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'La città delle ferie in mano alle ''ndrine'

Scalea. Il Comune era «organico alla mafia»: affari milionari, dal megaporto ai parcheggi. [Angelo Mastrandrea]

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18 Luglio 2013 - 14.42


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di Angelo Mastrandrea

Dalla piazzetta del centro storico di Scalea si gode una vista invidiabile. Tutt”attorno partono i caratteristici vicoli e le scale da cui la cittadina dell”alto Tirreno cosentino prende il nome, di fronte ci si affaccia sul mare come da un balcone, e basta guardare una foto ingiallita di qualche estate fa per comprendere come fosse diverso il panorama agli inizi del secolo: la torre Talao, fortino aragonese costruito a protezione dalle incursioni saracene su un”isoletta circondata dal mare, a non più di duecento metri in linea d”aria; prima della spiaggia, una distesa di piante di agrumi che aveva fatto soprannominare quel pezzo di costa «Riviera dei cedri». Di essa rimangono oggi granite e ogni genere di dolci e biscotti, il nome di un paese – Santa Maria del Cedro – ma non quegli alberi che la facevano somigliare alla costa libanese. «Raccoglierli è un lavoro faticoso, i giovani non ne vogliono più sapere», mi dice una anziana venditrice di frutta e verdura. Il cedro è un albero spinoso che rende difficoltosa la raccolta dei suoi frutti, però il suo legno è pregiato e richiesto, l”agrume invece – molta scorza e poca polpa – non è versatile come il suo parente più nobile: il limone. Quasi tutte le cedriere sono state distrutte da un”edilizia selvaggia che ha pochi eguali in Calabria e da un modello di sviluppo che da almeno un trentennio ha messo al centro non il turismo, bensì il suo sfruttamento.

«Il pericolo viene da terra»

Ora che il mare ha deciso, quasi in segno di disapprovazione, di ritrarsi di qualche decina di metri, la torre Talao è circondata dalla spiaggia ed è luogo di ritrovo di coppiette e turisti mordi e fuggi. Pochi di loro sono al corrente della partita che si gioca attorno a questa fortezza che per secoli ha costituito il perno di un sistema di guardia che poteva contare anche su un altro avamposto affacciato dalla collina di fianco: la Torre di Giuda, cosiddetta perché secoli fa un guardiano distratto non si accorse di un”incursione dei saraceni provocando il saccheggio del villaggio, e dopo la battaglia, accusato di tradimento, fu impiccato a un ulivo dagli abitanti inferociti. Il pericolo, oggi, «viene da terra», come hanno scritto in un appello pubblicato sul sito Eddyburg: Vittorio Emiliani, Vezio de Lucia, Luigi Manconi, Paolo Berdini e Fernando Ferrigno. Si tratta di un megaporto la cui capienza e i relativi costi sono lievitati, da un”amministrazione all”altra, da 320 barche a 510, con un gigantesco molo lungo 300 metri a recintare il mare, uno yachting club, un centro commerciale e una torre di controllo alta 16 metri e mezzo a fare ombra alla torre Talao. La veduta, dalla piazzetta del centro storico, risulterebbe irrimediabilmente stravolta.

La grande opera

È questa la grande opera attorno alla quale volteggiavano i corvi della politica e delle cosche di questo pezzo di Calabria. Un affare plurimilionario per il quale si rischiava – a parere dei magistrati che due giorni fa hanno decapitato l”intero apparato amministrativo del Comune e un paio di cosche malavitose – una pericolosa guerra di ”ndrangheta. Per comprenderlo bene, bisogna guardare tra le pieghe dell”inchiesta Plinius . Secondo le ricostruzioni degli inquirenti, il giorno in cui fu eletto sindaco Pietro Basile fu portato in trionfo per le strade del paese, a bordo di una cabriolet, dal boss Pietro Valente. Si festeggiò a champagne e si inaugurò una stagione politico-criminale che i magistrati considerano in assoluta continuità con quelle passate. Le cosche dei Valente e degli Stummo, unite da un patto per il controllo della cittadina, sarebbero affiliate a un «locale» molto potente: quello dei Muto di Cetraro, padrone assoluto delle attività criminali in un territorio che dal cosentino arriva fino al basso salernitano e divenuti noti alle cronache internazionali quando furono accusati di aver gestito gli affondamenti delle «navi dei veleni» nel mar Tirreno. Secondo gli inquirenti, il patto tra i due clan sarebbe saltato il giorno successivo all”uscita dal carcere di Luigi Muto, figlio dello storico capomafia Franco. Il boss Pietro Valente sarebbe stato aggredito e picchiato, in modo volutamente plateale, da un commando degli Stummo. Se non era una dichiarazione di guerra, poco ci mancava. Intuito il cambio di stagione, Valente si sarebbe rifugiato a Sala Consilina, nel salernitano, sotto la protezione di un clan locale. Da qui – dove è stato arrestato l”altro ieri [ndr, 12 luglio 2013]- secondo i pm stava organizzando la vendetta, non prima però di aver chiesto il permesso al boss Muto. A Scalea non c”è stata collusione tra politica e mafia. «Qui siamo oltre», ha detto il procuratore aggiunto di Catanzaro Giuseppe Borrelli, che insieme al sostituto Vincenzo Luberto ha coordinato l”indagine Plinius . L”originalità del modello scaleota sta nel fatto che «la ”ndrangheta ha utilizzato la forma partito per gestire la cosa pubblica». Pertanto, «il Comune è stato amministrato dalle ”ndrine, la politica è stato lo strumento tecnico attraverso cui si sono candidate alle elezioni». In questo modo, il controllo del territorio è stato totale: dai parcheggi a pagamento ai lidi che colonizzano ogni millimetro di spiaggia.

Cominciò negli anni ”80

Il borgo antico, con le sue scale e viuzze, le case in pietra e il castello, è ormai sopraffatto da palazzoni e residence dai nomi esotici: parco Brasilia, villaggio Maradona. A partire dagli anni ”80, Scalea è diventata un pezzo di Calabria napoletana, l”emblema della vacanza «cafona», proletaria, squattrinata e caciarona – «Scalea, Scalea, ma come m”addecrea, andare in vacanza, dieci ”e nuie dint”a ”na stanza», cantava Tony Tammaro, popstar del neomelodico-trash. Grazie a un”espansione edilizia vorticosa e disordinata, nel volgere di pochi anni la cittadina – 11 mila abitanti – arrivò a contarne nei mesi estivi fino a 300 mila, almeno 220 mila dei quali provenienti da Napoli e provincia. Unico ad accorgersi del saccheggio del territorio fin dagli inizi fu il regista Vittorio de Seta, che nel suo viaggio-reportage “In Calabria” denunciò il modello di sviluppo malato che ne stava alla base. I risultati furono devastanti. Con il pienone estivo, l”acqua non usciva più dai rubinetti e il Comune era costretto a rifornire diversi quartieri con le autobotti, tra proteste e vere e proprie rivolte. I depuratori non esistevano e le fogne sversavano direttamente in mare, emissari delle cosche andavano casa per casa a chiedere il pizzo ai villeggianti e chi si rifiutava si vedeva la casa svaligiata nel giro di pochi giorni. Arrivarono latitanti in vacanza e si strinsero alleanze malavitose sotto gli ombrelloni. Usanze che sono proseguite fino ai nostri giorni, se è vero che – sempre stando alle risultanze dell”inchiesta Plinius – l”appalto per la realizzazione del porto attorno alla torre Talao sarebbe stato affidato a un prestanome del boss Cesarano di Castellammare di Stabia.

Una Calabria napoletana

Oggi, all”inizio dell”estate 2013, come ormai da qualche anno a questa parte, la disordinata vitalità dei quartieri-alveare non è più la stessa. La crisi economica ha battuto forte e Scalea appare come la Detroit del turismo meridionale. Si prova un senso di desolazione a girare per le strade deserte, tra abitazioni lasciate all”incuria, i cartelli fittasi e vendesi, le facciate corrose dalla salsedine, i negozi desolatamente chiusi. Hanno meno di trent”anni di età, queste case costruite male, e non reggono all”urto del tempo che passa. L”ospedale – 25 anni per costruirlo – è una gigantesca cattedrale nel deserto: è utilizzato solo il piano terra, il resto è regno dei vandali. La pista di atterraggio per aerei da turismo, una spianata di due km di cemento tra la statale tirrenica e la ferrovia, non ha creato nessuno dei 95 posti di lavoro promessi e non ha visto neppure un decimo dei 74 mila passeggeri all”anno preventivati. Per paradosso, il pizzo-imposta ai clan non si paga più, ma l”aliquota Imu è tra le più alte d”Italia, arricchendo le tasche di un Comune che in cambio non offre alcun servizio: strade non asfaltate, marciapiedi assenti o in pessimo stato, cumuli di spazzatura non raccolta ovunque, come nei tempi peggiori dell”emergenza partenopea. Per l”appalto della raccolta – spiegano le carte dell”inchiesta – una ditta pugliese avrebbe versato nelle tasche di amministratori e mafiosi una mazzetta di 500 mila euro. Il degrado e il malaffare, sulla Riviera dei cedri calabresi, datano da almeno tre decenni, ed è forse a questo che il procuratore Borrelli alludeva. Ora il bubbone è finalmente esploso. Forse troppo tardi, ma ancora in tempo per salvare l”antica, bellissima Scalìa dall”ultima invasione: quella dei saraceni di casa nostra.

Pubblicato su il manifesto del 14 luglio 2013.

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