good Governance, collabora con l’Institute for Middle East Studies in Canada, il Middle East Development Network di Instanbul e il Varietes of Democracy Institute dell’Università di Göteborg.


[GotoHome_Torna alla Home Page]

Native

Articoli correlati