di Pino Cabras.
Qualche settimana fa, un gruppo di donne molto in vista di un settore della borghesia italiana filoisraeliana ha lanciato una poderosa raccolta di firme per dichiarare “femminicidio di massa” la strage del 7 ottobre. Non bastava più la strage in sé, ormai soverchiata simbolicamente dai numeri della carneficina di massa perpetrata dai Netanyahu Boys con più kilotoni di Hiroshima e Nagasaki messi insieme. Serviva unirla a uno dei vettori di esecrazione più usati da qualche anno in qua per innescare indignazione: la parola femminicidio. Hamas, secondo le autrici dell’appello, non si è limitata a un’azione di violenza terroristica, perché voleva colpire le donne in quanto donne. Nell’appello non viene fatto cenno alcuno alla furia genocida che ha distrutto quasi tutte le case, le scuole, gli ospedali e qualsiasi altra infrastruttura di Gaza. Non si fa menzione alcuna delle quasi diecimila donne innocenti, in buona parte minorenni, sventrate fin qui dalle bombe di Bibi il genocida seriale. Non sono citate le migliaia di giovani madri che hanno visto profanare la loro maternità nella penosa raccolta dei corpicini esanimi o a brandelli dei loro figlioletti o che non riescono più a dissetare e nutrire quelli che sono scampati alla caccia dei droni. Non si fa cenno, insomma, al più grande femminicidio di massa mai perpetrato da quando è stata inventata la parola femminicidio: ossia il femminicidio di massa delle donne di Gaza.
Me le vedo, emozionate e indignate, le raffinate signore, durante l’impeto di un “facciamo qualcosa”, “scriviamo qualcosa”, tese a sostenere “il diritto-di-Israele-di-difendersi” a tutti i costi. C’è Andrée Ruth Shammah, rinomata regista teatrale che in Israele vede «un esperimento meraviglioso di integrazione, quel mettere insieme tutte le genti del mondo, arabi, russi, polacchi, francesi, ashkenaziti, sefarditi.» C’è Silvia Grilli, giornalista con una lunga storia di direttrice di “Grazia” e con significative esperienze presso “Il Foglio”, il giornale più filoisraeliano in Italia, un quotidiano che dal 1997 al 2021 ha percepito oltre 61,5 milioni di finanziamenti pubblici insegnandoci le virtù del mercato occidentale, stesso trampolino di suo marito, Christian Rocca, oggi direttore di “Linkiesta”, un’altra testata iper-atlantista. C’è poi Alessandra Kustermann, ginecologa da sempre impegnata in iniziative contro la violenza sulle donne. Non manca all’appello Anita Friedman, fresca fondatrice dell’associazione “Setteottobre”. Il marito Stefano Parisi, un manager con frequenti porte girevoli fra incarichi pubblici, imprese e banche, ha spiegato bene lo scopo dell’associazione: «Da subito ci concentreremo sulla capacità di intervenire sui social, per frenare le comunicazioni di odio contro Israele e contro l’occidente. Vorremmo poi mettere pressione la stampa, nessuna testata esclusa». Anche Manuela Ulivi, un’avvocata civilista esperta in diritto di famiglia e minorile, presidente della Casa di Accoglienza delle Donne Maltrattate di Milano, è del gruppo delle prime firmatarie dell’appello e anche lei magari vorrà mettere «pressione sulla stampa, nessuna testata esclusa».
L’appello parte e al volo lo firmano alcuni immancabili nomi (non sia mai che ricevano anche loro “pressioni” sulla testata). «Tra gli aderenti Corrado Augias e Massimo Recalcati, Natalia Aspesi e Concita De Gregorio, e poi ancora Riccardo Muti, Gabriele Salvatores, Pupi Avati, Letizia Moratti e molti altri», ci ricorda “la Repubblica”
L’esordio dell’appello fa un resoconto horror sensazionalistico che indugia in particolari anatomici con dettagli che qui vi risparmio. In sostanza dice che durante l’attacco di Hamas a Israele il 7 ottobre, le donne sono state brutalmente aggredite e uccise in modi efferati, subendo violenze sessuali e mutilazioni prima di essere uccise e oltraggiate anche dopo la morte. Cita «l’inchiesta del quotidiano “New York Times” che conferma l’orrore a cui sono state sottoposte le israeliane». L’appello qui fa riferimento a un articolo di prima pagina del grande quotidiano newyorchese datato 28 Dicembre 2023, intitolato «“Grida Senza Parole”: come Hamas ha usato come arma la violenza sessuale il 7 Ottobre» e scritto da Jeffrey Gettleman, Anat Schwartz e Adam Sella, che afferma l’esistenza di «un vastissimo schema di violenza di genere il 7 Ottobre» da parte di Hamas. Come vedremo, si tratta di un articolo confutato con dovizia di dettagli da giornalisti d’inchiesta e esponenti del femminismo di molti paesi.
L’appello della borghesia filosionista italica si conclude in modo perentorio: «Non si può restare in silenzio. Lo dobbiamo alla memoria di tutte le nostre sorelle, anche quelle israeliane. Il femminicidio del 7 ottobre deve essere dichiarato femminicidio di massa e gli autori devono essere condannati per tale reato.» Possono però stare in silenzio sul femminicidio di massa più grande. Le donne palestinesi non sono abbastanza sorelle.
Ma c’è di più: assodato il silenzio da parte delle borghesi indignate sul massacro sistematico dei civili di Gaza; assodato che nessuno nega che il 7 ottobre di Hamas sia uno degli episodi efferati e dai contorni foschi di un lunghissimo conflitto; rimane la questione molto sospetta di questa operazione propagandistica internazionale che anche in Italia vuole portare tutti in una sola direzione. Abbiamo il diritto e il dovere di non fidarci delle fonti.
La narrazione è partita infatti da Zaka, un’agenzia israeliana «di investigazioni e soccorso». Quest’organizzazione ha diffuso informazioni su presunti stupri di massa, notizie che sono state rapidamente riprese e diffuse a livello internazionale dai media e da figure politiche israeliane e statunitensi. Tra le dichiarazioni più eclatanti di Zaka vi è stata quella, poi rivelatasi falsa, riguardante la decapitazione di 40 bambini israeliani, un’affermazione che è stata inizialmente ripresa anche dal Presidente Joe Biden e successivamente pluri-smentita perfino dalle autorità israeliane. Il sito Grayzone ha documentato altre informazioni inesatte diffuse da Zaka.
La fondazione di Zaka è in capo a Yehuda Meshi-Zahav, in seguito incarcerato per reati di pedofilia e stupro, accusato di aver commesso abusi su molteplici donne e bambini. Meshi-Zahav è stato visto come “l’Haredi Jeffrey Epstein”, in riferimento al noto criminale americano di cui si parla anche in questi giorni. Nonostante la controversia emersa intorno alla figura del fondatore nel marzo 2021, quando Meshi-Zahav tentò il suicidio dopo aver ricevuto il Premio Israele, la sua organizzazione ha comunque proseguito le sue attività. Attualmente, Zaka è guidata da Yossi Landau, che sta lì da ben 33 anni. Landau, un veterano dell’organizzazione, avrebbe avuto incarichi importanti anche sotto la gestione di Meshi-Zahav, ma non avrebbe mai notato comportamenti illeciti. Un tipo molto distratto, per essere uno che si fa vanto di una ferrea competenza investigativa.
Il 10 gennaio 2024, il sito “Grayzone”, diretto da Max Blumenthal, un agguerrito giornalista d’inchiesta con profonde radici familiari e culturali nell’ebraismo statunitense e molto critico nei confronti del sionismo contemporaneo e delle politiche atlantiste, fa le pulci all’inchiesta del “New York Times”. Già nel titolo riprende e deride il giornalone della Grande Mela: «Urla senza prove: alcune domande al NYT riguardo il discutibile reportage sugli ‘stupri di massa di Hamas’» (autori: Max Blumenthal e Aaron Maté).
La controinchiesta di “Grayzone” contesta l’articolo del NYT accusandolo di sensazionalismo, salti logici e mancanza di prove concrete a supporto delle sue conclusioni. Muove pesanti critiche, a partire dalla manipolazione delle testimonianze: la famiglia di Gal Abdush, soprannominata “la ragazza in abito nero” e protagonista dell’articolo del NYT, nega che la giovane sia stata stuprata, accusando il giornale di averli ingannati sull’angolo editoriale dell’articolo. La sorella di Abdush, Miral Alter, ha dichiarato su Instagram che non c’era prova dello stupro e ha criticato il NYT per aver travisato la storia. Il cognato di Abdush, Nissim Abdush, ha contraddetto lo stupro in un’intervista, criticando i media internazionali per il sensazionalismo. La madre di Abdush, Eti Bracha, ha affermato di essere stata imbeccata sulla notizia dello stupro solo dal reporter del NYT, sollevando dubbi sulla procedura giornalistica del giornale.
Vengono inoltre contestate gravi incongruenze e inaffidabilità delle fonti: il NYT cita un video di Eden Wessely, ma si mette in dubbio l’autenticità e la proclamata viralità del video, dato che non è rintracciabile online. La polizia israeliana ha difficolta a trovare testimoni della violenza sessuale che corrispondano alle affermazioni del NYT. Testimonianze chiave, come quella della contabile “Sapir”, sono messe in dubbio per affermazioni esagerate e non verificate. Dichiarazioni di un presunto paramedico e di Raz Cohen, un veterano delle forze speciali israeliane, sono contraddittorie e cambiano nel tempo, sollevando dubbi sulla loro affidabilità.
C’è poi una questione di metodologia giornalistica e di criteri deontologici ed etici: il “Grayzone” solleva domande sulla metodologia giornalistica del NYT, in particolare riguardo all’influenza diretta sulla percezione delle famiglie delle vittime e alla mancanza di verifica incrociata delle testimonianze. Vengono sollevate preoccupazioni sull’affidabilità dei testimoni chiave e quando i loro racconti presentano delle evidenti discrepanze, queste sono semplicemente omesse. Il “Grayzone” critica il NYT per non aver considerato il contesto più ampio degli eventi del 7 Ottobre e per aver ignorato potenziali motivazioni politiche dietro le testimonianze.
Ci sono dunque implicazioni più ampie: l’articolo suggerisce che il reportage del NYT potrebbe essere stato influenzato da obiettivi di relazioni pubbliche del governo israeliano. Il “Grayzone” e altri media indipendenti stanno esercitando pressione per una maggiore trasparenza e responsabilità nel giornalismo riguardo agli eventi del 7 Ottobre, che hanno numerosi punti oscuri, tipici delle grandi vicende terroristiche, che – come sappiamo da decenni – sono il crocevia di strategie complesse e stratificate spesso collegate a inconfessabili interventi di servizi segreti e operazioni militari “sporche”.
Non è davvero poco, quel che ha sollevato il “Grayzone”: mette in discussione la credibilità e l’integrità giornalistica di uno dei più importanti giornali del mondo riguardo alla sua copertura degli eventi del 7 Ottobre, sottolineando la mancanza di prove concrete, l’uso di fonti discutibili e una possibile manipolazione delle narrazioni per adattarsi ad un’agenda specifica. L’articolo evidenzia l’importanza della verifica delle fonti e della responsabilità giornalistica nell’affrontare temi delicati come la violenza di genere in contesti di conflitto.
Il cuore del problema è dunque questa profonda manipolazione. Come ha scritto già il 14 ottobre Simone Santini su Megachip nel suo articolo “L’Orrore non basta più”, «Come in ogni operazione di marketing l’obiettivo siamo noi, la massa inerme degli spettatori, a cui si vuole vendere qualcosa. Cosa? La disumanizzazione del nemico. Ognuno di noi quando vedrà un israeliano dovrà ricevere un pugno nello stomaco e sentirsi straziato, colpevolizzato o immedesimato. Invece quando vedrà un palestinese dovrà vedere una “bestia senza anima” (cit.). Nessuna pietà per lui, nessuna angoscia. L’odio deve essere sacro, la vendetta legittima e giusta. Implacabile.»
Quale strumento migliore del vettore “femminicidio”, dunque, per le promotrici organiche del filo-sionismo a comando? Tutto il movimentismo per questioni di genere potrà essere strumentalizzato e canalizzato in una cinghia di trasmissione delle pubbliche relazioni di Bibi Netanyahu.
Solo che organizzazioni di donne che si battono in condizioni molto difficili e in contesti complicati per i diritti delle donne non ci stanno a questo tipo di manipolazioni. Su “Speak Up”, un sito di un’organizzazione di femministe egiziane, è apparsa una lunga requisitoria contro il pezzo del NYT, firmata da migliaia di personalità di tutto il mondo anche in rappresentata di varie organizzazioni femminili e intitolata: «L’ignobile ‘indagine’ del NYT: strumentalizzazione della violenza sessuale contro le donne a fini di propaganda per l’Occupazione».
Anche loro demoliscono il pezzo del NYT con tante bordate critiche, innanzitutto per l’assenza di testimonianze dirette delle vittime: nonostante il reportage affermi di basarsi su testimonianze di 150 persone, nessuna di queste proviene direttamente dalle vittime. Questa mancanza solleva dubbi sulla validità degli eventi riportati, così come l’assenza di sopravvissuti che abbiano parlato pubblicamente. Nonostante ciò, il NYT afferma che le sue conclusioni si basano su prove. Le testimonianze presentate nel rapporto sono grandguignolesche e piene di cliché, senza indicazione di una verifica dei fatti. Questi racconti sembrano più propaganda di guerra che resoconti credibili. Il personale medico sul posto ha descritto di aver trovato corpi in posizioni che potevano suggerire un’aggressione sessuale, ma non ha raccolto prove forensi, il che solleva dubbi sulla loro attendibilità. L’assenza di prove forensi sostanziali, come campioni di DNA, analisi del sangue o tracce di fluidi corporei, solleva dubbi sulla credibilità e sull’accuratezza fattuale degli eventi riportati.
Le firmatarie del documento pubblicato da “Speak Up” insistono in particolare nel contestare l’utilizzo di un linguaggio emotivo e sensazionalistico che spinge a una lettura distorta e parziale degli eventi. Se leggiamo infatti l’incipit dell’appello delle Grandi Borghesi italiane, è interamente basato su un’impronta violenta e scioccante, tutta emotiva, aderente al medesimo schema.
Qui la requisitoria delle donne mobilitate da “Speak Up” va al cuore di una questione fondamentale, ossia le implicazioni per le donne a livello globale: l’uso del corpo delle donne e delle accuse di stupro come propaganda di guerra ha profonde implicazioni, influenzando non solo il conflitto immediato ma anche le percezioni globali sulle donne. Questo approccio mina la credibilità dei casi legittimi di violenza sessuale. Da qui un rifiuto netto del reportage del NYT: le organizzazioni firmatarie respingono fermamente il rapporto del NYT e il suo sfruttamento delle esperienze delle donne a fini propagandistici, condannando l’uso della violenza sessuale nei conflitti e nelle guerre. Infine, viene esortato un giornalismo autentico e completo per indagare sulla violenza, sessuale e non, che viene inflitta a donne, bambini e uomini palestinesi ai fini di una vasta pulizia etnica dei territori occupati.
Proprio alla fine c’è un paragrafo che dovrebbero leggere molto attentamente le borghesone e i borghesoni che si sono prestati all’operazione in Italia. Sembra scritto proprio per loro, anche se in realtà si tratta di un ragionamento di chi sa riconoscere un’unica operazione di marketing a livello mondiale in favore della guerra che usa gli stessi schemi:
«Condanniamo inequivocabilmente la strumentalizzazione della violenza sessuale nei conflitti e nelle guerre. Allo stesso tempo, ci opponiamo al pinkwashing e all’abuso delle denunce di stupro come strumenti per silenziare le voci che si esprimono contro il genocidio a Gaza, e per continuare a produrre consenso pubblico a suo favore.»
Non ho null’altro da aggiungere, Vostro Onore.