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La mezzogiornificazione europea non si risolve riducendo i salari

'Competitività e crescita economica dipendono dal contenimento del costo del lavoro? E'' una teoria che non trova riscontro empirico. [Carmen Vita]'

La mezzogiornificazione europea non si risolve riducendo i salari
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18 Novembre 2014 - 11.55


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di Carmen Vita.

In
un recente articolo, Krugman propone una «riflessione rivoluzionaria:
forse invece di preoccuparci delle innovazioni di rottura faremmo meglio
a dedicare più sforzi a fare bene qualunque cosa facciamo»[1].

Krugman sottolinea che la capacità competitiva della Germania dipende
dall’elevato livello qualitativo dei beni prodotti, nonostante la
«costosissima» manodopera, «per cui la gente è disposta a pagare di più»[2].

L’incremento delle quote di mercato si verifica quindi in un paese che
presenta anche una dinamica salariale maggiore rispetto ai paesi
concorrenti. Si tratta di un risultato incoerente con l’aspettativa
teorica del modello tradizionale secondo cui l’aumento delle
esportazioni e l’incremento delle quote di mercato sono determinate
dalla riduzione dei costi relativi e dei prezzi delle esportazioni.

Questo stesso risultato è anche noto come “paradosso di Kaldor”[3]
che sottolinea l’importanza, nei rapporti di scambio internazionali,
dei fattori competitivi non di prezzo, quali la composizione
merceologica e qualitativa dei prodotti esportati. Già negli anni ’70 e i
primi anni ’80, Kaldor[4] elaborò, sulla base dei dati
empirici, un modello di crescita economica in cui l’aumento delle quote
di mercato in ambito internazionale si associava a costi relativi e
prezzi crescenti.

Il ragionamento kaldoriano può essere sintetizzato in tre “leggi”[5]:
1) il settore manifatturiero è il motore della crescita dell’economia;
2) la produttività aumenta al crescere della quantità prodotta[6]
(per i rendimenti di scala crescenti); 3) maggiore è la crescita del
settore manifatturiero maggiore è la migrazione della forza lavoro da
altri settori.

In particolare, con riferimento alla
seconda “legge”, Kaldor osservava che le economie che registrano tassi
di crescita economica più bassi sono quelle che presentano vincoli di
crescita del settore manifatturiero. Tali vincoli possono essere
ricondotti alla disponibilità limitata di offerta di lavoro o alla
insufficienza di domanda di beni[7], che nelle economie
industrializzate tende a scattare prima del vincolo di offerta. Il
vincolo dal lato della domanda opera sostanzialmente nel caso di una
economia trainata dai consumi interni[8]. Le economie
trainate dalla domanda estera, invece, attraverso una riduzione dei
costi del lavoro per unità di prodotto e un aumento della competitività
delle esportazioni (sotto l’ipotesi di cambi fissi), entrano in un
circolo virtuoso registrando un processo di crescita cumulativo.

Un aspetto rilevante delle argomentazioni kaldoriane è l’introduzione dell’ipotesi dei rendimenti crescenti di scala[9],
da intendersi non come economie nella produzione su larga scala ma come
vantaggi cumulativi che provengono dalla crescita stessa
dell’industria, tra cui: sviluppo di skill e know-how;
opportunità di diffusione delle idee e delle esperienze; opportunità di
incrementi nella differenzazione dei processi e nella specializzazione
nelle attività umane[10]. Il processo di causazione
cumulativa che ne deriva fa sì che si accentui il divario nei tassi di
crescita economica tra i paesi che si specializzano in produzioni
tecnologicamente più avanzate che attraggono la domanda estera e paesi
che invece si specializzano in settori tecnologicamente più arretrati e
meno interessati dalla domanda internazionale. Del resto questo
meccanismo era stato già messo in luce chiaramente da Graziani nel 1969,
in un modello analitico che spiegava le ragioni della condizione di
ritardo nello sviluppo del Mezzogiorno e del persistente dualismo
Nord-Sud in Italia[11].

Richiamando proprio il dualismo economico italiano[12], la questione può essere ben posta anche col termine “mezzogiornificazione”[13],
coniato dallo stesso Krugman, con il quale si estende la condizione
italiana alla divaricazione nella crescita tra i “centri” e le
“periferie” d’Europa. Tuttavia, rispetto all’accezione più spiccatamente
territoriale di Krugman, il concetto di “mezzogiornificazione” può
essere ampliato coinvolgendo anche la divaricazione salariale tra centri
e periferie[14], in linea con la tesi di Kaldor:

 Â«Il tasso di sviluppo economico di una
regione è fondamentalmente governato dal tasso di crescita delle sue
esportazioni. La crescita delle esportazioni, attraverso
l’“acceleratore”, regolerà il tasso della capacità industriale […].
L’andamento delle esportazioni invece dipenderà sia da un fattore
esogeno – il tasso di crescita della domanda mondiale di prodotti della
regione – sia da un fattore “endogeno o quasi-endogeno”, l’andamento dei
“salari di efficienza”[…]. L’andamento dei “salari di efficienza”
(una espressione coniata da Keynes) è la risultante di due elementi:
l’andamento relativo dei salari e quello della produttività. […] I
“salari di efficienza” tenderanno a cadere nelle regioni dove la
produttività aumenta più velocemente rispetto alla media. È per questo
motivo che le aree a crescita relativamente rapida tendono ad acquisire
un vantaggio competitivo cumulativo su un’area a crescita relativamente
lenta».[15]

I cosiddetti “centri” (sostanzialmente
Germania) registrano una dinamica della produttività molto elevata e una
crescita dei salari; le “periferie” mostrano non soltanto una
produttività più bassa ma anche una tendenza alla deflazione salariale[16], nel tentativo di recuperare posizioni in termini di competitività attraverso meccanismi compensatori.

Ci si può allora spingere oltre la
constatazione di Krugman e, attingendo alle lezioni del passato,
affermare che per favorire la crescita (e non solo delle quote di
mercato) è necessario puntare sull’aumento della produttività e non
sulla riduzione del costo del lavoro. D’altra parte, dal punto di vista
empirico, nonostante negli ultimi anni i paesi periferici dell’eurozona
si siano resi protagonisti di una forte moderazione salariale, non sono
riusciti a realizzare l’agognata ripresa della competitività.

Da tutto ciò ne segue che il modello
teorico tradizionale neoclassico, secondo cui la competitività e la
crescita economica dipendono dal contenimento dei costi e, soprattutto
del costo del lavoro come variabile strategica per la competitività, non
trova riscontro empirico. Dal punto di vista della politica economica, i
paesi periferici più che sulle riforme del mercato del lavoro farebbero
bene a concentrarsi su interventi di politica industriale, per
intervenire sulla specializzazione produttiva nelle aree in cui questa
risulta essere più o meno arretrata sotto il profilo tecnologico.



NOTE:


[1] P. Krugman, La locomotiva tedesca investe sulla qualità, Il sole24ore, Commenti&Inchieste, 22 giugno 2014.


[2] Ibidem.


[3]Kaldor N. (1978), “The effects of a devaluations on trade in manufactures”, in Further Essay on Applied Economics, London, Duckwork.


[4] Kaldor  N. (1970), “The case for regional policies”, Scottish Journal of Political Economy n. 17, 337-348, ristampa vol. 60, n. 5, nov. 2013, pp. 481-491; Kaldor N. (1978), cit.;
Kaldor N. (1981), “The Role of Technical Progress and cumulative
causation in the theory of international trade and economic growth”, Economie Appliquée, ISMEA, n. 34, pp. 593-617.


[5] Targetti F. (1984),“Una biografia intellettuale”, in F. Targetti (a cura di) (1984), Nicholas Kaldor. Equilibrio, distribuzione e crescita, Einaudi Editore, Torino,pp. XLII-XLVIII.


[6] È la nota equazione Verdoorn-Kaldor.


[7]«La crescita economica è […] sempre indotta dalla domanda
e non vincolata dalle risorse. […] le “risorse”, quali capitale e
manodopera non determinano la crescita, in parte perché si tratta di
fattori mobili fra regioni, e in parte perché non sono mai allocati in
maniera ottimale […]; e in parte perché il capitale (nel senso di
capacità industriale) viene generato automaticamente come parte ed in
conseguenza della crescita della domanda» N. Kaldor (1981), cit., p. 603.


[8] Kaldor N. (1971), “Conflict in national economic objectives”, The Economic Journal,vol. 81, n. 321, pp. 1-16; trad. it. in F. Targetti F. (a cura di) (1984), cit., pp. 259 e ss..


[9] Questa ipotesi viene adottata anche da Krugman, il che
conferisce alla sua analisi una portata sicuramente “innovativa”
rispetto alla teoria tradizionale neoclassica. Tuttavia, lo stesso
Krugman conserva alcune ipotesi tipiche dell’approccio tradizionale,
come l’esclusione della possibilità di una riallocazione territoriale
legata alla carenza di domanda e la previsione dell’esistenza di un
“equilibrio naturale”, in cui il vincolo è rappresentato essenzialmente
dalla scarsità di manodopera disponibile.


[10] Kaldor (1970), cit.. In particolare, il processo di trasferimento tecnologico si fonda sul concetto di learning by doing, che dipende sia dalla dimensione dell’attività produttiva, sia dal tempo.


[11] «La competizione sul mercato internazionale va affrontata sia
sul piano dei prezzi che sul piano della qualità. Per quanto riguarda i
prezzi, come è noto, non è il livello assoluto della produttività media
che conta quanto il rapporto fra produttività e salari». Cfr. A.
Graziani (1969), Lo sviluppo di una economia aperta, ESI, Napoli, p. 42.


Si vedano anche Graziani A. (1998), Lo sviluppo dell’economia italiana, Bollati Borighieri, Torino; Graziani A. (2002), “The Euro: an Italian perspective”, International Review of Applied Economics, n. 1.


[12] A riguardo si vedano anche, in questa rivista, Vita C., Il dualismo insuperato dell’economia italiana, 11 giugno 2013 e Realfonzo R., Perché il Sud sta soffocando, 9 giugno 2014.


[13] Krugman P. (1990), Geografia e commercio internazionale, Garzanti.


[14] Per una interpretazione secondo il paradigma teorico
alternativo, essenzialmente in relazione al processo di “concentrazione
dei capitali” che non implica necessariamente una dislocazione delle
attività produttive, si veda Brancaccio E. e Fontana G. “The Taylor
Rule, the Solvency Rule and Capital Centralization in a Monetary Union”
paper presentato alla 15th Conference of the Research Network
Macroeconomic Policies (Fmm), Berlino, 28-29 ottobre 2011.


[15] Kaldor (1970), cit., pp. 486-87. Traduzione mia.


[16] Per una analisi, in ambito europeo, dell’andamento della
produttività e dei salari nominali e sulla rilevazione empirica della
mancata compensazione dei divari di produttività attraverso la dinamica
salariale si rimanda a Brancaccio E. e Realfonzo R. (2008), “L’Europa è a
rischio “mezzogiornificazione”. Il dualismo tra Nord e Sud da mera
anomalia italiana a possibile caso europeo”, in R. Realfonzo (a cura
di), Qualità del lavoro e politiche per il Mezzogiorno, FrancoAngeli, Milano, pp. 17-42; e Brancaccio E., Garbellini N., Uscire o no dall’euro: gli effetti sui salari, in questa rivista, 19 Maggio 2014.

Fonte: http://www.economiaepolitica.it/europa-e-mondo/la-mezzogiornificazione-europea-non-si-risolve-riducendo-i-salari/#.VGsyH8lNfu0.

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