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di Pablo Castellani.
HEBRON, Nena News – Un gruppo di uomini osserva un punto lontano. Hanno tra i 17 e i 25 anni, indossano abiti da lavoro, parlano poco. Alle loro spalle un pick up con il motore al minimo, nell’aria regna il silenzio. Guardano il muro israeliano con i suoi 700 chilometri di cemento e recinzioni, la “Linea verde†tra Israele e Cisgiordania. Aspettano il momento giusto: qui, solo una recinzione impedisce ai giovani di passare dall’altra parte.
Oltre la rete una superstrada e poi il paesaggio desertico si trasforma in una scena collinare verdeggiante e rigogliosa. Da lì inizia Israele. Il gruppo inizia a correre velocemente verso la recinzione. Alcuni scavalcano da soli, altri tirano il bagaglio e poi passano oltre aiutati dai compagni. Cadono dall’altra parte e si lanciano a testa bassa nell’autostrada fino al guard rail per poi sparire tra gli alberi di un boschetto. Pochi istanti e di loro non c’è più traccia, sono passati. Nella scena torna il silenzio.
Ci troviamo nel governatorato di Hebron, in un villaggio che confina direttamente col muro di separazione: si è consumato un evento che si ripete quotidianamente in tutta la Palestina. Il fenomeno dei palestinesi che entrano in Israele per andare a lavorare come irregolari nei cantieri. Tra di loro si definiscono donkey workers, bestie da soma, la forza lavoro occulta di Israele.
L’immigrazione illegale, secondo il Population and Immigration Authority israeliano, coinvolge ogni anno circa 17mila persone che entrano in Israele dai Territori Occupati, ma il numero potrebbe essere più alto. Secondo fonti palestinesi e indipendenti, potrebbe riguardare 50mila persone per la sola Cisgiordania, che lavorano o vivono senza permesso oltre la Linea Verde.
Secondo B’Tselem, centro di informazioni israeliano per i diritti umani nei Territori Occupati, sono «decine di migliaia i palestinesi disperati disposti a correre il rischio di entrare in Israele senza permesso. Ogni settimana migliaia di questi lavoratori sono catturati dalle forze di sicurezza israeliane». Questa zona è particolarmente interessata dagli attraversamenti per via della sua posizione geografica privilegiata: il muro ancora in costruzione sorge poco distante.
Attraverso strade dissestate, i pick up dei trafficanti fanno avanti e indietro per portare i lavoratori. Il punto di raccolta è in uno spiazzo del villaggio, dove ad ogni ora del giorno e della notte si radunano uomini in attesa del proprio turno per scavalcare, sperando di essere fortunati come chi li ha preceduti. Quando si raggiunge il numero minimo per un viaggio, si parte.
Riusciamo ad ottenere un incontro con alcuni lavoratori pochi istanti prima che salgano sui pick up, in un edificio adiacente l’area di raccolta. Un sottoscala spoglio di mobili, qualche sedia, materassi negli angoli. Nessuno rivela il proprio nome, ma sono disposti a raccontare la loro esperienza.
I donkey workers sono diretti in varie località di Israele per lavorare, soprattutto nei cantieri e nell’agricoltura: «Tutti quelli interessati a dirigersi in una determinata zona si organizzano con una macchina», ci dicono. Secondo uno studio ufficiale israeliano del settembre 2015, la maggior parte dei lavoratori irregolari sono impiegati nel settore dell’assistenza (caregiving), mentre un migliaio lavorano nei cantieri.
Tuttavia anche questi numeri sono sottostimati: secondo il sindacato indipendente israeliano Wac Maan, il numero di cantieri israeliani aperti nel biennio 2014/2015 era di 13mila. Con la sua prolifica industria del mattone e la costruzione continua di insediamenti illegali nei Territori Occupati, Israele ha bisogno di manovalanza.
Ciò che spinge i lavoratori palestinesi ad andare all’interno di Israele o negli insediamenti è lo sfruttamento che subiscono nei propri cantieri e il basso reddito all’interno dei Territori Palestinesi, schiacciati da una crisi economica senza via di uscita a causa dell’occupazione israeliana e dell’inattività dell’Autorità Palestinese.
La paga è alta per lo standard di un palestinese: gli stipendi medi di un operaio in Cisgiordania si aggirano sui 50/60 shekel (10 euro) al giorno, «mentre in Israele puoi fare 200, 300 shekel (50 euro)».
Il costo del trasporto è variabile ma non certo economico: può andare da 100 fino a 500 shekel se si intende raggiungere un luogo molto a nord, per cui si tende ad aggregare più persone nello stesso posto per abbassare il costo del viaggio e ad allungare il periodo di permanenza, da un paio di settimane fino ad alcuni mesi. A carico dei lavoratori ci sono anche i costi di vitto e mantenimento. «Non è semplice – ci dice uno di loro – A volte torniamo con le tasche vuote, perché abbiamo dovuto coprire le spese».
I rischi cui queste persone vanno incontro sono tanti: «Non possiamo girare liberamente per Israele – raccontano – per cui dobbiamo nasconderci quando finisce il turno. Dormiamo dove lavoriamo, nei sotterranei, sui tetti o vicino al cantiere, nelle foreste, qualsiasi luogo dove nascondersi. Costruiamo un muro finto nei cantieri e poi lo buttiamo giù al mattino. Facciamo tutto ciò che serve per nasconderci dalla polizia. Se ci arrestano, ci lasciano in cella per diversi giorni e se ci va bene ci ributtano al confine».
Secondo B’Tselem, la procedura per gli irregolari arrestati dalle forze di sicurezza israeliane va dalla multa all’incarcerazione fino al respingimento. Accanto alle procedure ufficiali, però, B’Tselem denuncia l’esistenza di una serie di «protocolli informali» che comportano «abusi ed umiliazioni» per i palestinesi catturati.
In molti casi, continua l’organizzazione, «i palestinesi sono vittime di aggressioni violente e gravi maltrattamenti da polizia e soldati. Anche se le autorità israeliane condannano ufficialmente tale comportamento, nella stragrande maggioranza dei casi non riescono a perseguire i responsabili e, tra le omissioni e questi comportamenti, il fenomeno resiste».
L’esistenza di lavoratori irregolari sfruttati nei cantieri è ben conosciuto in Israele e, sulla carta, si cerca di contrastarlo. A marzo 2016, la Commissione Affari Interni della Knesset (il parlamento israeliano), ha approvato un progetto di legge che mira ad arrestare l’afflusso di lavoratori illegali dai Territori Occupati: il datore di lavoro israeliano potrebbe essere punito fino a quattro anni nel caso abbia assunto un manovale per più di 24 ore, eppure questo provvedimento non sembra essere applicato alla lettera dalle forze di polizia.
In caso di incidenti sul lavoro, il destino di queste persone è infausto: nella migliore delle ipotesi gli operai devono trovare il modo di raggiungere un ospedale palestinese con le proprie gambe, in quanto il costruttore non gli garantisce assistenza. «Piuttosto avviene il contrario! – spiegano – In caso di incidenti, all’arrivo della polizia, il datore di lavoro nega di conoscere il lavoratore infortunato, e spesso la passa liscia».
Uno degli intervistati, rimasto in silenzio e con il volto nascosto per tutto il tempo, mostra una mano mutilata: ha avuto, ci dice, un incidente sul lavoro con una sega elettrica circa sei mesi prima. Il costruttore lo ha lasciato senza provvedere al primo soccorso. Un altro interviene mostrando anche lui i segni di un grave incidente. Il suo datore di lavoro lo ha portato fino ad un ospedale palestinese, assicurandogli che avrebbe pagato l’assicurazione.
«Quando sono uscito – ci dice – il mio capo ha negato ogni coinvolgimento». Entrambi dopo quella esperienza hanno cambiato mestiere e sono passati dalla parte dei trafficanti: «Si rischia meno e si guadagna di più».
Secondo B’Tselem, «i datori di lavoro israeliani sfruttano il disagio dei palestinesi, in particolare i lavoratori che non hanno permessi per entrare e soggiornare in Israele, per pagare bassi salari e fornire condizioni squallide, negando i diritti previsti dalla legge».
La Coalizione contro gli incidenti sul lavoro, organizzazione di avvocati, lavoratori e attivisti per i diritti umani, insieme al Wac Maan, ha denunciato una condizione di enorme irregolarità sui luoghi di lavoro. Secondo queste organizzazioni, nel 2015 solo 17 ispettori del lavoro hanno vigilato su 13mila cantieri aperti: circa 750 cantieri per ispettore, una media impossibile da sostenere.
Una situazione di irregolarità che ha portato a un incremento degli incidenti mortali sul lavoro: nel 2014 è stato di 11,53 ogni 100mila lavoratori.
Al di fuori dell’edificio si è creato un gruppo di uomini davanti ai pick up. C’è numero sufficiente per un viaggio verso le recinzioni ed è il momento di partire. Li salutiamo. In pochi istanti lo spiazzale si svuota, i pick up lasciano dietro di loro una scia di polvere. E nel villaggio torna il silenzio.
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