Libia, la guerra quasi segreta di Renzi

La guerra è in Libia e l’Italia è in guerra. Gli interessi di Renzi, dell’Eni, le forze in campo, anche quelle inconfessabili nella quarta campagna italiana di Libia.

Libia, la guerra quasi segreta di Renzi
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5 Agosto 2016 - 18.03


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di Checchino Antonini

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La quarta guerra italiana alla Libia è soprattutto un’operazione sottotraccia,
per via di uno degli effetti più evidenti delle trasformazioni che
hanno investito la guerra globale in questa fase: la sua alienazione da
qualsiasi forma di dibattito pubblico e politico. La stessa vicenda
della disponibilità del governo a concedere il sorvolo, quando nei fatti
già i droni Usa scorrazzano sui nostri cieli (in ossequio al mandato
dell’Onu perché ufficialmente richiesti dal governo fantoccio di
Sarraj), svela l’estraneità delle pratiche della guerra da quelle della
politica.


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Renzi e i suoi ministri negano invece l’invio di forze a terra italiane in Libia: ma da mesi si rincorrono indiscrezioni su un discreto numero di militari italiani nel Paese con licenza di uccidere e immunità per eventuali reati commessi. E l’ultima legge di stabilità nascondeva 700 milioni di euro per la loro mercede.

 Secondo alcuni giornali (dal Fatto a L43) addirittura sarebbe il
numero maggiore di unità straniere che affollano l’ex Jamahiriya di
Gheddafi, e l’attentato in Bangladesh del 2 luglio 2016 che ha ucciso
nove italiani sarebbe una ritorsione per la loro presenza. Sarebbero di stanza a Misurata
e lavorerebbero in team con gli inglesi nell’addestramento e nel
supporto logistico alle milizie in trincea a Sirte, contro l’Isis, su
mandato del governo di unità nazionale di Sarraj.
 Ponti aerei dal
distaccamento di Misurata porterebbero in Italia i feriti tra le fila
dei governativi.
 Per effetto di un decreto ministeriale
(secretato) del 10 febbraio 2016 il personale militare italiano figura
sotto il comando dei servizi segreti per l’estero
(Aise),
in coordinamento anche con le barbe finte già presenti in Libia, per
portare a termine missioni speciali decise da Palazzo Chigi.
 Trucchetto di Renzi (ereditato da altri premier galantuomini come lui) per sottrarre la guerra allo sguardo della politica, aggirare il voto del parlamento e non fare troppi pettegolezzi.

Tecnicamente non sarebbero truppe sul campo ma forze per la sicurezza e
in sostegno agli 007 connazionali sul posto praticamente da sempre.
 Ãˆ
da quando s’è avviato il processo di “pacificazione” nazionale che la
Libia è stata progressivamente teatro di infiltrazioni discrete, ma
continue, di piccoli contingenti di forze speciali occidentali in
supporto alle milizie locali.
 Italiani, inglesi e americani lavorano a
Misurata e per Sarraj, i francesi spingono la controparte del generale
Khalifa Haftar, che non ha ancora accettato l’accordo dell’Onu. Haftar
bombarda gli alleati di Misurata a Bengasi. 
Anche turchi, Egitto ed
Emirati arabi svolgono il proprio lavoro sporco in una sorta di guerra
finora per procura.
 Al Sisi, rimpinguato di armi da Putin e dai
francesi, manovra il generale Khalifa Haftar e considera la Cirenaica
una provincia egiziana. Il Qatar finanzia gli islamisti radicali a
Tripoli, gli Emirati si sono comprati il precedente mediatore dell’Onu,
Leòn, per appoggiare Tobruk, la Turchia ha rispedito i jihadisti libici
dalla Siria a fare la guerra santa nella Sirte.

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 Ma i libici hanno fatto la guerra a Gheddafi e tra loro proprio per
spartirsi la torta petrolifera e non dover dipendere dagli stranieri.

In sintesi, alla «pace e sicurezza in Libia» ci stanno pensando gli
stessi l’hanno destabilizzata e qualcuno, ad esempio Paolo Scaroni (come
segnala Manlio Dinucci sul Manifesto) iniziano a far balenare l’idea
che «occorre finirla con la finzione della Libia»,
«paese inventato» dal colonialismo italiano. Si deve «favorire la
nascita di un governo in Tripolitania, che faccia appello a forze
straniere che lo aiutino a stare in piedi», spingendo Cirenaica e Fezzan
a creare propri governi regionali, eventualmente con l’obiettivo di
federarsi nel lungo periodo. Intanto «ognuno gestirebbe le sue fonti
energetiche», presenti in Tripolitania e Cirenaica che verrebbero
privatizzate con tutto quel che ne consegue. Nelle nuove entità statali, le potenze occidentali potrebbero riaprire le basi che Gheddafi chiuse quaranta e più anni fa. Scaroni era a capo dell’Eni e ha manovrato in Libia tra fazioni e mercenari ed è oggi vicepresidente della Banca Rothschild.


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L’Italia è il paese europeo più vicino alla Libia e con gli interessi in ballo più cospicui. Per questo molti osservatori mainstream da mesi tifano per l’impiego di forze speciali made in Italy. Il 21% del petrolio e circa il 10% del gas arrivano da quel territorio.
La situazione che c’è ora in Libia è anche considerata tra le
principali cause dell’aumento degli arrivi di profughi tramite il
Mediterraneo centrale (più di 100 mila nel 2014, il doppio del 2013).


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L’Italia (che in primavera si diceva dovesse assumere il comando
della missione in cambio di 5 mila uomini da spedire sul suolo libico),
in realtà si trova in una posizione particolare: ha infatti sotto
controllo i suoi gasdotti e gli impianti di estrazione nel sud del Paese
grazie a un fragile equilibrismo che ha permesso a Eni di avere
rapporti con entrambi i governi e di finanziare, attraverso l’assunzione
di migliaia di persone provenienti da diverse aeree, estrazioni tribali
e milizie: dai berberi della costa alle guardie petrolifere di Jadran,
dalle milizie di Zintan ai tuareg nel Sud. In sostanza, Eni si è
garantita un salvacondotto per i suoi terminal e i suoi gasdotti ed
oleodotti. L’impianto di Mellitah, poi, è situato in un’area dove non vi è
possibilità di attacchi in grande stile da parte di Daesh ma Fausto
Piano e Salvatore Failla, i due ostaggi italiani uccisi in Libia
dall’Is, lavoravano proprio in quel compound dell’Eni, per conto di un
colosso con sede a Parma, la Bonatti, general contractor nel settore oil
and gas con 6 mila dipendenti in 14 paesi del mondo.


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Dunque la vera posta in gioco della guerra è compresa tra le logiche
geopolitiche (l’Italia preme sull’acceleratore per rincorrere francesi
ed inglesi nella lotta per il controllo delle risorse petrolifere e
naturali) e i cospicui interessi che ruotano intorno al Fondo Sovrano
libico, il Lia, azionista in varie imprese italiane per un totale di 3
miliardi di dollari. Ãˆ un bottino da 130 miliardi di dollari
subito e tre-quattro volte tanto nel caso che un ipotetico Stato
libico, magari confederale e diviso per zone di influenza, tornasse a
esportare come ai tempi di Gheddafi.


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La Banca centrale della Libia controlla il 4,99% di Unicredit,
una delle più grandi banche mondiali. L’ingresso della Libia in
Unicredit costò il posto all’ad Profumo che si consolò con una
buonuscita da 40 milioni di euro. Il fondo LAFICO (Libyan Foreign
Investment Company) controlla quasi il 2% della FIAT. Poi c’è il 2,01%
di Finmeccanica, l’1% dell’Eni e azioni di Mediobanca per 500 milioni di
dollari. Infine LIA possiede il 26% della tessile Olcese, mentre la
Lybian Post Telecommunications Information Technology Company controlla
il 14,798% di Retelit, che nel 2008 ha vinto il bando per l’assegnazione
delle frequenze WiMax in dieci regioni d’Italia.


Ma la Lia è congelata dopo il tracollo del regime di Gheddafi nel
2011 e nessuno sembra aver preso sul serio il governo di concordia
nazionale guidato da Fayez al-Serraj scaturito da un accordo
internazionale sancito a dicembre. Così a Tobruk, nell’est, si è
insediato il governo uscito delle elezioni 2014, riconosciuto dalla
comunità internazionale. A ovest, a Tripoli, governa la coalizione
islamista “Alba della Libia”. L’esercito libico è una
milizia male armata agli ordini del generale Haftar, che ha appena perso
parte del suo entourage per una faida interna.


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In Cirenaica combattono le 20/30mila Guardie Petrolifere
(Pfg) e preme l’Isis verso Est ma anche lo Shura Council of Mujahideen
in Derna e lo Shura Council of Mujahideen di Bengasi. Daesh controlla
due città almeno in parte: Derna, non troppo lontano da Tobruk, e Sirte,
dove sono stati scalzati gli uomini di Alba della Libia.

Sembra che per il Califfato ci siano soprattutto libici fuggiti dalla
guerra in Siria, poche migliaia di miliziani, meno del contingente
previsto di italiani (6mila unità) gonfiati, secondo osservatori come
Lucio Caracciolo e la Tavola della Pace, da chi controlla il «mercato
della paura» dopo gli attentati del 13 novembre a Parigi.


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La Libia ha sei milioni di abitanti e un territorio sei
volte l’Italia. La maggior parte dei libici vive sulla costa, il resto
del territorio è praticamente desertico. Le riserve di gas e petrolio
sono soprattutto all’interno dove arriva pure parte dell’immensa riserva
di acqua fossile della falda nubiana (sotto Libia, Egitto, Sudan e
Ciad) da cui sgorgano milioni di metri cubi al giorno estratti da 1300
pozzi nel deserto, per 1600 km fino alle città costiere, rendendo
fertili terre desertiche.


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L’impegno bellico italiano è iniziato ben prima che il consiglio
supremo di difesa, presieduto da Mattarella, abbia dato il via libera
all’ipotesi degli Usa di affidare il comando all’Italia.


S’era già avuta notizia dello spostamento di quattro AMX in Sicilia, e
del probabile uso degli assetti ora in forza all’operazione Euronavfor
Med per operazioni lampo contro Daesh o in difesa delle installazioni
petrolifere dell’Eni. Sigonella, in Sicilia, è già il capolinea dei
droni Usa.


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Se però la scelta della guerra da una parte appare lineare rispetto
agli interessi d’impresa come il progetto di creazione di un “hub” di
gas naturale made in Italy (in accordo con l’Egitto di Al Sisi, Tel Aviv
e il nuovo governo libico), dall’altra sembrano meno logiche le scelte
di schieramento di Roma accanto ad una delle due parti in contesa,
delegittimando lo sforzo di cercare una mediazione tra Tripoli e Tobruk.


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La
guerra sta ridefinendo il suo carattere permanente ma la Libia sta per
diventare un pantano come gli altri teatri della guerra globale. Perché è
in realtà un regolamento di conti e una spartizione della torta tra gli
attori esterni e i due poli libici principali, Tripoli e Tobruk, che
hanno due canali paralleli e concorrenti per l’export di petrolio: il
38% del petrolio africano, l’11% dei consumi europei. È un greggio di
qualità, a basso costo, che fa gola alle compagnie in tempi di magra. In
questo momento a estrarre barili e gas dalla Tripolitania è soltanto
l’Eni: una posizione, conquistata manovrando tra fazioni e mercenari,
che agli occhi dei nostri alleati deve finire e, se possibile, con il
nostro contributo militare.


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La lotta al Califfato è solo un aspetto del conflitto emerso proprio
quando si infiammava la guerra per il petrolio. Ma gli interessi
occidentali sono divergenti fin da quando Sarkozy attaccò Gheddafi senza
neppure fare uno squillo a Berlusconi. In una mail inviata a Hillary
Clinton e datata 2 aprile 2011, il funzionario Sidney Blumenthal rivelò
che Gheddafi intendeva sostituire il Franco Cfa, utilizzato in 14 ex
colonie, con un’altra moneta panafricana. Lo scopo era rendere l’Africa
francese indipendente da Parigi: le ex colonie hanno il 65% delle
riserve depositate a Parigi. Poi naturalmente c’era anche il petrolio
della Cirenaica per la Total. Il disastro sociale seguito a quella
guerra sarebbe costato ancora più del conflitto. E la ricolonizzazione
della Libia non farà che inasprirlo.


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