Il capitalismo delle diseguaglianze e del debito

Le conseguenze del capitalismo contemporaneo: le crescenti diseguaglianze distributive e l’esplosione del debito pubblico su scala globale. [Guglielmo Forges Davanzati]

Il capitalismo delle diseguaglianze e del debito
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6 Novembre 2015 - 19.05


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di Guglielmo Forges Davanzati

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L”articolo è uscito oggi su [url”MicroMega online”]http://temi.repubblica.it/micromega-online[/url]. Ringraziamo Guglielmo Forges Davanzati per averci gentilmente concesso di riprenderlo qui. Buona lettura. (pfdi)

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Due “fatti stilizzati” sono propri del capitalismo contemporaneo: le crescenti diseguaglianze distributive e l’esplosione del debito pubblico su scala globale[1]. Si tratta di fenomeni correlati, nel senso che, come si proverà a mostrare, è proprio la diseguaglianza a generare crescente indebitamento pubblico e, in più, è il crescente indebitamento pubblico a generare, attraverso misure di redistribuzione del carico fiscale, crescenti diseguaglianze distributive.

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Sul piano empirico, l’OCSE rileva un significativo aumento dell’indice di Gini in tutti i Paesi industrializzati nel corso degli ultimi anni, [url”in particolare a partire dal 2007″]http://www.oecd.org/social/income-distribution-database.htm[/url]. Al tempo stesso, come mostrato nell”immagine sottostante, si registra un continuo aumento del debito pubblico su scala globale.

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L’aumento delle diseguaglianze distributive riduce il tasso di crescita fondamentalmente attraverso due canali, che operano rispettivamente sulla domanda aggregata e dal lato dell’offerta.

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a) Dal lato della domanda. La riduzione della quota dei salari sul Pil determina una caduta dei consumi e, a parità di investimenti pubblici e privati, della domanda aggregata e del tasso di crescita. L’effetto è amplificato dal fatto che, di norma, le famiglie con più basso reddito esprimono una propensione al consumo maggiore di quelle con redditi più elevati. Vi è poi un nesso fra dinamica dei consumi e dinamica degli investimenti, dal momento che la compressione dei consumi, derivante dalla riduzione dei salari, tende a disincentivare gli investimenti privati, con effetti, anche in questo caso, di segno negativo sulla domanda aggregata[2].

b) Dal lato dell’offerta. La riduzione dei salari (e del costo di tutela dei diritti dei lavoratori da parte delle imprese) pone le imprese nella condizione di competere comprimendo i costi e, per questa via, disincentiva l’introduzione di innovazioni, con effetti di segno negativo sul tasso di crescita della produttività[3]. I seguenti ulteriori meccanismi amplificano questa dinamica.

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Primo: la riduzione della domanda interna (imputabile, in primis, alla caduta dei salari e, dunque, dei consumi), in quanto riduce i mercati di sbocco, riduce i profitti monetari, a danno innanzitutto delle imprese che operano sul mercato interno[4], con conseguente compressione degli investimenti e del tasso di crescita della produttività del lavoro.

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Secondo: la riduzione dei profitti monetari riduce le fonti di autofinanziamento delle imprese e ne accresce il grado di dipendenza dal settore bancario. La compressione dei margini di profitto, in quanto accresce il rischio di insolvenza, induce le banche a ridurre l’offerta di credito generando, anche per questa via, riduzione degli investimenti e della produttività.

Con ogni evidenza, la moderazione salariale in atto, mentre può generare crescita attraverso un aumento delle esportazioni per un singolo Paese, non può generare questo effetto su scala globale, essendo il commercio internazionale un gioco a somma zero[5].

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Sono due i principali canali attraverso i quali la crescita delle diseguaglianze contribuisce a generare incrementi del debito:

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i) in quanto la crescita delle diseguaglianze è anche associata ad aumenti del tasso di disoccupazione, ciò genera un aumento della spesa pubblica per i c.d. stabilizzatori automatici (in primis, i sussidi di disoccupazione)

ii) la crescita delle diseguaglianze è associata a un aumento del potere politico del capitale con conseguente riduzione dell’imposizione fiscale sui profitti[6].

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Dunque, maggiori diseguaglianze distributive tendono ad associarsi a maggiori spese di ‘legittimazione’ del sistema (ovvero spese finalizzate a preservare la coesione sociale) e a minori entrate fiscali derivanti dal pagamento delle imposte da parte di famiglie con redditi elevati. E da ciò segue che la crescita delle diseguaglianze distributive, riducendo il tasso di crescita, contribuisce ad accrescere l’indebitamento pubblico[7].

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Le misure di politica economica adottate per ridurre il debito (le c.d. politiche di austerità), in particolare nell’Unione Monetaria Europea, non hanno prodotto e non producono altri effetti se non generare esiti esattamente opposti a quello desiderati e soprattutto peggiorano ulteriormente la distribuzione del reddito, soprattutto nei Paesi periferici dell’Eurozona, per le seguenti ragioni:

1) La riduzione della spesa pubblica, in quanto contribuisce a ridurre la domanda interna, contribuisce ad accentuare la deflazione già in atto. E la deflazione comporta un aumento dell’onere reale del servizio sul debito, così che contrazioni di spesa generano aumenti del debito attraverso aumenti dell’onere degli interessi.

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2) La riduzione della spesa pubblica, riducendo la domanda interna, contribuisce ad accrescere il tasso di disoccupazione, a ridurre conseguentemente il tasso di crescita e ad accrescere il rapporto debito pubblico/Pil.

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Questa dinamica è accentuata dal fatto che i tagli di spesa si traducono in riduzione e peggioramento dei servizi di welfare, con effetti di segno negativo sul tasso di crescita della produttività del lavoro, a ragione del fatto alquanto ovvio che una forza-lavoro poco istruita e con difficile accesso a cure sanitarie è potenzialmente poco produttiva. E anche per questa via, minore spesa può implicare più debito[8].

A ragione di questi meccanismi, le politiche di austerità hanno di fatto contribuito a far aumentare il rapporto debito pubblico/Pil, rendendo necessario l’aumento della pressione fiscale.

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Nell’impossibilità di “monetizzare” il debito, l’accresciuto onere del debito richiede incrementi di tassazione. La monetizzazione del debito, resa impossibile dai Trattati europei, consiste nell’acquisto diretto da parte della Banca Centrale di titoli di Stato, ovvero nello “stampare moneta”. Occorre chiarire che la ripartizione dell’onere fiscale, così come la distribuzione dei tagli di spesa, risente del potere contrattuale dei lavoratori e delle imprese nella sfera politica e, in tal senso, non risponde a criteri di efficienza di sistema.

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In una condizione di elevata disoccupazione, è dunque lecito aspettarsi che il maggior peso della tassazione (e dei minori trasferimenti pubblici) venga fatto gravare sul lavoro, accreditando la tesi di Marx secondo la quale “la causa del fatto che il patrimonio dello stato cade nelle mani dell’alta finanza [è] l’indebitamento continuamente crescente dello stato”.

In altri termini, una condizione di basso potere contrattuale dei lavoratori nel mercato del lavoro genera una condizione di basso potere contrattuale dei lavoratori nell’arena politica e, dunque, la loro sostanziale impossibilità di modificare a loro vantaggio le scelte di politica economica[9].

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In questo scenario, le diseguaglianze distributive tendono ad autoalimentarsi. Le misure di austerità, da un lato, accrescono il tasso di disoccupazione e, riducendo il potere contrattuale dei lavoratori, riducono la quota dei salari sul Pil; l’aumento del debito pubblico che ne consegue si traduce nella necessità di reperire risorse tramite tassazione, prevalentemente a danno del lavoro dipendente.

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Da cui una seconda conclusione: le politiche finalizzate a ridurre il debito (in quanto si associano a un aumento della tassazione sui redditi più bassi e, dunque, a maggiore diseguaglianza distributiva) determinano un trasferimento netto di ricchezza alla rendita finanziaria.

Come scriveva Marx nel 18 Brumaio di Luigi Bonaparte:

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“L’indebitamento dello stato è l’interesse diretto dell’aristocrazia finanziaria quando governa e legifera per mezzo delle Camere; il disavanzo dello stato è infatti il vero e proprio oggetto della sua speculazione e la fonte principale del suo arricchimento. Ogni anno un nuovo disavanzo. Dopo quattro o cinque anni un nuovo prestito offre all’aristocrazia finanziaria una nuova occasione di truffare lo stato che, mantenuto artificialmente sull’orlo della bancarotta, è costretto a contrattare coi banchieri alle condizioni più sfavorevoli”.

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NOTE

[1] V. W. Streek, The Politics of Public Debt, Max-Planck-Institute, discussion paper 13/7, 2013.

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[2] Ciò sia a ragione dell’operare di effetti di accelerazione, sia perché una bassa domanda peggiora le aspettative imprenditoriali. V. N.Kaldor, A model of economic growth, “The Economic Journal”, vol.67, n.268, December: 591-624, 1957. Occorre chiarire che l’effetto qui descritto configura una modalità di crescita trainata da aumenti salariali (wages-led) che può non verificarsi se l’aumento dei salari riduce i margini di profitto e gli investimenti, come nel caso di modelli di crescita trainati dai profitti (profits-led regime). La letteratura su questi argomenti è estremamente vasta: qui si rinvia al pionieristico contributo di A. Bhaduri, A. and S. Marglin, S.,. Unemployment and the real wage: The economic basis for contesting political ideologies, “The Cambridge Journal of Economics”, 14, pp.375-393, 1990.

[3] V. A.K. Dutt, Distributional dynamics in Post-Keynesian growth models, “Journal of PostKeynesian Economics”, 34(3), Spring: 431-51, 2012.

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[4] A ciò si può aggiungere che la compressione dei salari costituisce una concausa della deflazione in corso. V. G.Forges Davanzati, Attenti alla deflazione. E a come la si vuol fermare, Micromega on line, 29 agosto 2014.

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[5] Sul tema si rinvia a O Onaran, and G. Galanis. Income distribution and aggregate demand: A global Post-Keynesian model, “PostKeynesian Economics Study Group”, working paper n.1304, 2013.

[6] A ciò si può aggiungere l’aumento delle spese militari su scala globale.

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[7] V. J. Gladney, La bassa crescita fa aumentare il debito pubblico, “Keynesblog”, 6 maggio 2013. La relazione fra crescita economica e dinamica del debito pubblico è oggetto di un ampio dibattito, che ruota intorno all’individuazione dei nessi di causalità (ovvero se è una bassa crescita a “causare” aumenti del debito o viceversa). In questa sede, ci si può limitare a rinviare a J.E. Stiglitz, Il prezzo delle diseguaglianze, Giulio Einaudi Editore, 2014.

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[8] L’apparente paradosso dell’aumento del debito con riduzioni di spesa può essere anche spiegato alla luce di una duplice considerazione. In primo luogo, i tassi di interesse sui titoli di Stato vengono mantenuti elevati per attrarre capitali speculativi con l’obiettivo di mantenere in pareggio la bilancia dei pagamenti, a fronte dei deficit di partite correnti dovuti alla scarsa competitività internazionale delle nostre imprese. In secondo luogo, gioca qui un ruolo cruciale l’elevata evasione fiscale, dal momento che impedisce recuperi di gettito di entità tale da consentire più agevolmente di ripagare il debito. Più in generale, con particolare riferimento al caso italiano, va osservato che gli elevati tassi di interesse sui titoli di Stato (al netto di variazioni congiunturali) sono, in ultima analisi, imputabili a una dinamica di lungo periodo di costante riduzione della domanda interna connessa a una costante riduzione del tasso di crescita della produttività del lavoro.

[9] Cfr. W. Korpi, Power resources approach vs action and conflict: On causal and intentional explanations in the study of power. Power resources theory and the welfare state, in «Power resource theory and the welfare state, 1998», pp. 37-69.

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(6 novembre 2015)

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