di Fulvio Scaglione.
Le polemiche delle ultime ore, con Di Maio e Di Battista che parlano del colonialismo che la Francia esercita in Africa attraverso il franco Cfa (nato nel 1945 come Franco delle colonie francesi d’Africa – Fcfa e poi, persa una F, diventato solo acronimo di Comunità finanziaria africana) e il Governo francese che dice “parbleu!” e convoca il nostro ambasciatore, sono solo l’avvisaglia di quanto udremo nei prossimi mesi. E va detto che i grillini anche questa volta hanno preso in pieno un punto sensibile, con il solito talentaccio per il colpo al fegato.Anche se, prevedibilmente, il tema sarà usato soprattutto come strumento della campagna elettorale, quando in realtà ha un’importanza e un peso enorme.
L’equazione franco Cfa uguale colonialismo francese uguale migrazioni è, ovviamente, molto discutibile. Di franchi Cfa in realtà ce ne sono due. Uno è quello usato da Camerun, Repubblica centrafricana, Congo, Gabon, Guinea equatoriale e Ciad e gestito dalla Banca centrale degli Stati africani (Beac), l’altro è quello usato da Benin, Burkina Faso, Costa d’Avorio, Guinea-Bissau, Mali, Niger, Senagal e Togo e gestito Banca centrale degli Stati dell’Africa occidentale (Bceao). Nell’una come nell’altra banca, comunque, siedono rappresentanti del Governo francese. Questo perché è il governo francese a garantire al franco Cfa un cambio a tasso fisso con l’euro (656 franchi Cfa per un euro), così come prima lo garantiva con il franco francese.
Conseguenze: meno turbolenze finanziarie nei quattordici Paesi della fantomatica Comunità finanziaria africana; grande possibilità per le élites africane (in genere lievemente corrotte) di muovere capitali verso la Francia e la zona euro; prezzi più alti per le merci africane e quindi maggiori difficoltà di esportazione verso l’Europa, mentre risulta agevolato il procedimento opposto. Se parliamo di agricoltura, per esempio, questo significa facile accesso ai mercati africani per i più redditizi prodotti trasformati in arrivo dall’Europa, e difficile accesso ai mercati europei per i già meno redditizi prodotti grezzi come te, caffè, cacao, canna da zucchero. Il franco Cfa, con la sua funzione di stabilizzatore forzoso, garantisce anche gli investimenti delle multinazionali europee (va da sé, in primo luogo francesi) rispetto a sbalzi e svalutazioni improvvise.
C’entrano, con tutto questo, le migrazioni? È vero, nel 2018 sono sbarcate in Italia poco meno di 24 mila persone e di queste solo 2 mila venivano da Paesi che usano il franco Cfa. Buuu per Di Maio e Di Battista, quindi. Che hanno però tutte le ragioni quando parlano di colonialismo, perché a questo soprattutto serve il franco Cfa: a tenere quattordici Paesi africani in una condizione di sottosviluppo coatto, secondo gli interessi superiori della Francia e dei suoi produttori. Uno dei meccanismi per cui, come ci spiega Oxfam con la ricerca sulla concentrazione della ricchezza anche quest’anno presentata al Forum economico di Davos, nel 2018 la ricchezza dei più ricchi del pianeta è aumentata del 12% mentre la povertà dei più poveri è aumentata dell’11%.
Eh sì, il colonialismo è vivo e lotta insieme a noi. Soprattutto in Africa. Quello francese, semmai, è un colonialismo vecchio, che sa di cilindri e marsine. Controllo finanziario delle economie, corruzione dei politici, servizi segreti, un po’ di missioni militari e il gioco è fatto. L’uranio, il petrolio, il rame e ogni altra materia prima possono finalmente affluire verso le industrie europee. Lo spiega bene anche il rapporto della Banca Mondiale intitolato The changing Wealth of Nations 2018 in cui, prendendo in esame la situazione di 141 Paesi nell’arco di vent’anni, si spiega bene che due terzi dei Paesi dei Paesi che nel 1995 erano qualificati “ricchi di risorse” sono rimasti poveri. Perché, appunto, le risorse se ne sono sempre andate altrove.
Il colonialismo di rapina vecchio stile della Francia (si dice che il 42% del Pil d’oltralpe dipenda dal rapporto con l’Africa) da un po’ di anni si scontra, però, con alcuni importanti concorrenti. La Russia, per esempio, che ha firmato in Africa, negli ultimissimi anni, decine di contratti e di accordi di collaborazione economica, ipotizzando anche la costruzione di alcune centrali nucleari.
Ma il vero, micidiale avversario della Francia in Africa è oggi la Cina. Solo qualche mese fa, il presidente Xi Jin-ping ha convocato a Pechino cinquanta tra capi di Stato e di Governo africani per il Terzo Forum sulla Cooperazione tra Cina e Africa e ha annunciato loro un investimento in Africa da 60 miliardi di dollari tra prestiti a tasso zero, fondi per lo sviluppo e linee di credito. La replica della cifra stanziata una prima volta già tre anni fa. Un flusso di quattrini che nessun altro Paese può eguagliare e che ha uno scopo ben preciso: dare una spinta alla industrializzazione del continente.
Benefattori i cinesi non sono. E il loro scopo è chiaro: legare a sé i Paesi africani attraverso gli enormi cantieri aperti un po’ ovunque e gestiti da imprese cinesi, e nello stesso tempo privare gli Usa e l’Europa del tradizionale magazzino di materie prime da sfruttare a piacimento. Il tutto mentre la Nuova Via della Seta e il Filo di Perle, le grandi vie commerciali di terra e di mare lanciate da Pechino, raggiungono l’Africa e la inseriscono nel grande progetto cinese. Quello di garantirsi in via definitiva la supremazia economica mondiale.
Colonizzati per colonizzati, gli africani preferiscono la via cinese. Ed è ovvio che sia così. Per questo (e per l’inarrestabile crescita demografica, che tra trent’anni dovrebbe portare il continente ad avere 2,5 miliardi di abitanti, il doppio di oggi) dovremmo preoccuparci dell’Africa e, anzi, occuparcene seriamente. Facciamolo per noi, se non per loro: peggio staranno gli africani, peggio staremo noi. Un’Europa sana e vitale deve aiutare l’Africa a svilupparsi in modo corretto e a inserirsi nei flussi commerciali mondiali senza discriminazioni e secondi fini, lasciandole sfruttare in prima persona le proprie risorse e guadagnare il giusto. L’Africa non può essere solo un self service di ricchezze minerarie o un’arma della competizione globale. Non c’è verso, ha ragione Oxfam. Se quelli più ricchi (in questo caso noi) non accetteranno di rinunciare a qualche privilegio e a qualche rendita di posizione, quelli più poveri li spazzeranno via con la forza dei numeri. Anche solo migrando.