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di Fulvio Scaglione.
A differenza di quanto si vuol far credere, il vero scopo della battaglia di Mosul, il grande centro iracheno della Piana di Niniveh che dal luglio 2014 è controllato dall’Isis, non è liberare la città ma decidere se, come e tra chi si dovrà spartire l’Iraq a guerra finita.
Far fuori i miliziani di Al Baghdadi da Mosul è impresa che la grande coalizione internazionale (67 Paesi guidati dagli Usa) poteva portare a termine assai prima. Bastava fare come hanno fatto i russi ad Aleppo. Se qualcuno si scandalizza, forse non sa bene che cosa significhi combattere una battaglia in una città densamente popolata. E soprattutto non sa che a Mosul, appena gli americani e i loro alleati ci provano, succede esattamente ciò che successe ad Aleppo, ovvero un sacco di civili innocenti ammazzati. Basta dare un’occhiata a Air Wars (https://airwars.org/), l’Ong internazionale che segue i bombardamenti in Siria e in Iraq. I dati dimostrano che da tre mesi i bombardamenti “occidentali†fanno più vittime tra i civili di quelli russi e siriani, e si parla di centinaia e centinaia di morti.
La coalizione, invece, per due anni e mezzo ha bombardato la sabbia. Da un lato sperando che l’Isis desse la spallata decisiva a Bashar al-Assad in Siria. Dall’altro perché gli ambienti neocon a stelle e strisce, che ora hanno messo sotto tutela anche Donald Trump, non hanno mai rinunciato al vecchio progetto di spartire l’Iraq in tre piccoli Stati a base etnico-religiosa (uno sunnita, uno sciita e uno curdo). Soluzione che verrebbe chiamata “federazione†ma che in realtà vorrebbe dire: uno staterello controllato dall’Iran (quello sciita), uno controllato dagli Usa via Arabia Saudita (quello sunnita) e il terzo controllato dagli Usa via curdi. Per Washington un doppio affare: far sparire qualunque prospettiva di uno Stato-nazione iracheno e, insieme, mettere le mani sui due terzi del territorio, isolando gli sciiti filo-iraniani e, via Kurdistan, interrompendo la continuità geografica della Mezzaluna Fertile (Iran, Iraq, Siria, Libano) che è il bastione degli sciiti del Medio Oriente.
Per questo le forze in campo, invece di concentrarsi sulle operazioni militari per liberare Mosul, hanno affrontato una serie di manovre e contromanovre a sfondo politico. Il Governo di Baghdad, dominato dagli sciiti filo-iraniani, ha chiesto di occupare la prima fila dell’offensiva sulla città , restando però del tutto dipendente dal supporto aereo della coalizione. Nel frattempo, ha inserito le milizie sciite a pieno titolo nei ranghi dell’esercito, garantendo loro anche l’immunità per eventuali “eccessi†commessi durante la campagna militare: una specie di assoluzione preventiva che andrà a coprire tutto ciò che accadrà durante l’effettiva presa della città .
Dall’altro lato, non appena l’esercito iracheno e le altre forze armate schierate contro l’Isis si sono avvicinate a Mosul, i curdi hanno cominciato a farsi sentire. Prima il governo della provincia di Kirkuk ha annunciato un referendum (contestatissimo dai rappresentanti arabi e turkmeni) per decidere l’eventuale annessione al Kurdistan. Poi lo stesso Massud Barzani, presidente del Kurdistan, ha detto che “un Iraq unitario non esiste†e che entro quest’anno in Kurdistan si terrà un referendum per decidere il distacco da Baghdad e la costituzione di uno Stato indipendente.
La vera battaglia per Mosul è questa. Ed è per questo, cioè perché i tempi per questa battaglia non erano maturi, che a quasi tre anni dall’irruzione l’Isis è ancora saldamente attestato in Iraq.
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