Una sollevazione contro lo Stato delle trattative

Intervento di Antonio Ingroia al convegno “Paolo Borsellino: la mafia mi ucciderà ma saranno altri a volerlo” [Antimafia Duemila]

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23 Luglio 2013 - 00.57


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di Antonio Ingroia*

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Con video integrale del convegno “Paolo Borsellino: la mafia mi ucciderà ma saranno altri a volerlo”

Dopo
tanti anni ringrazio Antimafia Duemila che mi ha sempre costantemente
invitato, fin dalla prima edizione di questo dibattito; non posso negare
che personalmente sono un po’ più emozionato di altre volte, o
disorientato, per il fatto che per la prima volta partecipo a questo
momento senza indossare la toga di Pubblico Ministero che ho indossato
per ventisei anni e per vent’anni consecutivi alla Procura di Palermo.
Una
toga che però non mi sono strappato di dosso, ma che mi è stata
strappata. Pur condividendo e sostenendo l’impegno che i colleghi della
Procura di Palermo stanno proseguendo, mi ritrovo con una dose di
raddoppiato pessimismo sulle chance di trovare la verità sulla strage di
via d’Amelio e sulla trattativa in un’aula giudiziaria.

Ma forse, non
avere più la toga mi consente di essere più franco, più schietto, direi
anche più libero; quella toga si è trasformata in una camicia di forza
rispetto alla mia libertà di espressione, limitata da procedimenti
disciplinari che mi sono stati rovesciati addosso quando ho
semplicemente esercitato la mia libertà di espressione.

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Quindi è una toga che non avrei mai smesso se avessi pensato che
indossandola ancora sarei riuscito a trovare la verità su quella
stagione. Ma noi quella verità non la possiamo trovare in queste
condizioni, con questa politica e con queste istituzioni. Diciamocelo
chiaramente! Io non l’avrei mai tolta, come mai l’ha tolta Paolo
Borsellino sino all’ultimo giorno della sua vita. Credo che sia successo
a me come è accaduto ad altri magistrati e, senza fare parallelismi
impropri, è capitato anche a Giovanni Falcone, al quale venne strappata
la toga quando andò a Roma perché gli venne reso impossibile il suo
percorso professionale.
Perciò ribadisco che non mi sono tolto la
toga, è il potere che mi ha strappato la toga, quel potere che non
tollerava la mia ribellione, quella di un P.M. che si era ribellato al
modello del P.M. che obbedisce e tace. Io non obbedisco e taccio perché
non c’è niente a cui obbedire quando l’ordine è un ordine illegittimo.
Allora non ho mai taciuto e da oggi potrò finalmente dire più
apertamente quello che penso, anche quello che non ho detto negli anni
passati quando ero costretto a mordermi la lingua ad ogni incontro e ad
ogni dibattito a cui partecipavo.

Potrò dire quello che so e di cui ho
le prove, ma oggi ho anche la libertà di dire quello che so di cui non
ho le prove in senso giudiziario. Allora potrei dire che avermi
strappato la toga di dosso potrebbe non essere stato un buon affare per
chi l’ha fatto.
Ma non voglio parlare di me, dobbiamo parlare di noi
perché sia quelli da questa parte del tavolo che quelli all’altra parte
siamo cresciuti, ci sono sempre più giovani, ma molti siamo sempre
quelli, siamo gli stessi, siamo certo un po’ più stanchi, un po’ più
feriti, invecchiati, un poco anche piegati dalla fatica e dai colpi
vigliacchi alle spalle. Ciascuno di noi ne ha subiti tanti, anch’io,
anche dai miei colleghi ed ex colleghi, però non siamo piegati, non
abbiamo mai piegato le ginocchia e non piegheremo mai la schiena, questo
è quello che conta. Siamo ancora qui, irriducibili, con rassegnazione
zero, però bisogna vedere come la nostra rassegnazione noi la possiamo
trasformare in azione, in impegno.

Siamo qui dopo tanti anni, ogni anno a
piangere i nostri morti, qualcuno anche in più, come la morte di Agnese
Borsellino, che è un fatto nuovo rispetto ai precedenti anniversari.
Quel 19 luglio del ’92 ci ha cambiato la vita per sempre, credo a tutti,
a ciascuno di noi, certamente a chi è qui. Non abbiamo ancora elaborato
il lutto perché non sappiamo la verità sulla strage di via d’Amelio. 
Non sappiamo – nel senso giudiziario del termine – perché non si sono
raggiunte le prove che fu una strage di Stato. Lo sapevamo fin dal primo
giorno, senza avere la prova, perché lo sentivamo; e lo sanno, ma non
lo possono dire, Roberto Scarpinato e Vittorio Teresi che con me hanno
condiviso quei giorni, come non potevo dirlo io sino all’anno passato,
ma noi lo sapevamo perché lo sentivamo che era una strage di Stato, così
come Paolo Borsellino sapeva che era una strage di Stato la strage di
Capaci. Ed è questa la ragione per la quale con ostinazione, con
impegno, con testardaggine, cercava di “scavare” nell’agenda elettronica
di Giovanni Falcone, aveva capito che nel lavoro di Falcone c’era la
traccia che Giovanni non era stato ucciso perché era il nemico storico
della mafia, ma perché c’era dell’altro. Poi come sapete venne
cancellato il diario e hanno fatto ancora meglio con l’agenda di Paolo,
facendola sparire, questa è la conferma della strage di Stato:
depistatori di Stato per una strage di Stato.
Ora noi conosciamo di
più perché sappiamo di quei depistaggi colossali così definiti anche
dal Procuratore di Caltanissetta. Nessuno può credere (io non ci credo)
che uomini delle istituzioni così importanti abbiano depistato quelle
indagini per “entusiasmo investigativo”, per cercare di catturare dei
colpevoli a tutti i costi, o peggio per favorire qualche mafioso. Il
depistatore di Stato, se è uno che fa carriera, lo fa per depistare la
strage di Stato, questo è sempre accaduto nella storia del nostro Paese.

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Se poi il depistatore è un alto funzionario della Polizia, come
Arnaldo La Barbera, se il depistatore è un uomo che era a libro paga dei
servizi, se i servizi in quel momento erano diretti da Bruno Contrada
(che poi è andato in galera), e se il dottor Bruno Contrada a quel tempo
collaborava col Procuratore di Caltanissetta Tinebra alle indagini per
la strage di via d’Amelio, forse tutte le cose combaciano. E tutto
questo coincide con quello che emerge dalle indagini della Procura di
Palermo e della Procura di Caltanissetta sulla trattativa, sul ruolo
cruciale che ebbe la trattiva e sul ruolo scatenante che questa ebbe
rispetto alla strage, una trattativa vera e non teorica, una trattativa
provata e non presunta. Ritengo grave, se non è cambiato nell’ultima
approvazione al Senato (se è vero quanto ho letto nel comunicato
giustamente denunciato dall’associazione dei familiari delle stragi del
’93), che nella legge istitutiva della Commissione parlamentare
antimafia, dove finalmente si mette fra le funzioni e gli scopi e le
finalità della Commissione parlamentare antimafia l’indagine sulla
trattativa, si scrive che la Commissione parlamentare antimafia dovrà
indagare sulla “presunta” trattativa fra Stato e mafia.
Questa
Commissione parlamentare antimafia comincia davvero con il piede
sbagliato e forse capiamo perché si è creata l’unanimità del Parlamento
sulla sua  istituzione.
In quei giorni del ’92 noi giurammo che
avremo fatto di tutto, giurammo sulla bara di Paolo Borsellino e degli
uomini e della donna della sua scorta che avremo fatto di tutto perché
venisse fuori la verità. E Agnese disse che non avrebbe avuto pace
fintanto che non vi fosse stata la verità, come l’ha detto Salvatore,
come l’ha detto Rita. Agnese è morta. Possiamo dire che Agnese ha avuto
pace perché ha avuto verità, tutta la verità, su quella strage? No, non
lo possiamo dire, non prendiamoci in giro. Noi non sappiamo tutta la
verità, sappiamo un pezzo di verità e certo è un bilancio sconfortante
dopo ventun anni.
Conosciamo chi sono i mandanti a volto coperto?
Non li conosciamo. Non siamo riusciti a tirare via quella maschera e
perché non ci siamo riuscii? Perché siamo stati incapaci? Perché la
magistratura è stata incompetente? No, perché i complici, i mandanti,
erano dentro lo Stato, dove stavano coloro che hanno depistato le
indagini sulla strage di via d’Amelio perché quello Stato non è
cambiato, è lo Stato di Portella della Ginestra, è lo Stato del
depistaggio sulla strage di Portella, è lo Stato del depistaggio sulla
morte di Salvatore Giuliano, è lo Stato dell’assoluzione dell’onorevole
Palazzolo per l’omicidio Notarbartolo, è lo Stato dei depistaggi
sull’omicidio La Torre, è lo Stato dei depistaggi sull’omicidio Dalla
Chiesa e così via.

E’ sempre lo stesso Stato italiano nel quale noi
siamo stati corpi estranei. E dove un certo tipo di magistratura,
Falcone e Borsellino ieri e oggi i colleghi che coraggiosamente
proseguono su questa strada (non voglio sconfortarli) sono ancora oggi
corpi estranei.
Non solo Paolo Borsellino non è stato protetto da
quello Stato che non protegge i suoi uomini, ma è uno Stato che uccide i
suoi uomini migliori che non si omologano; uccide, elimina in un modo o
nell’altro i suoi uomini migliori che si ribellano all’ordine
costituito e l’ordine costituito è quello dello Stato che tratta con la
mafia, dello Stato che convive con la mafia. Questa è la ragione, questa
è la cultura politica giuridica istituzionale prevalente nel nostro
Paese dall’Unità d’Italia ad oggi ed è quella che ispira illustri
giuristi e tanti politici.
E noi questa cultura dobbiamo
combatterla, se non combattiamo e non battiamo questa cultura non si
riuscirà ad avere una magistratura autonoma e indipendente che possa,
nelle aule giudiziarie, condannare gli uomini dello Stato. Di questo
amaramente mi sono convinto in questi ultimi anni. È il detto del cane
che non mangia cane, anzi direi il cane che non mangia il padrone, la
magistratura deve essere soltanto un cane da guardia dell’ordine
costituito e il padrone è quel potere politico della classe dirigente
che è stata borghesia mafiosa, che perciò vuole la magistratura
subordinata.
Se la magistratura prova invece – con la dovuta
ingenuità istituzionale di un uomo dello Stato – ad applica la
costituzione a cominciare dal principio di eguaglianza di tutti i
cittadini di fronte alla legge, arriva prima l’avvertimento e poi la
punizione, in cui lo Stato si comporta esattamente come la mafia. La
mafia è Stato, lo Stato è mafia, questa equazione purtroppo è diventata
una realtà sempre più inestricabile, difficilmente oggi rescindibile, è
un nodo indissolubile rispetto al quale dall’interno delle istituzioni
statali non si può da soli, senza un movimento di massa di rottura
dell’ordine costituito, cambiare le cose.
Credo che tante vicende ne
siano la dimostrazione, come la vicenda professionale di Giovanni
Falcone e di Paolo Borsellino. Falcone e Borsellino hanno rischiato la
carriera più volte quando hanno dimostrato “insubordinazione”.
Ricordiamo il procedimento disciplinare minacciato a Paolo Borsellino
per un’intervista nella quale aveva lanciato l’allarme sul calo di
attenzione alla lotta alla mafia e ricordiamo che poi Paolo dovette
andare a Marsala. Seppe trovare anche a Marsala la forza e l’energia per
continuare a occuparsi di mafia, lì dove lo incontrai, ma intanto il
percorso del pool antimafia (al quale aveva dedicato quasi dieci anni
della sua attività) era stato spazzato dall’azione combinata del
Consiglio Superiore della Magistratura e della Prima Sezione della
Cassazione presieduta da Carnevale. Non dimentichiamolo, magistratura e
politica alleate contro gli eversori: Falcone e Borsellino. Il cliché si
è ripetuto, i procedimenti disciplinari nei confronti di Di Matteo,
Scarpinato, il procedimento per incompatibilità ambientale nei confronti
del Procuratore Messineo hanno la stessa matrice, perché sono
magistrati, alcuni perché parlano. Abbiamo visto la lettera di
Scarpinato il 19 luglio scorso: il magistrato che parla e svela la
verità va punito. Nel caso di Messineo sono stati ripescati fatti vecchi
nel momento in cui Messineo ha messo piede nell’aula giudiziaria del
processo “trattativa o ricatto allo Stato”.
Chi tocca quel processo
deve saltare, questo è il messaggio che arriva forte e chiaro. È un
messaggio di intimidazione nei confronti della magistratura inquirente,
della magistratura giudicante e del prossimo Procuratore di Palermo, in
modo tale che sappia a cosa va incontro se dovese sostenere certe
indagini e certi processi.
È già successo a Caselli, ed è già
accaduto che il successore di Caselli per prudenza abbia deciso di non
vistare l’appello per il processo Andreotti contro la sentenza di
assoluzione di quest’ultimo. E’ una storia che si ripete. Ebbene, la
verità è che uno Stato in queste condizioni non può e non deve
processare se stesso, guai a chi ci prova. Ricordo in questi incontri
(quando ancora svolgevo le funzioni di procuratore aggiunto a Palermo e
mi occupavo dell’indagine sulla trattativa con i colleghi del pool che
oggi coordina Vittorio Teresi) che cominciammo a parlare due anni fa con
una certa emozione del fatto che si erano aperti degli spiragli, io
dissi che eravamo nell’anticamera della stanza della verità e c’era
l’emozione del vedersi profilare all’orizzonte quella verità
imbarazzante, quella verità negata, quella verità che l’omertà di Stato
ci aveva precluso.

Andammo avanti per un altro anno, dissi l’anno scorso
che eravamo entrati nella stanza della verità, ma che con un po’ di
delusione avevamo trovato una stanza al buio, una stanza che non aveva
la luce della verità, perché qualcuno aveva spento le luci.

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Successivamente mi sono convinto che in quei mesi è accaduto di peggio,
che non solo è stata spenta la luce nella stanza della verità, ma è
stato ricostruito il muro di gomma fatto di omertà di mafia e omertà di
Stato che ha impedito alla verità di emergere in questi vent’anni. Per
una serie di coincidenze (alcune fortunate, altre dovute alla caparbietà
di qualche investigatore) si era aperta una falla e in quella falla, un
po’ tumultuosamente, sono passate notizie, rivelazioni, improvvisi
ritorni di memoria di uomini delle istituzioni smemorati, che per la
prima volta hanno avuto paura di essere scoperti e di rispondere dei
fatti che stavano venendo fuori per effetto delle rilevazioni combinate
di Spatuzza da una parte e di Massimo Ciancimino dall’altra.

Ma poi quel
muro di gomma è stato chiuso e (tutti lo pensano, nessuno lo dice, ed è
bene che qualcuno lo dica) per effetto di un atto della Presidenza
della Repubblica con il quale è stato sollevato un conflitto di
attribuzione che, al di là del valore che aveva e al di là del
significato che quelle intercettazioni telefoniche avevano (l’abbiamo
detto e ripetuto tante volte, non avevano alcuna rilevanza penale), è
stato un segnale, un segnale di isolamento, di presa di distanza, anzi
di conflittualità del palazzo sino ai più alti vertici nei confronti di
una piccola istituzione, come è ovviamente la Procura di Palermo, a
fronte della Presidenza della Repubblica.
E immediatamente (al di là
che quella fosse o non fosse l’intenzione di chi ha avviato il
conflitto di attribuzione) il muro di gomma si è richiuso, la falla si è
tappata.

Io non so, mi auguro (naturalmente non ho più accesso al
segreto investigativo della Procura di Palermo e delle altre Procure)
che così non sia, ma la mia sensazione, dall’esterno, è esattamente
questa. E così è, non solo rispetto alle chance di accertamento della
verità, ma rispetto al clima politico culturale e istituzionale che si
respira nel Paese e si respira nelle istituzioni, perfino nelle
istituzioni giudiziarie, un clima di cui è frutto la sentenza con la
quale è stato assolto il generale Mori.

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Per riprendere Saverio
Lodato che parlava dei commenti giornalistici, ho letto alcuni commenti
alla sentenza Mori: “Si sgretola un pilastro del processo trattativa”,
ma di quale pilastro stiamo parlando? Il processo trattativa si fonda
(lo sanno meglio di me i colleghi che se ne occupano) su ben altri
elementi, rispetto al quale il favoreggiamento di Provenzano a Mezzojuso
costituiva un piccolo episodio che noi ritenevamo una appendice, una
applicazione del patto politico mafioso che era stato stipulato per
effetto della trattativa, la cui prova rimane forte e non è in alcun
modo intaccata da questa sentenza. Sia chiaro, e questo lo dico ai
giornalisti un po’ distratti.

Per altro è una sentenza di primo grado,
che già la Procura ha detto che impugnerà. Si dice che avrebbe segnato
un cambio di marcia della magistratura giudicante, che sarebbe stata
fino a oggi troppo indulgente dei confronti della Procura. Non so quale
sia questa indulgenza della magistratura giudicante, non credo che
segnali un cambio di marcia, credo che sia un ritorno indietro,
rappresenta un vecchio modo di valutare le prove che noi c’eravamo
dimenticati e questa è la dimostrazione.

Sono gli effetti di quella
cultura politico giudiziaria e istituzionale che è in involuzione, un
passo alla volta, un giorno alla volta, anche per effetto di quel
conflitto di attribuzione. “Bocciatura dei P.M.”, ho letto su qualche
altro titolo di giornale, innanzitutto, con tutto il rispetto della
magistratura giudicante, come una sentenza può bocciare una posizione
del Pubblico Ministero, un Pubblico Ministero può bocciare il risultato
di una sentenza, non esiste la supremazia della magistratura giudicante
nei confronti della magistratura inquirente. Quindi i colleghi nell’atto
di appello potranno bocciare la sentenza di assoluzione Mori. Tanto
meno è un segnale ai P.M. per il quale i P.M. dovrebbero imparare a
costruire in altro modo le inchieste. Io direi che forse bisognerebbe,
in un rapporto biunivoco, anche dare indicazioni ai giudici su come
modificare il loro modo di valutare le prove. Come si fa? Ci sono anche
qua degli esempi, noi la storia dobbiamo ricordarla, anche questo è già
successo. Certo, dobbiamo tornare a quarant’anni fa, perché l’Italia di
oggi assomiglia a quella di quarant’anni fa, è già successo ad un grande
magistrato, Pubblico Ministero e giudice istruttore, anche lui
impertinente, anche lui che a un certo punto decise di fare politica.

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Quel magistrato si chiamava Cesare Terranova il quale da Pubblico
Ministero prima e da giudice istruttore poi, mise in piedi delle
straordinarie inchieste che misero alla sbarra per la prima volta la
mafia corleonese del tempo, di Luciano Liggio e dei suoi sodali, ma ebbe
due insuccessi gravi, al processo dei centodiciassette di Catanzaro,
del dicembre del ’68 e al processo di Bari del ‘69 dove vennero tutti
assolti. Cosa accadde? Che queste sentenze di assoluzione erano una
indicazione a Cesare Terranova che doveva trovare come cambiare il modo
di fare inchiesta? O Cesare Terranova capì che quella magistratura
giudicante del tempo non era all’altezza di valutare le prove, o non
c’era la cultura giuridico istituzionale per fare quel tipo di processi
in cui i mafiosi erano impuniti. Allora erano i mafiosi con la coppola
ad essere impuniti.
Cesare Terranova capì che dall’interno del
palazzo di giustizia di Palermo non ci riusciva, si candidò in politica.
Si candidò da indipendente nelle file del P.C.I. (ho detto che l’Italia
di oggi assomiglia a quella di allora, mi sbaglio: l’Italia di oggi è
peggiore dell’Italia di allora, perché nell’Italia di allora Cesare
Terranova si candidò in una lista comunista che più rossa non si può) e
nessuno si permise di mettere mai in dubbio il suo lavoro e la sua
professione di magistrato quando era Pubblico Ministero e giudice
istruttore a Palermo.
Cesare Terranova dimostrò che poteva essere
più utile in quel momento da politico anziché da magistrato partecipando
ai lavori della relazione della Commissione parlamentare che fu
relazione di minoranza: denunciò Gioia, Lima, Ciancimino, quando la D.C.
li difendeva, e quella relazione di minoranza fece storia. Fece storia,
cambiò il modo di pensare degli italiani e cominciò anche a cambiare il
modo di pensare dei magistrati e della magistratura giudicante. Fu un
primo passo. Cesare Terranova capì che poteva tornare a fare il
magistrato e nessuno, quando lui chiese di tornare a fare il Giudice a
Palermo, pensò di spedirlo né ad Aosta né disse che non poteva avere
l’imparzialità per fare il magistrato a Palermo, né la Democrazia
Cristiana e neppure il Movimento Sociale che erano i partiti dall’altra
sponda rispetto al Partito Comunista. E neppure Emanuele Macaluso, ma
era un’altra Italia. La mafia aveva le idee chiare e non consentì a
Cesare Terranova di riprendere il suo posto, perché venne ucciso prima
che assumesse le funzioni di consigliere istruttore a capo dell’ufficio
istruzione di Palermo. Ma il seme proseguì e poi Falcone, Borsellino,
Costa ancora prima di lui, ancora accerchiati da una magistratura nella
quale continuavano a fioccare le assoluzioni per insufficienza di prove.

Ecco che il 416 bis (come dovrebbe ricordare, ma ogni tanto
dimentica, Giovanni Fiandaca di avere scritto qualche anno fa) è stata
soprattutto una norma di orientamento politico culturale, una norma che
ha cambiato la mentalità dei giudici, una norma che non ha ampliato
l’ambito di applicatività del reato associativo, ma ha dato una spinta
ai giudici. Ed ecco che improvvisamente, folgorati sulla via di Damasco,
sono cominciate a fioccare le sentenze di condanna, di fatto è cambiata
radicalmente la giurisprudenza.
Ma su cosa è cambiata la
giurisprudenza? Un passo alla volta, è cambiata nei confronti dei
mafiosi con la coppola. Ai tempi di Terranova venivano assolti i mafiosi
con la coppola, ai tempi di Falcone e Borsellino questi si sono
cominciati a condannare, ma appena Falcone e Borsellino hanno provato a
saltare, a salire il gradino più alto dei rapporti mafia – politica,
mafia – affari (da Ciancimino ai cugini Salvo, ai Cavaliere del Lavoro
di Catania), arrivarono i guai per Falcone e Borsellino. E lì avviene la
distruzione del pool antimafia, complice la magistratura, un’altra
magistratura giudicante, quella della Cassazione di Carnevale (per altro
assolto), quindi non è frutto necessariamente di collusione; se fosse
frutto di collusione meglio sarebbe. È frutto invece di omologazione, di
un’omologazione politico culturale istituzionale di cui è stata vittima
tutta la classe dirigente, quella di cui parlava il collega Gozzo nella
sua lettera quando dice del Ministro per il quale bisogna convivere con
la mafia.
Prima bisognava convivere con la mafia, poi bisognava
convivere con la borghesia mafiosa, ma guai portare alla sbarra la
borghesia mafiosa.

Ma anche questo scalino, alla fine, con il prezzo e
con il sacrificio del sangue di Falcone e Borsellino lo abbiamo salito,
siamo riusciti a salire su quel gradino, il gradino delle relazioni
esterne. E’ quello che si è riusciti a fare con il processo Andreotti,
con il processo Dell’Utri, con il processo Contrada. Si è riusciti a
fare quello che a Falcone e Borsellino non è stato consentito fare,
salire il gradino del rapporto mafia – politica, mafia – economia. Ora
siamo davanti ad un altro gradino ed è quello più alto, non so se è
l’ultimo gradino, ma a oggi è l’ultimo che vediamo. Non è più il
rapporto mafia – politica, mafia – economia, non è più il rapporto di
collusione con la mafia di singoli politici o di gruppi di politici, ma è
la collusione fra lo Stato e la mafia, questo è il tema del processo
cosiddetto “trattativa o riscatto allo Stato”, cioè il procedimento
penale che per la prima volta nella storia del nostro Paese vede alla
sbarra nello stesso processo i capi mafia, i capi degli apparati
investigativi dei servizi segreti, ex Ministri e parlamentari. E questo
lo Stato italiano oggi non lo regge, oggi lo Stato italiano non regge
questo tipo di processo. Non lo vuole.

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E non vuole che siano processati
uomini di Stato (lo dice, addirittura, Giovanni Fiandaca in
quell’articolo e lo legittima), non bisogna fare processi di questo
genere.

Noi siamo davanti a questo scalino ed è uno scalino dietro il
quale non c’è soltanto il processo allo Stato, c’è anche sangue, ci sono
le stragi, c’è il sangue in particolare di Paolo Borsellino e della
scorta, che è morta con lui, perché è morta su quello stesso gradino nel
momento in cui Borsellino (un po’ per testardaggine, ma un po’ per
quello che si è saputo fino a oggi, perfino quasi per caso) ha saputo la
verità sulla trattativa. Lo Stato non vuole che i cittadini italiani
sappiano questa verità, il tema è questo, la persecuzione politico
giudiziaria nei confronti dei magistrati che vogliono continuare
ostinatamente a fare questo processo è tutta lì.
Per salire questo
scalino bisogna fare come fece Cesare Terranova, capire che contro un
muro di gomma così non basta sostenere la magistratura e l’impegno dei
magistrati (che con la schiena diritta, con l’impegno e a testa bassa
vanno avanti), perché quel muro è più potente, è più potente dei pochi
magistrati che si impegnano e di quei pochi magistrati andranno a
sbattere contro quel muro. Ci dobbiamo rassegnare? Io dico di no, io
dico però che assieme ai magistrati che devono continuare ad insistere
da questa parte del muro di gomma per cercare di aprire degli altri
varchi bisogna girare dall’altra parte del muro.
Soltanto con un
impegno serio si possono aiutare i magistrati a buttare giù quel muro,
ma per andare dall’altra parte del muro non occorre qualche Don
Chisciotte che si improvvisa manovratore senza sapere come si entra
nella stanza dei bottoni, occorre un movimento di massa che si impegni
su alcune battaglie che si possono fare. Credo che vadano fatte alcune
proposte, credo che una di queste debba cogliere l’occasione di questa
legge istituiva della Commissione parlamentare antimafia.

Credo che non
ci sia solo la responsabilità penale, ci deve essere anche la
responsabilità politica, ma questo Parlamento è un Parlamento eletto in
virtù di una legge elettorale incostituzionale, è un Parlamento che non
ha la legittimità e la legittimazione per accertare la verità sulle
stragi e sulla trattativa.
Bisogna chiedere al Parlamento che faccia
un atto di volontà, che modifichi la legge parlamentare e che per la
prima volta (del resto ogni Commissione parlamentare si istituisce in
virtù di una legge), introduca un’innovazione nella composizione della
Commissione parlamentare: si preveda che non come consulenti, ma come
membri di diritti ne facciano parte i rappresentanti delle associazioni
dei familiari delle vittime e delle associazioni che si sono impegnate
per la verità sulla stagione delle stragi a cominciare ovviamente, visto
il suo impegno, dall’associazione delle Agende Rosse, ma non solo, che
facciano parte della Commissione di inchiesta. Che sia una Commissione
di inchiesta mista di parlamentari e di rappresentanti della società
civile con gli stessi poteri di ogni Commissione parlamentare di
inchiesta. Il Parlamento può fare una modifica alla legge appena
approvata perché si accerti la verità (al punto da aver raggiunto quasi
l’unanimità nell’inserire questo emendamento nell’istituzione della
Commissione parlamentare di inchiesta che si occupi anche delle stragi e
della trattativa), immagino che non avranno difficoltà a fare una
modifica del genere, visto anche la pessima prova che ha dato quella
scorsa.

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La Commissione Pisanu aveva promesso che si sarebbe occupata
delle indagini sulla trattativa e apparentemente l’ha fatto, con una
sfilata di audizioni. Ma poi la montagna ha partorito un topolino con un
risultato in cui la Commissione parlamentare di inchiesta (che avrebbe
dovuto indicare la responsabilità politica dei politici responsabili
della stagione delle stragi e della trattativa) li ha assolti tutti, la
politica si è autoassolta. Di una Commissione parlamentare così non ci
fidiamo e chiediamo che questa Commissione parlamentare sia invece
integrata in modo paritario da componenti della società civile. Dimostri
in questo modo il Parlamento di essere all’altezza delle aspettative e
se non lo fa il Parlamento si faccia una petizione popolare con una
raccolta di firme, con la quale si chiede alla Commissione parlamentare
che non inizi i propri lavori se non c’è una partecipazione dei
rappresentanti della società civile.
Credo che questo possa essere
solo un esempio del fatto che si può abbattere il muro di gomma e lo si
può abbattere non delegandolo soltanto alla magistratura, soprattutto
quando la magistratura è isolata, accerchiata, direi disarmata da un
potere politico istituzionale ostile in modo totale e globale. Credo che
in questi casi si possa riuscire a cambiare le cose soltanto con una
forte (non direi più mobilitazione popolare, non basta neanche più la
mobilitazione popolare) e vera e propria sollevazione popolare.
Abbiamo
bisogno di una sollevazione del popolo che vuole la verità, che vuole
che sia abbattuta l’omertà di Stato, che ha protetto fino ad oggi i
mandanti a volto coperto della strage di via d’Amelio e delle altre
stragi impunite del nostro Paese, una sollevazione popolare contro la
giustizia diseguale, forte con i mafiosi con la coppola e debole con i
potenti.
Leggeremo la motivazione della sentenza Mori, ma mi
colpisce che sia stata usata la stessa formula assolutoria, il fatto non
costituisce reato, già utilizzata per la mancata perquisizione del covo
di Riina e se i giudici del favoreggiamento Provenzano arriveranno alla
stessa conclusione (cioè che c’è un difetto di dolo), abbiamo uno dei
più importanti, acuti, intelligenti e abili investigatori di razza come
il Generale Mori che ha favorito la mafia, prima mancando di perquisire
il covo di Riina – senza rendersene conto – e ha favorito Provenzano per
la seconda volta – senza rendersene conto. Un caso paradossale di
favoreggiamento della mafia “a sua insaputa”, da parte del più alto e
più importante e più famoso investigatore del Paese.

Io non ci credo e
so che le cose non possono essere andate così.
Occorre questa
sollevazione popolare contro questo Stato. Questo Stato delle tante
trattative, che probabilmente oggi, dietro le quinte, avvengono; non so
cosa abbiano accertato o stiano accertando i colleghi sulla vicenda
relativa alla cosiddetta confidenza di Totò Riina all’agente di
custodia, ma quella non è una confidenza, quella non è una rivelazione:
quello è un messaggio in codice per riaprire altre trattative.
Ci
sono altre trattative in corso oggi, noi non vogliamo più uno Stato
delle trattative. Contro lo Stato delle trattative occorre appunto
questa sollevazione popolare, per uno Stato che sia davvero
intransigente.
Per abbattere quel muro di gomma, per una politica
che sia amica della giustizia e della magistratura e non ostile della
verità (come è stata ed è ancora oggi), nella consapevolezza che la
magistratura da sola non può cambiare il corso degli eventi, solo un
movimento di massa può scardinare il sistema criminale che oggi è
direttamente intrecciato con pezzi del sistema istituzionale. Lo può
scardinare non la magistratura, lo può scardinare solo un movimento dal
basso, credo che questo si debba fare, non solo per un dovere nei
confronti dei morti, ma lo si debba fare perché senza verità non avremo
democrazia, senza verità non avremo pace, e questa è una pace che
dobbiamo anche a chi non c’è più.

* Intervento di Antonio Ingroia al convegno “Paolo Borsellino: la mafia mi ucciderà ma saranno altri a volerlo”

Foto © Giorgio Barbagallo

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Paolo Borsellino: “La mafia mi ucciderà ma saranno altri a volerlo”

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