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La retorica di Stato

La retorica di Stato
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26 Ottobre 2012 - 07.11


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Prefazione di Roberto Scarpinato al libroLe ultime parole di Falcone e Borsellino

scarpinato-roberto-megachda Antimafia Duemila.

Più trascorrono gli anni e più cresce la mia sensazione di disagio nel partecipare il 23 maggio e il 19 luglio alle pubbliche cerimonie commemorative delle stragi di Capaci e di via D”Amelio.

La retorica di Stato ha i suoi rigidi protocolli ed esige che il discorso pubblico venga epurato da ogni sconveniente riferimento alle travagliate vicende che segnarono le vite di Giovanni Falcone e di Paolo Borsellino, preparandone lentamente la morte.

 

 

Relegando nel fuori scena della storia quelle vicende, questa forma di autocensura consegna così alla memoria collettiva una narrazione tragica e, nello stesso tempo, semplice e pacificata, che si può riassumere nei seguenti termini: Giovanni Falcone e Paolo Borsellino furono assassinati perché con il loro lavoro di integerrimi magistrati, culminato nelle condanne inflitte con il maxiprocesso, erano il simbolo di uno Stato che aveva sferrato un colpo mortale a Cosa nostra, mandando in frantumi il mito della sua invincibilità. I carnefici, i portatori del male di mafia, sono stati identificati e condannati.
Hanno i volti noti di coloro che l”immaginario collettivo ha già elevato a icone assolute e totalizzanti della mafia: Totò Riina, Bernardo Provenzano e altri personaggi di tal fatta; per lo più ex villici che si esprimono in un italiano maldigerito, i cui tratti fisiognomici, duri e sprezzanti, quasi appaiono lombrosianamente rivelatori della loro intima natura crudele.
Secondo questa rappresentazione, la mafia è costituita da una minoranza di criminali che, come si usa ripetere, costituisce una sorta di fungo malefico, di tumore all”interno di una società costituita da un”assoluta maggioranza di onesti: una netta linea di confine separa la città dell”ombra, abitata dai portatori del male di mafia, dalla città della luce, popolata dagli innocenti.
Il male, dunque, è fuori di noi e può essere catarticamente proiettato sul monstrum (colui che viene messo in mostra).
A volte qualcuno tra gli oratori si spinge ai limiti dell”arditezza, alludendo anche alla corresponsabilità di colletti bianchi che si muovono ambiguamente lungo quella linea di confine. E, tuttavia, quasi a voler rassicurare se stesso oltre che l”uditorio, l”oratore provvede subitaneamente a ridimensionare quest”ardita digressione – che rischierebbe di incrinare le serene certezze di tanti – specificando che nella maggior parte dei casi si tratta di «semplice» responsabilità morale e, per il residuo, di singole mele marce nel paniere delle mele buone. Del resto, in quale buona famiglia non esiste qualche pecora nera?
Fine della cerimonia e saluti delle autorità, tra le quali purtroppo siedono, talora in prima fila, anche personaggi dai dubbi trascorsi, ai quali si è costretti a stringere la mano per dovere di ruolo.
Si ritorna quindi a casa e coloro che, come me e pochi altri, hanno vissuto queste vicende in prima persona, portandone dentro segni indelebili, vengono colti da un senso di spaesamento per l”impossibilità di riconoscersi in una simile narrazione degli eventi.
Il peso del rimosso, della parte della storia relegata nel fuori scena, è infatti tale da stravolgerne completamente la chiave di lettura e il senso globale.
La realtà che abbiamo vissuto e sofferto con Giovanni e Paolo racconta che, diversamente da quanto si ripete nelle cerimonie ufficiali, il male di mafia non è affatto solo fuori di noi, è anche «tra noi».

 

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