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Perché rallenta l'economia della Cina

Le spiegazioni delle recenti manovre valutarie cinesi non convincono. Pechino inizia una trasformazione strutturale che potrebbe richiedere decenni. Problema: sovrapproduzione

Perché rallenta l'economia della Cina
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13 Settembre 2015 - 20.32


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Le spiegazioni convenzionali delle recenti manovre
valutarie cinesi non convincono. Pechino ha iniziato una trasformazione
strutturale che potrebbe richiedere decenni e deve fare i conti con un classico
problema dell’economia capitalista: la sovrapproduzione.

di Demostenes Floros.

In agosto il
dollaro si è deprezzato nei confronti dell’euro. Dopo avere aperto il mese
attorno a 1,09€/$, il 25 agosto il biglietto verde ha sfondato quota 1,15€/$ a
causa del probabile rinvio da parte della Fed dell’atteso rialzo dei tassi
d’interesse visti i dati non soddisfacenti di disoccupazione – soprattutto giovanile – e pil. L’apprezzamento di fine mese (1,12€/$) ha coinciso con
una parziale revisione delle stime relative alla crescita
economica e con un ritorno all’ordine del giorno della stretta monetaria.

Nel contempo,
mentre la Bank
of England
decideva di non modificare i saggi d’interesse, dopo il
crollo delle Borse di Shanghai e Shenzen al termine di tre anni consecutivi di rialzi, la People’s Bank of China ha adottato le seguenti misure di politica monetaria, nonostante “le famiglie
cinesi investano poco nel mercato azionario
(meno del 15% dei beni in loro possesso) e quest’ultimo rappresenti a sua volta solo il 15% del pil”:

  1. Triplice svalutazione dello yuan nei confronti
    del dollaro;
  2. Abbassamento dei tassi di interesse dello 0,25%
    (al 4,6% i prestiti ad 1 anno);
  3. Abbassamento della riserva obbligatoria delle
    banche dello 0,5%;
  4. Immissione di liquidità a favore del sistema
    bancario per complessivi 300 miliardi di yuan (46.8 miliardi di dollari);
  5. Favorire il processo di aggregazione e fusione
    delle aziende quotate (anche quelle di Stato) in Borsa.

Quali sono le
motivazioni di tali scelte?

In base a una prima interpretazione – che potremmo definire mainstream
– si tratterebbe di una svalutazione competitiva finalizzata a sostenere la
cosiddetta economia reale (in particolare le esportazioni) dopo una serie di dati macroeconomici deludenti. Se così fosse, premesso che
lo yuan si è complessivamente rivalutato del 18,5% da metà 2014 a oggi, e
tenuto conto che Pechino ha bisogno di sgonfiare mercati ipertrofici e
spostarsi sulla concorrenza di prodotto, non sarebbe il caso di domandarsi chi
ha dato inizio alla guerra delle valute con politiche monetarie ultraespansive?

Una seconda interpretazione invece metterebbe in luce
l’obiettivo cinese di liberalizzare progressivamente la moneta verso gli
standard richiesti dal Fondo monetario internazionale (Fmi) per entrare nel suo
paniere dei Diritti Speciali di Prelievo (Dsp, Special
Drawing Rights
). Anche in questa spiegazione c’è del vero: peccato che in
questo contesto di conflitto valutario Usa-Cina siano pochi gli
economisti, tra cui Masala, a mettere in luce la “curiosa” proposta fatta proprio in agosto dal Fondo
di rinviare a settembre 2016 l’introduzione dello yuan nel basket dei Dsp.

Secondo una ricerca condotta
dagli economisti A. Rothman e J. Zhu, â€œÃ¨ importante comprendere che la
Cina è un’economia continentale, trainata dagli investimenti domestici e dal
consumo interno, in cui le esportazioni giocano soltanto un ruolo di supporto”
.
Con ciò, non si vuole affatto affermare che l’export di Pechino abbia un ruolo
residuale, visto che da un suo pronunciato calo si avrebbero conseguenze
certamente negative, bensì comprenderne la funzione quantitativa e qualitativa
che potremmo così riassumere:

  1. Nel 2010, il rapporto bilancia commerciale/pil
    della Cina era del 4% mentre il corrispettivo dato della Germania era del
    6,3% (fonte: Eurostat). Da allora, mentre Berlino ha incrementato tale
    rapporto, Pechino lo ha notevolmente ridotto fino all’1,5%, venendo
    incontro alle esigenze della stagnante domanda mondiale.
  2. La produzione manifatturiera cinese è
    principalmente rivolta alla domanda interna, visto che “la stragrande
    maggioranza dei beni prodotti in Cina resta in
    Cina“. Nel
    2011, sul totale dei ricavi derivanti dalla vendita di prodotti
    industriali, appena il 12% proveniva da merci esportate.
  3. Un’analisi qualitativa dell’export mostra che una
    parte significativa del cosiddetto made in China consiste nel mero
    assemblaggio delle componenti di una merce. Tale quota era del 55% nel
    2001 e ancora del 44% nel 2011. Le esportazioni assemblate hanno la
    caratteristica di contribuire in misura minore alla determinazione del
    prodotto interno lordo cinese rispetto a quelle esportazioni prodotte in
    loco.

In realtà,
l’attuale calo del pil cinese riflette la trasformazione strutturale di un modello in
transizione tendenzialmente sempre più incentrato sui servizi, i quali però
necessitano di circa il 35% di posti di lavoro in più per unità di
pil rispetto al manifatturiero e all’edilizia. Questo passaggio potrebbe
durare qualche decennio e sembra avere di fronte due sfide.

La prima è la crescita smodata del debito degli enti locali (nei
confronti della quale si chiuse volutamente un occhio all’inizio della crisi
del 2008 per non aggravare il forte rallentamento della domanda) ma che
oggi vede in parte l’applicazione, comunque tardiva, di un rigido tetto.

La seconda
sfida, più difficile in prospettiva, concerne un problema classico di
un’economia capitalistica: la sovrapproduzione, di cui il pur differente sistema economico e politico della
Cina pare stia accusando i primi significativi sintomi, dopo le profonde
riforme avviate nel 1978 sotto la guida di Deng Xiaoping.

Come commenta
il Wall Street Journal in merito a uno dei settori per
eccellenza della old economy, l’automobile: â€œSul fronte
dell’economia reale si registra un rallentamento delle fabbriche
automobilistiche straniere in Cina. Case come General Motors e Volkswagen per
la prima volta hanno infatti ridotto la produzione dalla massima capacità
mantenuta finora”
. […..]. “Ma il raffreddamento dell’economia e delle
vendite ha spinto a una frenata della produzione. Nei primi sei mesi dell’anno
il tasso di utilizzazione dei 23 maggiori impianti stranieri è sceso per la
prima volta sotto il 100% al 94,3% dal 107,4% dello stesso periodo dello scorso
anno”
.

Suggeriamo al
lettore di confrontare queste ultime parole con quelle con cui l’amministratore
delegato di Fiat, Sergio Marchionne, nel lontano 2009, descriveva l’origine
dell’attuale crisi: “La sovraccapacità produttiva – eccesso di
investimenti con conseguente calo dei profitti – è un problema generale. […] La
capacità produttiva, a livello mondiale, è di oltre 90 milioni di vetture
l’anno, almeno 30 milioni in più rispetto a quanto il mercato sia in grado di
assorbire in condizioni normali. Circa un terzo di questa capacità produttiva è
installata in Europa, dove il basso grado di utilizzo degli impianti è destinato,
a causa del calo della domanda, a scendere a circa il 65% nel 2009″ 
.

E
l’Italia? Quale ruolo potrebbe ritagliarsi nei
tumulti delle principali Borse mondiali? Secondo l’economista Cicalese, “da mesi intercorre una connessione
finanziaria Shanghai-Milano. Non finisce qui: a questo gioco a un certo punto
partecipano attivamente gli americani, si stabilisce quindi la connessione
Shanghai-Milano-Wall Street tramite la ‘dottrina Kissinger’, che vuole la pace
in vista di affari colossali tra Wall Street e i paesi Brics, Cina e Russia in
testa. Chiave di volta sono gli accordi sul nucleare iraniano e la visita in
Israele del premier Renzi
. […] Si costruiscono cioè le basi di una
sorta di G4 con al centro l’Italia con il suo ruolo centrale nel Mediterraneo.
 […] Il
G4 è in gestazione, mancano i tasselli di Siria e Ucraina, ma la connessione
finanziaria Shanghai-Milano-Wall Street è già operativa, con delle
contraddizioni e degli
stop and go. Il G4 in gestazione presuppone un
forte contrasto economico finanziario con l’asse franco-tedesco e una
contrapposizione diplomatica e militare con Polonia e paesi baltici”
.

Prossima tappa:
il 9 settembre, quando Barack Obama e Xi Jinping si incontreranno per
posizionare nello scacchiere mondiale le proprie pedine.

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