di Bruno Montesano
A Bruxelles, e tra i governi liberali e conservatori da Parigi a Berlino, va di moda attaccare chi parla esplicitamente di muri e esibisce la propria forza. Nel frattempo l’Europa, che è la seconda potenza al mondo per spesa in armamenti, avvia un grande piano di investimenti nel settore bellico e finanzia la Turchia, che ha appena costruito un muro lungo il suo confine con la Siria per difendersi meglio dai profughi che contribuisce a creare. Oltre ai 3 miliardi appena consegnati dall’Europa a Erdogan al fine di esternalizzare le frontiere e rendere invisibile [1] la violenza necessaria a tal scopo, l’Europa finanzia anche le tecnologie e le armi di cui la Turchia ha bisogno per i suoi obiettivi di potenza regionale.
L’attuale gestione delle frontiere interne ed esterne, rispondendo al paradigma neoliberale del migration management, necessita di un forte dispiegamento di risorse in quello che potrebbe esser definito il “business della xenofobia” fatto di droni, satelliti, videocamere, recinzioni, filo spinato e agenzie di sorveglianza. Secondo il report Money Trails, in quindici anni sono stati spesi 11,3 miliardi di euro per deportare i migranti nei paesi d’origine, circa 1 miliardo per le agenzie europee come Frontex e Eurosur, 230 milioni nella ricerca e 77 milioni per le fortificazioni. La forza lavoro deve filtrare attraverso le frontiere e, affinché chi riesce a superarle sia in condizioni di bisogno e precarietà, il loro attraversamento va reso difficile e rischioso. Nella fortezza Europa, allo stesso scopo si spendono più risorse per il respingimento che per l’accoglienza. Le migrazioni, oltre che scaturire dalle dinamiche dell’economia globalizzata, dipendono dal collasso dell’ordine internazionale, scosso da guerre, dittature, crisi climatiche e crescenti disuguaglianze.
Davanti all’insicurezza globale del neoliberismo, l’Unione Europea per affrontare questi “fattori di instabilità”, nel 2016 ha deciso di adottare una nuova politica estera, la UE Global Strategy (EUGS), al cui interno spicca il progetto di costruire una difesa comune europea. Nonostante l’analisi retrostante la strategia lasciasse spazio ad alcune positive possibilità politiche, di fatto l’Unione Europea riproduce il paradigma “realista” della difesa, costituendo un modello militaresco e nazionalista che replica i tradizionali meccanismi statali di potenza su scala più ampia.
Primo passo in tal senso è PeSCo (Permanent Structured Cooperation), l’iniziativa di cooperazione rafforzata approvata da 25 paesi membri nel dicembre 2017 all’interno del Consiglio Europeo. Coerentemente con la sostituzione della sicurezza sociale con la sicurezza poliziesca e militare, PeSCo, nei documenti di presentazione, è spacciata come la risposta alla crescente domanda di sicurezza. Oltre all’autonomizzazione della politica di difesa rispetto agli umori di Trump e dopo Brexit, tra gli obiettivi di PeSCo c’è il risparmio ottenibile con la cooperazione tra forze militari di diversi paesi e la razionalizzazione dei costi degli eserciti nazionali, valutato tra i 25 e 100 miliardi di euro. Allo stesso tempo, però, nell’ultimo anno la spesa è aumentata del 3,7%, e con PeSCo si stabilisce che ogni paese debba incrementare ulteriormente la spesa bellica, come indicato dalla NATO e da Trump. In realtà, con la scusa del risparmio, si finirà per spendere di più.
PeSCo e il Fondo Europeo per la Difesa: politica industriale, profitti e lobby
Mentre l’anemica crescita europea continua a ricordarci che l’austerity ci ha fatto perdere irrimediabilmente un decennio, dal 2020 dovrebbero esser spesi 5,5 miliardi di fondi europei e nazionali l’anno per acquisti di armi e nella ricerca bellica. Con PeSCo, i paesi dell’Unione si sono detti pronti a collaborare prevalentemente in tre ambiti: gli investimenti nella difesa, lo sviluppo di nuove capacità e la preparazione all’intervento congiunto nelle operazioni militari.
A tal fine, PeSCo si è dotata due strumenti: la Revisione coordinata annuale della Difesa (CARD), che serve a monitorare e valutare l’efficienza delle spese militari nazionali, e il Fondo Europeo per la Difesa, che dovrebbe promuovere investimenti nella ricerca e nella produzione bellica. Il Fondo Europeo per la Difesa sarà dedicato alla ricerca, con il Preparatory Action on Defence Research (PADR) e alla razionalizzazione della spesa e allo sviluppo di nuove tecnologie, con il Programma Europeo di Sviluppo Industriale nel settore della Difesa (EDIDP, European Defence Industrial Development Plan).
La prima riunione dei ministri della Difesa in formato PeSCo sulla programmazione dei progetti futuri è avvenuta il 6 marzo di quest’anno [2] ma l’ultimo atto del processo verso la difesa comune è stata l’approvazione del Parlamento Europeo del Regolamento dell’EDIDP. Contro hanno votato la sinistra radicale europea e i verdi, con l’ astensione della vicepresidente della commissione competente – la ITRE, Industry, Research and Energy – Patrizia Toia dei Socialisti e Democratici europei. Ma anche se nell’Europarlamento alcune forze politiche provano a bloccare e far divergere il progetto bellico europeo, la lobby industriale militare, nella stessa istituzione, può comunque contare su un ottimo referente. Infatti, l’anno scorso, l’elezione a presidente dell’Europarlamento di Antonio Tajani, già Commissario Europeo all’Industria assai gradito al mondo imprenditoriale e militare, ha contribuito a rilanciare il progetto di difesa europeo [3]. Del resto poi le imprese non necessitano più di tanto di queste entrature, perché possono direttamente influenzare le decisioni di investimento all’interno dei Group of Personalities, consessi ove, oltre a militari, politici e ricercatori, trovano spazio varie imprese belliche europee, come Thales, Airbus e Leonardo (ex Finmeccanica) [4].
Lo stesso sistema – per lo più con le stesse aziende – funziona anche nell’industria del controllo delle frontiere e dei respingimenti dei migranti, cuore [5] del regime delle frontiere europeo. Governi, funzionari e imprese del settore – aiutati dai media – alimentano la psicosi dell’invasione individuando come priorità politica l’espulsione dei migranti e la difesa dei confini. Di fatto, in assenza di una politica industriale europea,l’industria militare e della sicurezza crea la propria domanda e si garantisce i propri flussi di finanziamento: il Fondo europeo per la Difesa sembra esser una declinazione dello stato innovatore di Mariana Mazzucato circoscritto alla sola industria bellica e della sicurezza. E, come se non bastasse, i diritti intellettuali di proprietà resteranno alle aziende coinvolte. Nonostante il finanziamento della spesa per ricerca e sviluppo ricada sulle tasche dei cittadini europei.
Anche la base normativa suggerisce la direzione del progetto PeSCo. Infatti, dato che l’articolo 41 del TUE vieta di usare fondi europei per la sicurezza e il settore militare, PeSCo si fonda, oltre che sugli articoli 42 e 46 del TUE, sull’articolo 173 TFUE sulla competitività dell’industria. Infine, mentre le attuali regole fiscali europee prevedono che gli investimenti pubblici siano conteggiati nel deficit, l’unica deroga che le istituzioni comunitarie sembrano disposte a fornire è sul piano dell’industria militare, con lo scorporo dal disavanzo della spesa pubblica (la c.d. golden rule) per la difesa.
Insomma, ciò che è assolutamente vietato per gli investimenti volti a favorire il benessere della popolazione residente in Europa, vale per rilanciare i profitti di pochi e per aumentare l’insicurezza e la violenza globale (si pensi, da ultimo, alla vendita di armi italiane all’Arabia Saudita usate per compiere stragi in Yemen).
Spesa militare, stato europeo e democrazia
“L’obiettivo è di trasformare la collaborazione politico-militare in un volano economico-industriale” scrivono Beda Romano e Carlo Marroni sul Sole 24 Ore [6]. Per quanto Macron tenti di inserire la difesa comune nel rilancio dello spirito europeista, è difficile negare che i passi verso uno stato europeo, dotato oltre che di una moneta comune di un esercito, sono indirizzati anzitutto verso il potenziamento del complesso industriale-militare e degli attuali equilibri di potere. Altrettanto difficile è che PeSCo possa effettivamente permettere di raggiungere una maggiore integrazione dell’Unione Europea.
In effetti, per come PeSCo è strutturata – secondo l’IMI (Informationsstelle Militarisierung centre), centro studi vicino al partito Die Linke – a rafforzarsi saranno i paesi che già dominano la politica dell’Unione. L’obiettivo è un altro: rilanciare la spesa militare. Spesa che, oltre a distorcere il cambiamento tecnologico, sottrae risorse alla spesa pubblica orientata sui bisogni della società e alimenta la corsa agli armamenti favorendo l’instabilità internazionale. Come è facile immaginare, questo tipo di spesa genera distruzioni, devastazioni e inquinamento – a cui bisogna poi far fronte sostenendo notevoli costi di soccorso e di ricostruzione.
Da un punto di vista economico, per Roland Kulke della Rosa Luxemburg Stiftung, l’iniziativa non è spiegabile neanche con il consueto ricorso al keynesismo militare. Infatti, il moltiplicatore della spesa militare è più basso di quello per servizi pubblici come trasporti, sanità o educazione. Inoltre, in assenza di una coerente politica estera comune, e di una riforma della governance europea che ne colmi le lacune, un esercito europeo potrebbe diventare un pericolo: “La distinzione più importante tra un esercito e una banda di ladri è che un esercito è controllato politicamente”, scrivono gli attivisti Bram Vranken (Vredesactie) e Laëtitia Sédou (European Network Against Arms Trade) [7].
È probabile che il prossimo bilancio europeo per il periodo 2021-2027 salga almeno all’1,2% del PIL dall’1% attuale (circa 1.000 miliardi). Invece di istituire un modello di sicurezza improntato alla human security, fondato su giustizia sociale e mediazione politica, e di finanziare la transizione dall’attuale, insostenibile, sistema ad un’economia più giusta [8], molte delle risorse del budget europeo andranno a nutrire il complesso militare industriale, celando il trasferimento di ricchezza pubblica con la retorica dell’integrazione europea. Contro l’attuale configurazione neoliberale europea e la sua finta alternativa nazionalista e xenofoba, la battaglia contro la militarizzazione della sicurezza e dei confini e per la riconversione della produzione di armi ad attività civili [9] diventa quindi un terreno cruciale per costruire un’Europa diversa.
(29 marzo 2018)
Link articolo: Difesa europea, il business della sicurezza