Olivier Blanchard e le scienze economiche: quando l'errore sta nel manico

Il prestigioso economista francese: fin quando il tasso di interesse reale che un paese paga sul debito pubblico è inferiore al tasso di crescita reale dei PIL, il debito pubblico è sostenibile. Ma va?

Olivier Blanchard e le scienze economiche: quando l'errore sta nel manico
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21 Marzo 2019 - 10.44


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di Giuseppe Masala.
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Sta facendo molto rumore uno studio del prestigioso economista francese Olivier J. Blanchard dove si asserisce che fin quando il tasso di interesse reale che un paese paga sul debito pubblico è inferiore al tasso di crescita reale dei PIL, il debito pubblico è sostenibile e non è dunque fonte di preoccupazione. Blanchard nel suo studio usa tutti i mezzi dell’armamentario dell’economista contemporaneo per dimostrare la sua tesi: dunque fa largo uso di grafici ed equazioni. A me pare che siamo di fronte alla scoperta dell’acqua calda. E peraltro se proprio devo dirlo mi pare anche che lo studio sia particolarmente deludente e sia emblematico della miseria in cui è precipitata l’economia. Lo so, non sono nessuno, ci mancherebbe e in questo momento potrei essere accusato di lesa maestà di fronte ad un mostro sacro come Blanchard. Nonostante tutto questo, vado avanti e provo a spiegarmi.
 

Il ragionamento di Blanchard [che il suddetto considera valido in ogni tempo e in ogni luogo in ossequio al concetto di fine della storia di Fukuyama] presenta una pecca non da poco: l’assunto è valido se e solo se c’è libertà di spostamento dei capitali. Ma questa condizione non è una condizione naturale e dunque immodificabile, si tratta di una condizione politica peraltro emersa dopo la caduta del Muro di Berlino e dunque pochi decenni fa.
Cosa accadrebbe se ci fossero restrizioni alla libera circolazione dei capitali? Il ragionamento di Blanchard sarebbe giusto? Assolutamente no a mio modo di vedere.

Infatti in questo secondo caso il capitale non sarebbe apolide e senza patria e dunque irresponsabile di fronte a qualsiasi risvolto sociale. Sarebbe capitale appartenente ad una nazione e legato a quella terra e a quello Stato dove si è generato.
Dunque in questa ipotesi bisognerebbe distinguere la quota parte del debito pubblico appartenente a residenti (debito pubblico interno) e quella non appartenente a residenti (debito pubblico vs l’estero). Fatta questa operazione bisognerebbe domandarsi che cos’è il primo e cos’è il secondo. Il primo è chiaramente una strana forma di debito: cittadini di uno Stato che prestano soldi allo stesso stato che li rappresenta e che usa quei soldi per erogare servizi agli stessi creditori.

 
Senza contare il fatto che lo Stato stesso con la tassazione [ricordiamo che in questa ipotesi c’è restrizione alla circolazione dei capitali] può ridurre come e quando vuole il suo stesso debito nei confronti dei suoi stesi cittadini. Si può dunque dire ragionevolmente che il debito nei confronti dei propri cittadini non è mai un problema per lo Stato stesso.
 
Discorso diverso per il debito pubblico in mano a residenti esteri: questo è vero debito. I creditori non votano, i creditori non usufruiscono dei servizi che lo stato eroga. Dunque sono creditori puri peraltro generalmente tutelati dal proprio stato (quanti di voi sanno che ci fu una guerra tra Italia e Venezuela nel 1902 proprio perché il paese sudamericano dichiarò default e non pagò i creditori esteri tra i quali appunto gli italiani?).
Ecco, la cosa più importante del pregevole studio di Blanchard è proprio questo: vedere in maniera emblematica l’autore che si dimena in un eterno presente per lui immodificabile dove la libera circolazione del capitale è considerato un dato di natura immodificabile e non una precisa scelta politica frutto di una visione ideologica imposta giuridicamente. Se fossimo in un eterno presente, come l’autore presume, il suo ragionamento sarebbe correttissimo ma la Storia ci insegna che dati immodificabili non esistono. Esistono rotture tecnologiche, rotture politiche, cambiamenti di rapporti di forza e imposizioni di nuovi modelli. Se così non fosse saremmo in un eterna età del bronzo dove tutti noi saremmo ancora impegnati a trasportare enormi macigni per costruire Nuraghi [o se preferite Piramidi]. Non ci sarebbe stata la nascita del Diritto dell’età Romana, non ci sarebbe stato Gutemberg e la sua stampa a caratteri mobili, non ci sarebbe stato l’Umanesimo e il Rinascimento né i Lumi e la Rivoluzione Francese. Se il presente è eterno come si assume in teoria economica il nostro orizzonte sarebbe stato il Culto dell’Acqua e l’elevazione di Mehnir e Pozzi Sacri.
L’economia non è niente senza prospettiva storica e senza domandarsi la natura ultima delle cose. Anche se ti chiami Olivier Blanchard sei un cieco che si dimena in eterno in un labirinto di equazioni, statistiche, grafici e modelli econometrici. Fino a quando la Storia non si incarica di farti capire che hai sbagliato tutto.
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Fonte: https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-Olivier_Blanchard_E_Le_Scienze_Economiche_Quando_Lerrore_Sta_Nel_Manico/82_27657/.

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