di Carmen Vita.
In
un recente articolo, Krugman propone una «riflessione rivoluzionaria:
forse invece di preoccuparci delle innovazioni di rottura faremmo meglio
a dedicare più sforzi a fare bene qualunque cosa facciamo»[1].
Krugman sottolinea che la capacità competitiva della Germania dipende
dall’elevato livello qualitativo dei beni prodotti, nonostante la
«costosissima» manodopera, «per cui la gente è disposta a pagare di più»[2].
L’incremento delle quote di mercato si verifica quindi in un paese che
presenta anche una dinamica salariale maggiore rispetto ai paesi
concorrenti. Si tratta di un risultato incoerente con l’aspettativa
teorica del modello tradizionale secondo cui l’aumento delle
esportazioni e l’incremento delle quote di mercato sono determinate
dalla riduzione dei costi relativi e dei prezzi delle esportazioni.
che sottolinea l’importanza, nei rapporti di scambio internazionali,
dei fattori competitivi non di prezzo, quali la composizione
merceologica e qualitativa dei prodotti esportati. Già negli anni ’70 e i
primi anni ’80, Kaldor[4] elaborò, sulla base dei dati
empirici, un modello di crescita economica in cui l’aumento delle quote
di mercato in ambito internazionale si associava a costi relativi e
prezzi crescenti.
1) il settore manifatturiero è il motore della crescita dell’economia;
2) la produttività aumenta al crescere della quantità prodotta[6]
(per i rendimenti di scala crescenti); 3) maggiore è la crescita del
settore manifatturiero maggiore è la migrazione della forza lavoro da
altri settori.
seconda “leggeâ€, Kaldor osservava che le economie che registrano tassi
di crescita economica più bassi sono quelle che presentano vincoli di
crescita del settore manifatturiero. Tali vincoli possono essere
ricondotti alla disponibilità limitata di offerta di lavoro o alla
insufficienza di domanda di beni[7], che nelle economie
industrializzate tende a scattare prima del vincolo di offerta. Il
vincolo dal lato della domanda opera sostanzialmente nel caso di una
economia trainata dai consumi interni[8]. Le economie
trainate dalla domanda estera, invece, attraverso una riduzione dei
costi del lavoro per unità di prodotto e un aumento della competitivitÃ
delle esportazioni (sotto l’ipotesi di cambi fissi), entrano in un
circolo virtuoso registrando un processo di crescita cumulativo.
da intendersi non come economie nella produzione su larga scala ma come
vantaggi cumulativi che provengono dalla crescita stessa
dell’industria, tra cui: sviluppo di skill e know-how;
opportunità di diffusione delle idee e delle esperienze; opportunità di
incrementi nella differenzazione dei processi e nella specializzazione
nelle attività umane[10]. Il processo di causazione
cumulativa che ne deriva fa sì che si accentui il divario nei tassi di
crescita economica tra i paesi che si specializzano in produzioni
tecnologicamente più avanzate che attraggono la domanda estera e paesi
che invece si specializzano in settori tecnologicamente più arretrati e
meno interessati dalla domanda internazionale. Del resto questo
meccanismo era stato già messo in luce chiaramente da Graziani nel 1969,
in un modello analitico che spiegava le ragioni della condizione di
ritardo nello sviluppo del Mezzogiorno e del persistente dualismo
Nord-Sud in Italia[11].
coniato dallo stesso Krugman, con il quale si estende la condizione
italiana alla divaricazione nella crescita tra i “centri†e le
“periferie†d’Europa. Tuttavia, rispetto all’accezione più spiccatamente
territoriale di Krugman, il concetto di “mezzogiornificazione†può
essere ampliato coinvolgendo anche la divaricazione salariale tra centri
e periferie[14], in linea con la tesi di Kaldor:
regione è fondamentalmente governato dal tasso di crescita delle sue
esportazioni. La crescita delle esportazioni, attraverso
l’“acceleratoreâ€, regolerà il tasso della capacità industriale […].
L’andamento delle esportazioni invece dipenderà sia da un fattore
esogeno – il tasso di crescita della domanda mondiale di prodotti della
regione – sia da un fattore “endogeno o quasi-endogenoâ€, l’andamento dei
“salari di efficienzaâ€[…]. L’andamento dei “salari di efficienzaâ€
(una espressione coniata da Keynes) è la risultante di due elementi:
l’andamento relativo dei salari e quello della produttività . […] I
“salari di efficienza†tenderanno a cadere nelle regioni dove la
produttività aumenta più velocemente rispetto alla media. È per questo
motivo che le aree a crescita relativamente rapida tendono ad acquisire
un vantaggio competitivo cumulativo su un’area a crescita relativamente
lenta».[15]
Germania) registrano una dinamica della produttività molto elevata e una
crescita dei salari; le “periferie†mostrano non soltanto una
produttività più bassa ma anche una tendenza alla deflazione salariale[16], nel tentativo di recuperare posizioni in termini di competitività attraverso meccanismi compensatori.
constatazione di Krugman e, attingendo alle lezioni del passato,
affermare che per favorire la crescita (e non solo delle quote di
mercato) è necessario puntare sull’aumento della produttività e non
sulla riduzione del costo del lavoro. D’altra parte, dal punto di vista
empirico, nonostante negli ultimi anni i paesi periferici dell’eurozona
si siano resi protagonisti di una forte moderazione salariale, non sono
riusciti a realizzare l’agognata ripresa della competitività .
teorico tradizionale neoclassico, secondo cui la competitività e la
crescita economica dipendono dal contenimento dei costi e, soprattutto
del costo del lavoro come variabile strategica per la competitività , non
trova riscontro empirico. Dal punto di vista della politica economica, i
paesi periferici più che sulle riforme del mercato del lavoro farebbero
bene a concentrarsi su interventi di politica industriale, per
intervenire sulla specializzazione produttiva nelle aree in cui questa
risulta essere più o meno arretrata sotto il profilo tecnologico.
NOTE: