da L’Antidiplomatico.
L’incidente costato la vita al ministro dell’Interno ucraino e al suo intero staff potrebbe essere tale. Di certo non è stato abbattuto da un missile russo, dal momento gli ucraini l’avrebbero denunciato su tutte le piazze del mondo. Lo stesso Zelenky ha parlato di una “terribile tragedia”. Insomma, incidente, punto. Ma la tempistica interpella.
Incidente o scontro di potere?
Infatti, l’incidente è avvenuto il giorno successivo alle dimissioni del potente primo consigliere di Zelensky, Alexey Arestovich. Certo, Arestovich si è praticamente suicidato, affermando che il missile russo che si abbattuto su un edificio di Dnipro (oltre ottanta morti), era stato intercettato dalla contraerea ucraina, confermando la versione di Mosca.
Ma si era corretto, aveva rettificato, umiliandosi anche. Avrebbe dovuto bastare dato il potere che in questi mesi aveva acquisito il personaggio. Invece, è diventato un caso politico, con alcune forze di governo che hanno chiesto che la SBU indagasse sul suo conto.
Nessuno l’ha difeso, anche perché indifendibile essendosi macchiato di una colpa gravissima (ha incrinato l’immagine dell’equivalenza tra russi e male assoluto). Così non ha potuto fare altro che dimettersi. Ed ecco che, il giorno dopo, un’altra figura chiave del governo ucraino fa una brutta fine.
Tempistica che suscita domande, appunto. Tanto da indurre a ritenere che a Kiev si stia consumando una sorda quanto feroce lotta di potere. O quantomeno a reputare che tale ipotesi non si può escludere, un’ipotesi avvalorata, peraltro, dall’ulteriore stretta sui media avvenuta alcuni giorni fa.
Una stretta che, ovviamente, fa supporre, stavolta non come ipotesi ma come dato di fatto, che sui media circolassero notizie non gradite al governo. Visto che la censura delle voci filo-russe era già vigente e attuata con zelo è ovvio che la stretta riguardasse voci ucraine non in sintonia con Zelensky, presumibilmente supportate da cerchie di potere altrettanto non sintoniche.
Gli ingredienti di uno scontro di potere ci sono tutti: una situazione in cui le élite sono intoccabili a motivo del loro ruolo in difesa della patria; la spinta a nazionalizzare aziende importanti; l’afflusso di miliardi di euro e di dollari senza alcun controllo da parte dell’Occidente, con ulteriori montagne di soldi in arrivo da privati (vedi incontro tra Zelensky e Fink, il patron di Blackrock, il più importante gruppo finanziario del mondo); le tante oscurità di un apparato militare e di sicurezza che intrattiene rapporti, confessabili e non, con apparati analoghi di mezzo mondo e altro meno importante.
Il surge di Ramstein
Ma al di là degli interna corporis del potere ucraino, da registrare in questo momento la spinta Usa-Nato a un rilancio della gloria militare di Kiev. Necessita, dal momento che la narrazione delle epiche gesta delle forze ucraine, che ha accompagnato il conflitto fin dal suo inizio ed è essenziale per sostenere il supporto bellico, si sta affievolendo.
Dopo il ritiro dei russi fa Kherson, infatti, gli ucraini non hanno fatto alcun passo in avanti, anzi stanno subendo l’iniziativa del nemico. Peraltro, una guerra raccontata in modalità hollywoodiane come questa necessita di tempistiche adeguate, non può permettersi cali di tensione: c’è il rischio che il pubblico si annoi.
In termini meno figurati, c’è il rischio che l’opinione pubblica inizi a perdere di interesse per le sorti di Kiev e consideri più le proprie, in particolare si chieda perché debba pagare tanto l’energia e altro per una guerra lontana alla quale sarebbe bene porre fine anche a costo di compromessi.
Per questo, per tre giorni tutti i media hanno riferito nei minimi dettagli la tragedia del palazzo di Dnipro, interrogando sopravvissuti e autorità, come se fosse una cosa strana che in guerra muoiano persone (sono gli stessi media, e a volte anche gli stessi cronisti, che quando i palazzi iracheni crollavano in testa ai legittimi occupanti a causa delle bombe intelligenti Usa lodavano la chirurgica potenza degli armamenti Usa; tant’è).
Al di là delle domande sul caso, cioè su come sia finito quel missile russo là sopra – e sulla constatazione che tale tragedia risulta eccezionale, nonostante la guerra sia iniziata da un anno (da cui discende che i russi stanno facendo attenzione ai loro obiettivi), resta, appunto, che tale insistenza serve a creare pathos; che il dolore e la commozione di quella povera gente viene usata per convincere l’opinione pubblica che dobbiamo aiutare gli ucraini. Serve, cioè, a mandare altre armi e a preservare dalla chiusura la macelleria ucraina.
A tale pathos contribuirebbe non poco qualche immagine del fronte, di quelle che circolano sul web, quelle dei prati disseminati di cadaveri di poveri ragazzi in divisa. Ma questo, di pathos, sarebbe controproducente. Rischierebbe di dare alimento a interrogativi che si vuole sopire, in particolare sulla necessità di mandare questi ragazzi al macello per conto degli Stati Uniti (ma invitiamo, a vederle; aiutano a capire il conflitto al di là delle narrazioni hollywoodiane).
Cosa detta chiaramente dal ministro della Difesa ucraino Oleksii Reznikov: “Oggi stiamo svolgendo la missione della NATO. Non stanno versando il loro sangue, stiamo versando il nostro. Ecco perché sono tenuti a fornirci le armi”.
Sulla necessità di un surge della Nato scrivevano alcuni giorni fa sul Washington Post anche l’ex Segretario di Stato Condoleezza Rice e l’ex ministro della Difesa Robert Gates: “In assenza di un’altra importante svolta di successo ucraino contro le forze russe, le pressioni occidentali sull’Ucraina per negoziare un cessate il fuoco aumenteranno con il passare dei mesi caratterizzati da uno stallo militare”. Tanto che, nell’articolo, si spiegava che il tempo poteva giocare dalla parte di Mosca.
Concetto ribadito più di recente da Yaroslav Trofimov sul Wall Street Journal (anche per lui “il tempo potrebbe essere dalla parte di Mosca”), da cui il necessario surge a breve.
Così, il 20 gennaio, si decideranno le linee guida di tale surge. A Ramstein, che, come scrive Domenico Quirico sulla Stampa, è diventata “la capitale del nuovo impero d’Occidente in guerra contro i barbari dell’Eurasia, l’impero d’Oriente di Russia e Cina”. E qui saranno “tollerate solo obbedienze assolute”, svaporando così la residua sovranità dei Paesi europei. Washington Imperat. Ci torneremo.
A proposito del surge militare prossimo venturo, due considerazioni. Prima: insieme ai tanti carri armati, a Kiev arriverà un’altra montagna di soldi. Seconda: il surge, in genere non porta fortuna all’America. Evocato altre volte quando stavano perdendo le guerre, la sua attuazione non ha invertito la tendenza, vedi alle voci Vietnam e Afghanistan. Vedremo.