di Petar Djolic*
U”L’inferno è colmo di buone speranze
e desideri” (S. Bernardo di Clairvaux).
Definire il concetto di intervento umanitario è problematico e, quindi, l’implementazione della sua concettualizzazione è controversa. Da una parte, l’intervento umanitario è di regola inteso come un’azione di ultima spiaggia presa da uno stato o da un gruppo di stati per alleviare o far terminare palesi violazioni dei diritti umani per conto ed in favore di cittadini di una minoranza etnica dello stato-bersaglio, attraverso l’uso della forza militare. Dall’altra parte, l’intervento umanitario è percepito come una delle più sottili e nascoste forme di esercizio del potere nei sistemi geopolitici contemporanei. Vale a dire che le strutture ideologiche che provvedono a dare e sostenere la legittimazione per un più aperto e dichiarato esercizio del potere politico ed economico sono manifestate attraverso la retorica dell’interventismo umanitario.
Conseguentemente, il fenomeno dell’intervento umanitario è stato uno degli argomenti più controversi nel diritto internazionale, nella scienza politica e nella filosofia morale. Tuttavia, esaminando l’evoluzione del concetto, si può concludere che le motivazioni per l’intervento umanitario sono moralmente e giuridicamente intollerabili, agendo quest’ultimo come una forza dell’imperialismo liberista.
Più oltre, la storia illustra che l’intervento umanitario è parte di un più ampio processo utilizzato dalle potenze quale strategia d’impiego della loro influenza economica e politica. “La storia internazionale è piena di interventi giustificati da principi altisonanti” (Doyle, 2006,5).
Fin dai primi inizi del sistema mondiale così come è oggi conosciuto, circa 500 anni fa, le ideologie che giustificavano il potere occidentale sul terreno del diritto naturale e dei valori universali furono sviluppate e sposate dai leaders euroamericani. Come tale, il potere esercitato con le loro azioni è presentato come un veicolo benevolo attraverso il quale viene raggiunto il bene comune. Secondo Wallerstein (2006), il dibattito sull’intervento umanitario risale fino alle origini della colonizzazione europea. In ogni caso, come evidenzia Chomsky:
“se avessimo documentazione, potremmo trovare che anche Gengis Khan e Attila l’Unno professarono motivazioni umanitarie” (1999:76).
Sebbene gli interventi umanitari contemporanei siano portati avanti in nome della democrazia e più specificatamente dei diritti umani, una ricerca storica su questo fenomeno rivela una chiara evoluzione di una siffatta nozione nel tempo. Come viene notato da Wallerstein: “coloro che intervengono, se contestati, fanno sempre ricorso ad una giustificazione morale – il diritto naturale e la cristianità nel sedicesimo secolo, la missione civilizzatrice nel diciannovesimo secolo, e i diritti umani e la democrazia nel tardo ventesimo secolo e all’inizio del ventunesimo” (2006:27).
Juan Gines de Sepulveda nel suo libro Democrates Segundo o de las Justas causas de la guerra contra los indios, profilò “gli argomenti di base che sono stati utilizzati per l’intervento dei ‘civilizzatori’ nel mondo moderno nei confronti delle zone ‘non civilizzate’ “(Wallerstein, 2006: 6). Sepulveda (1984) accusò le popolazioni indigene di barbarie a causa della pratica di sacrifici umani, che violava la legge naturale e la legge divina. Come tali, secondo Sepúlveda (ibid.), gli spagnoli avevano la responsabilità di proteggere gli innocenti colpiti da tali ostili pratiche. In aggiunta, Sepúlveda (ibid.) argomentò che la dominazione spagnola era essenziale per portare il messaggio di Cristo alle popolazioni pagane ed indegne. Quindi, come nota Sepúlveda (ibid.), i fini positivi incluse la diffusione del diritto naturale e il grande beneficio così recato ai barbari con la protezione degli innocenti giustificavano i mezzi bellicosi utilizzati dai “civilizzatori”.
Bartolomeo de Las Casas, il primo sacerdote approdato nelle Americhe nei primi del 500, comunque, mise in discussione la moralità di un simile intervento. Denunciando le ingiustizie della conquista spagnola del Sud e Centro America, Las Casas cercò di assicurare la protezione della popolazione indigena. Las Casas (1999) si oppose agli argomenti di Sepulveda evidenziando che, a prescindere da quanto queste motivazioni fossero prevalenti, esse mancavano di valore morale. Oltretutto, anche se simili pretese fossero state giustificate, ciò non significava che la Spagna fosse l’attore più appropriato per proteggere gli innocenti, od anche che ciò potesse essere fatto senza causare più danno che beneficio.
Siffatti sentimenti, l’incapacità dei barbari di governarsi e la conseguente necessità di missioni civilizzatrici, si sono trascinati fino al diciannovesimo secolo, e furono anche condivisi dal più liberale e progressista dei pensatori occidentali, come John Stuart Mill. Mentre in generale era d’accordo con il principio del non-intervento, Mill (1867) sostenne la causa del “colonialismo benigno”. In altre parole, il principio di non-intervento di Mill era applicabile solo alle nazioni civilizzate. Secondo Mill (1867), i popoli non civilizzati soffrono di infermità debilitanti come l’anarchia, il despotismo, il clientelismo e il familismo amorale che li rendono incapaci di autodeterminazione e quindi diviene impossibile estendere loro il principio di non intervento. Infatti Mill nota: “… ci sono per assurdo dei casi in cui è consentito muovere guerra senza essere stati attaccati o minacciati da un attacco… supporre che le stesse consuetudini internazionali e le stesse regole della moralità internazionale possano valere allo stesso modo sia tra nazioni civilizzate che tra civili e barbari è un errore marchiano…” (1867:166-167).
Purtuttavia, una volta che le parole di Mill vengano esaminate nel contesto dell’intera opera, diventa chiaro che Mill si esprime perché non vi sia nessuna dominazione razziale e nessun sfruttamento; al contrario, promuove il dovere di cura del buon padre di famiglia, precludendo l’oppressione e lo sfruttamento, mentre suggerisce l’educazione e la cura, in modo che un giorno i popoli colonizzati possano divenire capaci di esistenza nazionale indipendente. Ciao vuol dire che per far progredire le nazioni non civilizzate fino al punto in cui siano capaci di sostenere istituzioni liberali ed idonee ad autogovernarsi, un periodo di temporanea subordinazione politica e protettorato è necessario. Da questa prospettiva, il colonialismo non diviene una forma di sfruttamento economico e dominazione politica ma piuttosto una pratica di paternalismo imperiale che “esporta” la civilizzazione al fine di incoraggiare il miglioramento delle popolazioni indigene (Mill 1867). In ogni caso, una tutela benigna è una brutta china, come la storia ha dimostrato (con riferimento alla colonizzazione dell’Africa, dell’America latina e Centrale, così come dell’Asia) attraverso la quale si arriva all’imperialismo maligno. Dopo tutto, come nota Doyle (2006), quanto c’è di più lontano dal Cuore di Tenebra di Joseph Conrad e dal Libero stato del Congo di re Leopoldo della Società per la Protezione degli Aborigeni o della campagna antischiavista? Più oltre, c’è una grande difficoltà nel definire la differenza tra popoli civilizzati e non civilizzati. La natura problematica di questo concetto può essere quindi sfruttata per legittimare la soggezione come una via di salvezza ed emancipazione della popolazione indigena.
Dopo la Seconda Guerra Mondiale e l’inizio delle Nazioni Unite, le potenze statali cambiarono la loro retorica dalla nozione di superiorità culturale e razziale e conseguentemente ancorarono le missioni civilizzatrici ai diritti umani. Siffatti sentimenti si sono intensificati dopo la fine della Guerra fredda, che vide come conseguenza un escalation degli interventi umanitari, contemporaneamente all’apparente diminuzione di importanza della sovranità statale. Questa “rivoluzione delle convinzioni morali” (Davidson, 2012: 129), enfatizzata attraverso la necessità morale di intervenire militarmente in caso di grosse violazioni dei diritti umani, è stata pesantemente promossa all’interno dei circoli liberali contemporanei. Fino agli inizi degli anni 90, un’atto di autodifesa era una giustificazione predominante per l’intervento, comunque, l’ascesa dell’egemonia delle idee liberali riguardo alle responsabilità degli stati nei confronti dei diritti individuali “è sembrata manifestarsi nell’interpretazione del diritto internazionale” (Davidson, 2012:134). Così, il principio di non intervento, che era fondato sul principio della sovranità degli stati, non ebbe più molto a lungo autorità all’interno della comunità internazionale. Un simile cambiamento nei parametri che permettono l’intervento militare è culminato nella formulazione del termine “Responsabilità di proteggere”, basato sul principio della teoria del diritto naturale “la nostra comune natura umana genera comuni doveri morali”, includendo in ciò, in qualche versione, un vero e proprio diritto di intervento umanitario” (Holzgrefe and Keohane 2003: 25). Comunque, l’assenza di un meccanismo legale internazionale che sia in grado di indirizzare ed eseguire leggi formulate sulla base di questi principi dà il destro alle potenze statali per agire flessibilmente basandosi sui propri fini politici ed economici e sfidando i tradizionali valori umanitari di “imparzialità, neutralità ed indipendenza” (Barnett, 2005:724), al fine rendendo tale principio inutile ed in alcuni casi, anche dannoso, suscettibile di manipolazione e strumentalizzazione.
In conclusione, l’uso della forza militare per sostenere ideali umanitari appare, alla fin fine, una contraddizione in termini. Vale a dire che “le guerre non sono più scatenate in nome di una sovranità che deve essere difesa, sono scatenate per conto dell’esistenza di tutti” (Focault, 1990: 137). Secondo Dillon e Read (2009), tali sono i paradossi dell’intervento umanitario – le potenze liberali dichiarano guerre contro la vita umana in nome della protezione e della conservazione della vita umana. In altre parole, questioni come la povertà, le crisi sanitarie, gli orientamenti ambientali e le guerre civili sono ri-concettualizzate come minacce internazionali che necessitano dell’intervento perché non possano “inondare e destabilizzare la società occidentale” (Duffield, 2007:1). In accordo con questa visione, quei modi di vita che non si conformano agli standard liberali occidentali sono visti come minaccia all’intera società. Questa nozione è alle radici dell’impulso all’interventismo liberale.
Considerando il sopraesteso sviluppo storico, è difficile sostenere che, a dispetto del suo mantello umanitario, l’interventismo liberale non sia, in realtà, sempre stato una parte della strategia liberale di governo globale. Cioè l’imperialismo liberale. In tal modo, si può concludere che l’impresa liberale è la “quintessenza dell’arte di supremazia globale” (Burchell, Gordon e Miller, 1991:14). Come illustrato vi sono diverse somiglianze tra la contemporanea discussione che riguarda il liberismo e la vecchia retorica dell’impero. In altre parole, l’intervento umanitario è in sostanza un velo con cui l’imperialismo politico ed economico può camuffarsi. Più oltre, sembra esistere una significativa dissonanza cognitiva tra l’universalismo liberale proclamato dal cosmopolitismo umanitario e l’imperialismo liberista espresso attraverso altisonanti principi di intervento umanitario che, in realtà, funzionano da mezzo col quale vengono radicate od eliminate tutte le forme di vita che non si conformano alle idee liberali e liberiste. (Mc Carthy, 2009:166)
* Da globalresearch.ca
Tratto da sinistrainrete.info